14 Dic 2018

Jihad sotto la Lanterna: le indagini antiterrorismo in Liguria (2013-2018)

Questo lavoro nasce dall’esigenza di studiare quei dettagli delle indagini sfuggiti alla cronaca giornalistica e di sistematizzare i dati per una comprensione più puntuale, sebbene non esaustiva, delle tendenze che interessano la Liguria in materia di radicalizzazione e terrorismo di matrice jihadista, nel periodo compreso tra il 2013 e il 2018. La trattazione si avvale […]

Questo lavoro nasce dall’esigenza di studiare quei dettagli delle indagini sfuggiti alla cronaca giornalistica e di sistematizzare i dati per una comprensione più puntuale, sebbene non esaustiva, delle tendenze che interessano la Liguria in materia di radicalizzazione e terrorismo di matrice jihadista, nel periodo compreso tra il 2013 e il 2018.

La trattazione si avvale del prezioso contributo di sentenze, ordinanze e colloqui con magistrati della Procura e del Tribunale di Genova.[1] Il pool antiterrorismo, coadiuvato dalla Digos e dal Ros dei Carabinieri, ha dovuto affiancare alla tradizionale minaccia anarchica le crescenti attività sull’estremismo religioso[2]. Attività dalle quali è scaturita la prima sentenza di condanna per terrorismo islamista a Genova, definita dall’ex procuratore nazionale Franco Roberti come una delle indagini più significative nella lotta allo jihadismo in Italia[3].

Le operazioni “Taqiyya”, “Fitna” e “Over the Web” hanno permesso di gettare luce sulla realtà ligure, talvolta sottovalutata. In particolare, le indagini hanno consentito di accertare il modus operandi degli islamisti, con l’uso di software e app ritenute più sicuri, come Telegram, Messenger e Viber, per comunicare; di scoprire rotte consolidate per l’afflusso di jihadisti in Libia, attraverso il Sudan, o l’uso dei traghetti anziché degli aeroporti; di osservare la frattura dottrinale tra radicali, che si interrogano sul ruolo del leader di al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, rispetto allo Stato Islamico.[4]

Si è tentato, inoltre, di sistematizzare i dati disponibili sugli indagati e sui foreign fighters partiti dalla Liguria, per trarne possibili tendenze, senza pretese di esaustività. I foreign fighters accertati rappresentano circa il 4% del numero nazionale, da cui sono ovviamente esclusi coloro che sono stati arrestati o espulsi prima di recarsi in Siria, coloro di cui le autorità non sono ancora a conoscenza e coloro i quali vi sono stati, ma senza combattere.

Tra gli indagati a Genova, invece, si osserva un’età media più alta rispetto a quella generale, un consistente numero di frequentatori di luoghi di culto, dovuto all’inchiesta sugli imam, e una varietà di affiliazioni che comprende Daesh, il Fronte Al Nusra (e successori) o più generali simpatie salafite radicali. Le comunità nazionali più rappresentate sono quella albanese e quella marocchina, seguite da tunisini ed egiziani.

La Liguria occupa una posizione speciale, collocandosi al centro di due virtuali direttrici strategiche. Una verticale, che connette il Maghreb all'Europa attraverso il Mediterraneo e, in particolare, il porto di Genova. Una orizzontale, che si snoda per l'Anatolia e i Balcani, risale la Penisola da Bari o Ancona, e attraversa la Liguria verso il sud della Francia. La rilevanza del confine francese è dimostrata dal frequente ripristino dei controlli a Ventimiglia-Mentone, nonché l'uso di questa rotta in altro genere di traffici illeciti[5].

La tesi di un canale di transito in Liguria sarebbe avvalorata anche dall'intelligence britannica, secondo cui alcuni foreign fighters utilizzavano questa rotta per raggiungere la Libia. I servizi del Regno Unito, infatti, affermavano che fosse possibile seguire sui social network il percorso degli aspiranti jihadisti, imbarcati da porti italiani per la Tunisia o la Libia[6]. Sebbene non vi siano casi accertati dallo scalo traghetti di Genova – le rotte alternative partono da Civitavecchia, Napoli, Salerno, Trapani e Palermo – l'esistenza di un collegamento marittimo con Tunisi rende il capoluogo ligure un potenziale snodo in tal senso. Dinamica confermata da operazioni antiterrorismo a Ventimiglia[7] e dal procuratore capo di Genova Francesco Cozzi, il quale ha riconosciuto che “il porto rischia di essere un crocevia pericoloso[8].

Per beneficio di trattazione, viene prima affrontata sinteticamente la minaccia in transito, per poi passare a quella stanziale. La prima riguarda tutti quei sospetti intercettati mentre viaggiavano attraverso la Liguria. La seconda costituisce il cuore del lavoro e concerne le principali inchieste giudiziarie sui radicalizzati nella regione.

 

Parte Prima – La Liguria come crocevia

 

  1. La frontiera marittima

Il porto di Genova costituisce uno snodo importante per il traffico passeggeri proveniente dal Nordafrica. La segnalazione dell’intelligence britannica non è isolata. La frontiera marittima di Genova ha sperimentato altri casi controversi che hanno coinvolto lo scalo traghetti. In una conversazione nel 2015 tra i fratelli Antar, condannati per terrorismo, Hakim confermò al fratello di essere andato in Egitto via nave: “…sì da Genova” e Hossameldin rispose “la cosa migliore”, alludendo ai minori controlli rispetto agli aeroporti[9].

Un primo episodio riguarda tre trafficanti libici che il 3 gennaio 2016 sbarcarono senza bagagli, alla guida di tre Hyundai ix35 bianche[10]. Le auto, prive di assicurazione e immatricolazione, furono sottoposte a sequestro. In seguito, fu accertato che appartenevano al parco macchine dell’amministrazione di Gheddafi. Secondo le indagini del procuratore Pier Carlo Di Gennaro, esperto in materia di riciclaggio, i tre aspettavano un basista nella zona del porto, che si sarebbe dileguato al momento dell'arresto[11]. Nei cellulari dei libici furono trovate immagini di sentenze di tribunali del regime di Gheddafi su riciclatori di auto per finanziamento del terrorismo, nonché immagini di guerriglieri dell'Isis. Gli arabi vennero fermati con l'ipotesi di riciclaggio aggravato dalla finalità di finanziamento del terrorismo.

Secondo il giudice per le indagini preliminari Cinzia Perroni, i libici avevano già compiuto numerosi viaggi sulla stessa direttrice Tunisi – Genova[12]. Il 12 febbraio vennero rilasciati per insufficienza probatoria per il reato di riciclaggio, pur proseguendo su di loro le indagini[13].

Parallelamente, il 6 gennaio 2016 furono fermati altri sette libici su altrettante auto, espulsi per i documenti non in regola[14]. Uno dei libici che transitò dal porto di Genova almeno tre volte, nel dicembre 2016 e nel gennaio successivo, fu arrestato il 22 luglio 2017 in Francia a Villefranche-sur-Saône, vicino Lione. Nella sua auto, una Toyota fuoristrada con targa e documenti libici, la Gendarmerie scoprì una pistola automatica calibro 9 e un machete[15]. L’arma era nascosta dentro un vano ricavato sopra il copriruota. Il libico (in stato di rifugiato a Malta) non seppe spiegare la provenienza della pistola, tantomeno la destinazione. Resta indagato per partecipazione ad associazione a delinquere finalizzata alla preparazione di altro reato dalle procure di Lione e Genova. Tali elementi evidenziano un potenziale nesso fra traffici illeciti transnazionali e ambienti dell’estremismo islamico.

Nesso che trova conferma in un’operazione condotta dalla Digos e dal Gruppo investigativo criminalità organizzata della Guardia di Finanza (Gico) nell’estate 2017. Sono infatti emersi interessi economici tra l’imam della moschea “As Sunna”, di cui si parlerà diffusamente in seguito, e uno dei trafficanti libici, frequentatore del centro di preghiera[16]. Si sospetta che il traffico di auto tra la Libia e l’Europa servisse a finanziare gruppi jihadisti. Questa operazione si affianca ad altre nei confronti di un tunisino, un siriano e quattro marocchini “di evidente e comprovata adesione all’ideologia religiosa islamica radicale e in particolare a quella riconducibile all’Isis”[17]. Il 20 luglio 2017, nell’appartamento di uno degli indagati furono sequestrati 3500 euro in contanti, una ventina di telefoni cellulari e altrettante targhe d’auto.

Un secondo episodio che interessa la frontiera marittima di Genova risale al 2015. Una cittadina rumena di 37 anni, Diana Ramona Medan, sposata con un tunisino e convertita all'Islam nel 2005, sbarcò da un traghetto proveniente dalla Tunisia, dove aveva trascorso due settimane di vacanza con la famiglia. La donna fu fermata per un provvedimento di accompagnamento coattivo alla frontiera[18]. Era infatti monitorata dal 2014 per proselitismo e contatti online con jihadisti, compreso Ismar Mesinovic, foreign fighter bosniaco residente a Longarone (Belluno), partito per la Siria e morto combattendo ad Aleppo. La famiglia della Medan viveva da tredici anni a Collalbo, vicino a Bolzano, con due figlie di 7 e 9 anni.

Dall’udienza di convalida del provvedimento emerse un certo fervore ideologico. Inizialmente il magistrato dubitava dell’effettiva pericolosità della donna, della quale andava considerata anche la situazione familiare, con un coniuge cittadino italiano per precedente matrimonio e le figlie. Tuttavia, furono prodotti documenti secondo i quali la sospettata sarebbe stata pronta al martirio, perciò fu espulsa. Dopo un breve periodo nella città natale di Cluj, la Medan lasciò la Romania e si trasferì a Innsbruck, per avvicinarsi alla famiglia residente a Bolzano[19]. In un'intervista dichiarò che non giustificava i terroristi di Parigi, ma che li comprendeva[20].

 

  1. La frontiera aerea

L’aeroporto internazionale Cristoforo Colombo, pur con un traffico passeggeri limitato[21], rappresenta un canale sensibile, anche alla luce del crescente nesso con la criminalità organizzata.

Il 31 dicembre 2015, un uomo e una donna mediorientali di 24 e 31 anni tentarono di imbarcarsi su un volo per Londra con documenti belgi contraffatti[22]. Dalle indagini emerse che i due avessero soggiornato dal 27 al 30 dicembre in un albergo di Genova, nella zona portuale di Principe, e avessero incontrato una persona nota agli investigatori per traffici illeciti. Fu chiesto il rinvio a giudizio per possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi. I due patteggiarono un anno e quattro mesi di reclusione[23]. La coppia parlava arabo, ma l’ambasciata iraniana a Roma, dopo essere stata interpellata due volte, confermò che si trattasse di cittadini iraniani, probabilmente della minoranza araba ahwazi, della regione del Khuzestan confinante con l’Iraq. L’episodio è stato inquadrato in un meccanismo ben rodato di traffico di essere umani; infatti, le indagini puntano al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Fermo restando che tali rotte possono essere sfruttate anche per finalità terroristiche, non sono emersi elementi a carico dei due in tal proposito.

Un caso più recente, curiosamente avvenuto a un anno esatto dal precedente, ha riguardato altri due giovani. Il 26 dicembre 2016 due cittadini albanesi atterrarono a Genova con un volo da Tirana. Il giorno seguente, tentarono di imbarcarsi per l’aeroporto di Londra Stansted con false carte d’identità greche, senza bagagli e con 500 euro ciascuno. I due furono fermati e identificati come Edvin Rapo, 30 anni, e Erald Hoxia, 26 anni, entrambi nati a Tirana e incensurati. Dissero di volersi recare in Inghilterra per cercare lavoro. Dopo la custodia cautelare, patteggiarono una condanna per possesso di documenti falsi con espulsione e rimpatrio in Albania. Questi due episodi, non necessariamente riconducibili a network islamisti, segnalano l’importanza del monitoraggio della frontiera aerea.

 

  1. La frontiera terrestre

Nonostante la libera circolazione attraverso il confine di Stato, Ventimiglia resta un punto cruciale di passaggio che ha subito varie chiusure o controlli rafforzati, in occasione del G7 o per via dello stato d’emergenza in vigore in Francia, a seguito degli attentati di Parigi nel 2015[24] e Nizza nel 2016[25]. Proprio il futuro stragista nizzardo, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, fu fermato a Ventimiglia il 4 ottobre 2015 per un controllo di polizia[26]. Stava portando cibo ai migranti accampati vicino alla frontiera, ma all’epoca risultava incensurato.

Anche Ahmed Hanachi, il tunisino che il primo ottobre 2017 uccise a coltellate due ragazze alla stazione di Marsiglia, risulta controllato dalla polizia francese di Mentone, probabilmente arrivando da Aprilia, dove aveva vissuto[27]. Suo fratello, Anis Hanachi, che aveva combattuto in Siria, fu arrestato pochi giorni dopo a Ferrara, ma è documentata la sua presenza in Liguria il 4 ottobre[28]. Inoltre, le autorità monitorano un amico dei due fratelli, Bousbi Farid, che era iscritto all’Università di Genova e si recava in Francia per incontrarli.

Il 13 gennaio 2017, la polizia francese trovò in una cassetta postale di Cannes un biglietto manoscritto, firmato “Repentis Daesh Nice-Grasse” (Pentiti di Daesh Nizza – Grasse)[29]. Il testo recitava: “Demain samedi 14 janvier 2 attentats sur le trains h 6.41 Vintimille-Turin, train 505 – h 11.05 Vintimille-Milan, train 745”. Si annunciavano pertanto due attentati su treni in partenza dalla stazione di Ventimiglia, pianificati da presunte cellule di Daesh con base a Nizza e a Grasse, vicino Cannes. Alle 21 del 13 gennaio le autorità francesi avvisarono della minaccia la questura di Imperia. Il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica accertò che il treno Ventimiglia-Torino, a quell’orario, effettivamente esisteva, mentre non risultava alcun treno Ventimiglia-Milano. Il 14 gennaio si decise perciò di effettuare la bonifica delle carrozze a Ventimiglia e il controllo di tutte le persone in ingresso alla stazione e dei passeggeri a bordo. Gli investigatori hanno considerato la minaccia reale; non è da escludere che, grazie alle defezioni di pentiti o alle misure di sicurezza, una cellula abbia desistito dall’attacco.

Infine, nel 2016 il Ros dei Carabinieri notificò un avviso di garanzia a un operaio marocchino di 47 anni residente a Ventimiglia, firmato dal sostituto procuratore Silvio Franz, in quanto ritenuto vicino agli islamisti radicali[30].

Occorre anche ricordare che la mente degli attentati del museo del Bardo e della spiaggia di Sousse, Noureddine Chouchane, sostò a Genova per ottenere un passaporto dal consolato tunisino[31]. Il terrorista fu poi ucciso in Libia, a Sabrata, da un raid americano il 19 febbraio 2016.

 

Parte Seconda – La minaccia locale

  1. Analisi delle informazioni su indagati e foreign fighters

La Liguria rappresenta una quota non trascurabile nella partenza dei volontari diretti in Siria ed Iraq. Stando alle informazioni a disposizione, cinque foreign fighters partiti verso il califfato avevano residenza in Liguria, la maggioranza a Genova, i restanti a Savona e Imperia[32].

A questi, vanno ad aggiungersi coloro che dalla Liguria hanno preso in considerazione l’idea di unirsi ai combattenti in Siria, ma sono stati arrestati o espulsi prima. In particolare, l’aspirante volontario di Al Nusra, Mahmoud Jrad, frequentatore delle moschee genovesi, che secondo alcune fonti si sarebbe recato in Siria già nell’estate 2015, benché senza combattere; l’egiziano Hakim Antar, residente a Finale Ligure (SV), di comprovata adesione a Daesh; Hosny Lekaa, residente a Borghetto Santo Spirito (SV), assolto in primo grado, simpatizzante salafita; Nabil Benamir, residente a Genova e affiliato all’Isis[33]. La Liguria si dimostra perciò un hub rilevante di partenza e residenza per gli aspiranti jihadisti.

La Procura di Genova ha indagato in diverse fasi più di dieci individui. Tra questi figurano il defunto Giuliano Delnevo, gli imam dell’operazione “Fitna” e il militante di Daesh in Libia Noureddine Chouchane. Dal conteggio sono esclusi i libici indagati per riciclaggio finalizzato al finanziamento del terrorismo e i fermati in aeroporto. A questi si aggiungono altri soggetti, che sono stati sottoposti alla semplice sorveglianza della polizia – almeno undici, compresi due albanesi a La Spezia, tre a Taggia (IM) e un marocchino a Ceriale (SV). Dal 2016, il Ros dei Carabinieri ha proceduto alla schedatura di una decina di sospetti nel Ponente ligure. I foreign fighters noti sono cinque, di cui tre con residenza a Genova, uno a Savona e uno a Imperia (residenza secondaria).

Infine, i condannati dal Tribunale di Genova per reati di terrorismo di matrice islamista ammontano a tre, di cui uno residente in Liguria e due in Lombardia. È in attesa di giudizio con rito abbreviato anche Nabil Benamir.

Occorre considerare che, a ottobre 2018, sono nove gli espulsi dalla Liguria per motivi di sicurezza dello Stato, di cui 5 a Genova, due a Imperia e uno ciascuno per La Spezia e Savona[34].

Uno dei foreign fighters, tunisino nato nel 1987 e residente a Genova, dopo essere sfuggito a un’operazione antiterrorismo a Hammam Lif, in Tunisia, si sarebbe recato in Siria nel giugno 2015 transitando per l’Italia. Nella primavera del 2015 si era procurato documenti falsi in Belgio. Invece, un marocchino nato nel 1989 e residente a Genova partì per la Siria già l’otto dicembre 2013. Un altro tunisino, nato nel 1975 e residente a Savona, si recò in Siria nel marzo 2014. Infine, un marocchino nato nel 1979, con residenza secondaria a Imperia, sarebbe anch’egli in Siria. Due tra questi foreign fighters sono certamente morti combattendo in Siria e Iraq, le notizie sulla sorte di un tunisino sono ancora contraddittorie[35]. Non è possibile escludere con certezza che altri individui, non ancora noti all’intelligence, abbiamo vissuto per breve tempo o transitato per la Liguria, prima di unirsi alle formazioni jihadiste in Siria ed Iraq.

Dall’analisi dei dati emergono alcune tendenze che, seppur basate su numeri esigui, offrono un’idea indicativa dei fenomeni che hanno interessato la Liguria. Pressoché la totalità dei soggetti coinvolti è di sesso maschile, mentre le donne fanno la loro comparsa solo a titolo di mogli o compagne degli indagati, senza però essere implicate nei processi di radicalizzazione. In termini di indagati residenti in Liguria, l’età media è superiore a quella prevalente negli anni Novanta[36]. Più di un terzo dei casi presi in considerazione frequentava un centro islamico in Liguria, un terzo non frequentava luoghi di culto, mentre per i restanti non è noto. Su questo dato influisce l’indagine che ha coinvolto vari imam genovesi. Sappiamo che più spesso, invece, la radicalizzazione avviene sul web, in prigione, ovvero in gruppi di coetanei e familiari. La quasi totalità dei soggetti considerati non ha precedenti penali o esperienza carceraria, salvo il marocchino Benamir.

Prendendo in considerazione tutti i soggetti noti, circa un terzo risiedeva a Genova, mentre il restante in altri comuni della Liguria.

In merito all’origine, i gruppi nazionali più consistenti sono gli albanofoni (comprensivi di kosovari e macedoni) e i marocchini, seguiti da tunisini, egiziani e infine gli italiani convertiti.

 

  1. Le indagini 2013 – 2016 

A. Giuliano Delnevo

Il caso più noto è certamente quello di Giuliano Ibrahim Delnevo, nato a Genova nel 1989, convertito ad Ancona nel 2008 e morto in Siria nel 2013[37]. Il giovane frequentò saltuariamente vari centri islamici genovesi, come quelli di via Sasso e di vico Amandorla, vicino a casa della madre, dai quali fu allontanato a causa delle sue posizioni radicali. Nel dicembre 2015, i procuratori Silvio Franz e Nicola Piacente chiesero l’archiviazione per il defunto Delnevo[38]. L’ipotesi di auto-arruolamento divenne fattispecie di reato solo dal 2015. Per acclarare la sua affiliazione, è utile identificare il luogo in cui Delnevo ha combattuto ed è morto.

Alcuni resoconti parlano della città siriana di Qusayr, non lontano da Homs, dove la madre Eva Guerriero avrebbe ottenuto il diario del figlio. La fine della battaglia di Qusayr risale al 5 – 6 giugno 2013, con una vittoria governativa. Tuttavia, il giornalista Ben Taub affermò sul sito di informazioni Daily Beast di aver parlato con un passeur, che fece entrare la Guerriero in Siria dal campo profughi di Bab al Salam, vicino alla città turca di Kilis, verso Aleppo[39]. La morte di Delnevo, per mano di un cecchino, risale alle prime ore del 12 giugno, quando comunicò al padre che il nemico si trovava a circa 100 metri, perciò ben oltre la data della battaglia di Qusayr. Come confermato da fonti investigative, la morte di Delnevo va collocata nell’ambito dell’operazione Northern Storm, iniziata dall’esercito di Assad il 9 giugno 2013 nelle campagne di Aleppo, che registrò gli scontri più violenti proprio tra il 9 e il 14.

La madre sarebbe entrata in contatto con jihadisti ceceni, pista che riconduce alla formazione Jaish Al Muhajireen wal Ansar (JMA) operante ad ovest di Aleppo, ed alleata di Jabhat Al Nusra, l’allora braccio siriano di al Qaeda[40]. La pista cecena è avvalorata da un’intervista a Umberto Marcozzi, convertito di Ancona e amico di Delnevo, secondo cui il genovese decise di unirsi ai ribelli in Siria: “Durante un suo viaggio in Cecenia che fece a scopi umanitari, poi, conobbe un gruppo di guerriglieri e decise di passare all'azione[41]. Non si hanno riscontri di questo presunto viaggio di Delnevo in Cecenia, ma l’immagine del profilo Facebook del giovane era il logo del Kavkaz Center, noto portale degli insorti ceceni. Il leader di Jaish Al Muhajireen wal Ansar, il georgiano di etnia cecena Abu Omar al Shishani, tra agosto e ottobre 2013 portò la sua formazione (con alcune defezioni verso al Nusra) in dote al nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Perciò l’affiliazione accertata di Delnevo è quella ad una brigata filo-qaedista. Tuttavia nel diario recuperato vi sono annotazioni che fantasticano di un futuro “Liguristan”. Il genovese disegnò anche la bandiera nera dell’Isis, non è possibile escludere del tutto che Delnevo avrebbe aderito allo Stato Islamico se fosse sopravvissuto sino alla sua proclamazione nel 2014.

 

B. Brahim Aboufares

Un altro caso di radicalizzazione riguarda Brahim Aboufares, diciottenne marocchino residente a Ceriale, in provincia di Savona[42]. Dalla fine del 2014, il ragazzo era monitorato dal Ros dei Carabinieri. Viveva in condizioni precarie, con cinque parenti in una casa senza riscaldamento e frequentava poco la scuola. Il padre in Marocco, avvertito dalla sorella, gli aveva chiesto di tenersi lontano da ambienti pericolosi, ma Brahim coltivava contatti online nella galassia jihadista, col marocchino El Madhi Halili, diffusore della traduzione italiana del documento “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”, nonché col reclutatore albanese Elvis Elezi, che aveva già spedito in Siria un ventenne. Nel 2015 le autorità decisero di intervenire con un provvedimento di espulsione. Secondo il procuratore Nicola Piacente, nel caso di Aboufares non si poteva nemmeno parlare di atti preparatori, ma la radicalizzazione costituiva un serio elemento di pericolosità[43].

 

C. La comunità albanofona

Un altro tassello per comprendere la minaccia del radicalismo in Liguria passa per la comunità albanofona, che comprende anche cittadini kosovari e macedoni.

Nel 2015, i Carabinieri individuarono tre sospetti di etnia albanese che dal 2014 vivevano a Taggia, nell'imperiese, e lavoravano nella valle Argentina[44]. Si erano integrati nella comunità albanese di Taggia, che conta almeno 200 connazionali.

Nell'ambito dell'operazione “Van Damme”, coordinata dalla Procura di Brescia, il primo dicembre 2015 fu smantellata una cellula jihadista tra il Kosovo e l'Italia. Le autorità kosovare arrestarono la mente del gruppo, Imishiti Samet, mentre altri tre sospetti furono espulsi dall'Italia[45]. Uno dei kosovari fu rintracciato in provincia di Savona, a conferma di un ambiente fertile per la comunità schipetara. Il gruppo di sospetti è risultato altamente pericoloso in considerazione dei “collegamenti diretti accertati con filiere jihadiste attive in Siria, riconducibili al noto terrorista kosovaro Lavdrim Muhaxheri[46].

Nell'aprile dello stesso anno, si attivarono indagini della Guardia di Finanza su due trentenni albanesi residenti a La Spezia, che si sarebbero recati in Siria per arruolarsi in formazioni qaediste[47]. Uno dei due sarebbe morto e l'altro sarebbe stato ferito gravemente. I due avrebbero preso parte ad un breve addestramento prima di partire. Tuttavia, i loro profili non risultano tra i foreign fighters noti alle autorità italiane[48].

 

D. Mahmoud Jrad

Nel 2016 l’antiterrorismo genovese indagò il siriano Mahmoud Jrad, nato a Idlib il primo settembre 1993, arrivato in Italia nel 2012 e residente a Varese con la famiglia. Il giovane studiò da elettricista e nel 2015 trovò un lavoro nel Lazio, ma dopo alcune settimane si dimise perché riteneva i suoi colleghi musulmani non abbastanza zelanti. Nel 2015 dunque Jrad avrebbe iniziato a radicalizzarsi e a frequentare anche alcuni luoghi di culto del centro storico di Genova, incluso quello di piazza Durazzo e quello di vico Amandorla, già frequentato da Giuliano Delnevo[49]. Il giovane fu presto segnalato per i suoi contatti telematici con la galassia jihadista. Dalla documentazione fotografica dei pedinamenti, risulta proprio in piazza Durazzo dove ha sede il centro di preghiera.

Jrad fu arrestato ad agosto 2016 con l’accusa di volersi unire al Fronte Al Nusra, braccio siriano di Al Qaeda. Secondo alcune fonti, si sarebbe già recato in Siria nell’estate 2015 per due mesi, ma con finalità matrimoniali, infatti non risulta nell’elenco ufficiale dei foreign fighters. Dall’analisi del cellulare emersero però messaggi audio dei ribelli impegnati negli scontri ad Aleppo e dalle intercettazioni ambientali si evidenziò la sua disponibilità a combattere. Nel carcere di Benevento, Jrad ha mostrato segni di squilibrio psichico, arrivando a strappare alcune pagine del Corano[50]. Una perizia psichiatrica disposta durante il procedimento ha accertato la semi infermità mentale. Diagnosi che non stupisce, in quanto non di rado elementi di psicolabilità e alienazione si mescolano al fanatismo ideologico tra le cause di radicalizzazione[51]. Nel marzo 2017, Jrad presentò richiesta di giudizio abbreviato e fu condannato a tre anni di reclusione ex art. 270 bis c.p. (Associazioni con finalità di terrorismo), cui si aggiunge un anno in una casa di cura e custodia[52]. Ma l’aspetto più rilevante ai fini di questa analisi è la sponda logistica e ideologica che Jrad trovò a Genova, confermata delle indagini che ci accingiamo a descrivere.

 

  1. Operazione “Fitna”, gli imam e la moschea “coperta”

Nell’ambito delle indagini sull’aspirante jihadista siriano, l’attenzione della Procura di Genova si è concentrata su alcuni luoghi di preghiera e i loro referenti.

In particolare, l’albanese Enes Bledar Brestha, imam del centro Al Fajr di piazza Durazzo, il marocchino Mohamed Naji, per i centri As Salam di vico Amandorla e As Sunna di via Castelli, e il giovane tunisino Mohamed Ali Othman a Rapallo (GE)[53]. Secondo la Digos: “…a Genova nel mese di dicembre 2015 era in corso di costituzione una vera e propria associazione criminale collegata alle organizzazioni terroristiche di matrice araba, prime fra tutte l'Isis”.

Brestha manteneva contatti Facebook con l’amministratore del sito “Forumiselefi.net”, che postava contenuti inneggianti al jihad e al martirio. Il 10 febbraio 2016, in occasione dell’evento “Moschee aperte: un laboratorio sulla convivenza”, Brestha ribadì l’importanza della separazione tra uomini e donne all’interno dei luoghi di culto. Scrive la Digos in una informativa al procuratore Manotti: “Non può non essere evidenziata a livello locale e provinciale la costante presenza dell’indagato Brestha in occasione di momenti di aggregazione organizzati da altri centri islamici o manifestazioni culturali”.

Inoltre, Bledar Brestha accolse nel centro di piazza Durazzo il siriano Jrad durante le sue visite genovesi. Ai microfoni di SkyTG24, l’imam affermò che Jrad non parlò mai con lui dell’arruolamento o di salafismo, limitandosi a visitare il centro per pregare e perché aveva un lavoro a Genova. Ricordò di averlo visto l’ultima volta a dicembre 2015[54], tuttavia, nel decreto di fermo, il procuratore Manotti scrisse che: “…a conferma della radicalizzazione si può rinvenire nel contenuto del messaggio WhatsApp di Jrad al gruppo Forum dei Salafiti in Siria e girato a Bledar il 12 gennaio in cui viene criticato l'attendismo di una certa parte del sunnismo per non aver portato ancora l'attacco al cuore dello sciismo in Iran[55].

Nei confronti di Brestha, la Procura chiese accertamenti alla Guardia di Finanza per fare luce su trasferimenti all’estero di quindicimila euro in poco più di tre mesi[56]. Una somma importante, se si considera che l’imam non aveva un’occupazione e si dedicava a tempo pieno al centro religioso. Fondi che potrebbero essere destinati, secondo le ipotesi investigative, al finanziamento di gruppi militanti. Ipotesi consolidata dal fatto che Brestha sarebbe coinvolto in prima persona in una raccolta fondi verso l’Albania. L’imam schipetaro è considerato dagli inquirenti: “il leader indiscusso delle moschee salafite nella provincia [di Genova, ndr]”. Si somma l’amicizia con un operaio albanese, Alia Rakip, che nel 2010 fu accusato di aver inviato e-mail di minacce alle ambasciate di Stati Uniti e Israele in Italia[57]. Gli investigatori sottolineano che Rakip: “sembra mantenere i contatti con il centro culturale islamico di Savona, come comprovato dall’incontro del 15 ottobre 2015 a Genova con Ulvi Martini, soggetto albanese musulmano oltranzista[58].

Tornando all’associazione criminale di cui scrive l’antiterrorismo genovese, a dicembre 2015 erano in svolgimento i lavori di ristrutturazione del centro As Sunna di via Castelli, nel quartiere genovese di Sampierdarena, ad alto tasso d’immigrazione. La Procura sostiene che i lavori si svolgevano: “in un clima di assoluto riserbo, con tanto di parola d’ordine per accedere” e che “gli indagati hanno individuato un immobile nei pressi della moschea per un controllo costante e utilizzano il segnale di una linea privata per collegarsi a internet[59]. La polizia fu insospettita dalla discrezione che circondava la “moschea coperta” di Sampierdarena e investigò anche sull’imam responsabile, Mohamed Naji. Sarebbe stato lui ad ospitare ed acquistare i biglietti del traghetto per i trafficanti libici arrestati in porto.

Tuttavia, l’imam marocchino respinse nettamente tutte le accuse. In un incontro con la stampa davanti al centro islamico, mostrò i volantini distribuiti contro il terrorismo e una raccolta firme. Rifiutò anche le contestazioni mosse: “Questa moschea è nata alla luce del sole. Abbiamo chiesto tutte le autorizzazioni, i permessi. Abbiamo avvisato i Carabinieri che stavamo aprendo. Nessuna parola d'ordine, nessuna vedetta. Sì, è vero che c'è sempre qualcuno affacciato a controllare ma è per dire ai fratelli di non dare fastidio magari se parlano a voce alta. Noi rispettiamo tutti, di tutte le religioni. Vogliamo bene a Genova e all'Italia[60]. Con le indagini, era stato anche sospeso il rinnovo del permesso di soggiorno per Naji, provvedimento contro il quale presentò ricorso. Ma nel gennaio 2017 la sua richiesta fu respinta, perché il matrimonio con un’italiana di Rapallo, convertita all’islam da 20 anni, fu ritenuto in qualche modo finalizzato ad ottenere il permesso di soggiorno[61].

Il terzo indagato, il tunisino Mohamed Ali Othman di Rapallo, fu sospettato per alcuni viaggi immotivati in Francia e Germania, che lui negò, sostenendo di essere stato solo in Egitto per studiare da imam. In generale, Rapallo e tutto il Tigullio appaiono potenzialmente di interesse per l’antiterrorismo ligure[62].

 

  1. Sentenza “Taqiyya” (2017)

Le indagini che hanno portato alla prima condanna per terrorismo islamico in Liguria sono nate nel 2015, nell’ambito dell’operazione “Taqiyya” della Sezione Anticrimine del Ros dei Carabinieri di Genova. A seguito degli attentati di Parigi nel novembre 2015, la polizia giudiziaria concentrò la propria attenzione sull’analisi dei social network, in particolare Facebook. Alcuni utenti, tra cui i fratelli egiziani Antar, avevano intrapreso un percorso di radicalizzazione. Sulla base delle acquisizioni investigative preliminari, la Procura di Genova dispose dal febbraio 2016 le intercettazioni telefoniche e telematiche a carico di cinque individui. Tale attività si protrasse fino al 27 ottobre 2016, e, per uno solo degli imputati, fino al 4 novembre.

Si tratta dei fratelli Antar, Hossameldin e Hakim, nati in Egitto rispettivamente nel 1973 e 1980, di Tarek Sakher, nato in Algeria nel 1982 e di Hosny Mahmoud El Hawary Lekaa, nato in Egitto nel 1985. Due dei quattro imputati risiedevano in Liguria. Hakim, il minore dei fratelli Antar, di professione pizzaiolo, viveva a Finale Ligure, in provincia di Savona, mentre Hosny, anch’egli pizzaiolo, era dal 2002 a Borghetto Santo Spirito, vicino Loano. Hossameldin Antar, ex macellaio in cassa integrazione, era residente in Lombardia a Cassano d’Adda (MI). Infine, l’algerino Sakher risiedeva a Tradate, vicino Varese.

 

A. Hakim Antar

Dalle intercettazioni emerse un’adesione degli indagati all’ideologia jihadista e alla propaganda dello Stato Islamico[63]. Hakim Antar, tramite la sua connessione internet a Finale Ligure, si è dimostrato particolarmente attivo online, attraverso l’uso di molteplici profili Facebook ed alcuni forum. Dal profilo “Hakim Hantar”, il 26 marzo 2015 postò citazioni coraniche abbinate alla foto di un comandante Isis intento a parlare a miliziani armati che ostentano la bandiera dell’organizzazione. Il 30 marzo, condivise la pagina “Battaglione della Gloria/Battaglione DABIQ”. Dal profilo “Ana Alzalm”, aderì ai gruppi chiusi “L’alba dello Stato Islamico” (che annoverava 932 membri) e “L’Islam è la soluzione, la Legge di Dio l’Onnipotente”. Da questo profilo, nel dicembre 2015, si unì alla community “Dabiq News” (Dabiq era il nome della rivista online dello Stato Islamico, pubblicata dal 2014 al 2016).

Da un ulteriore profilo Facebook, il 25 gennaio 2016 Antar condivise un video pubblicato da “L’assistito da Dio # Al Hayat Media Center” che conteneva il sottotitolo “Uccideteli ovunque li incontriate”. Il filmato in questione, accompagnato da una colonna sonora in francese “Questa nostra scelta l’abbiamo fatta solo per Allah. Uccidere con gioia”, riportava i messaggi lasciati dai cosiddetti “nove leoni del Khilafa” (Califfato), responsabili degli attentati di Parigi, e mostrava immagini di decapitazioni ed esecuzioni di prigionieri. Il primo febbraio 2016, Antar modificò il nome del profilo con la frase in arabo “L’ingiusto sono io, lei mi ha oppresso”, citazione attribuita a Ibn Taymiyya, noto teologo e teorico del jihad di epoca medievale, citata anche dal predicatore islamista yemenita Anwar Al Awlaki.

Oltre alle intercettazioni telematiche, da quelle dell’utenza telefonica emersero comportamenti dissimulatori, che spinsero gli investigatori a denominare l’indagine “Taqiyya” (pratica della dissimulazione precauzionale nella tradizione islamica, specialmente sciita), volti a celare l’adesione di Antar al movimento jihadista internazionale. Infatti, l’undici febbraio 2016, Hakim Antar fu fermato mentre si imbarcava all’aeroporto di Roma verso l’Egitto e i poliziotti gli chiesero la data di ritorno. Preoccupato per il controllo, fu intercettato alle 21:35 mentre telefonava a tale El Newihi El Hossiny, kunya Abu Abdallah, per sapere come comportarsi. L’interlocutore gli chiese se portasse la barba e se fosse presente su Facebook con il suo nome o uno pseudonimo. Infine, gli suggerì di cambiare la data di ritorno e di fare scalo in un altro paese europeo, come la Grecia o l’Ungheria, per evitare i controlli. I suggerimenti ricevuti corrispondono a quelli contenuti nel documento online “Come sopravvivere in Occidente. Guida del Mujahid”, fatto circolare dallo Stato Islamico nel 2015, in materia di dissimulazione dei comportamenti.

Inoltre, a Hakim Antar furono sequestrati, al momento dell’arresto, un tablet, uno smartphone e un computer portatile. Nella rubrica del tablet era contenuto il contatto di tale Ahmed Al Halawany, un aspirante foreign fighter che il fratello maggiore Hossameldin avrebbe aiutato a raggiungere la Libia, attraverso il Sudan. Dallo smartphone emerse invece che Hakim inviava somme di denaro ad altri fratelli, Hatem e Mohamed, entrambi in Arabia Saudita, di cui il secondo ricercato in Egitto dal Mukhabarat per la condivisione online di materiale di Daesh. Nel cellulare erano presenti anche 5 immagini di stampo jihadista tra cui una pagina della rivista Al Nabā, del 21 giugno 2016, che riportava la notizia del martirio di Abu Faruk Al Hussini e Abu Bilel Al Ansari mentre combattevano i “crociati”. Fra i contatti dell’applicazione Messenger risultava una figura di primo piano di Daesh nel Wilaya (“Provincia”) Sinai. Infine, il portatile sequestrato conteneva fotografie di un combattente a cavallo che sventola la bandiera del califfato e di Abu Omar Al Shishani (alias del georgiano Batirashvili), comandante militare di Daesh ucciso in Iraq.

 

B. Hossameldin Antar

Dalle investigazioni della Procura genovese, emerse non solo una piena e convinta adesione di Hossameldin all’ideologia dello Stato Islamico, ma anche un suo ruolo attivo di reclutatore e coordinatore logistico. Come il fratello minore, anch’egli era solito utilizzare molteplici profili Facebook con nomi a lui non riconducibili. Nell’analisi del soggetto, è lecito pensare che la condizione personale di Hossameldin, ex macellaio in cassa integrazione residente alla periferia di Milano, con una moglie e figli a carico, possa aver influito nel senso di frustrazione e fallimento che lo condussero alla radicalizzazione. Nel corso delle indagini, Hossameldin fu monitorato mentre ascoltava per molte ore la radio online dell’Isis, Al Bayan.

Il 25 aprile 2016, dal profilo “La fiamma della guerra”, pubblicava la foto del martire Abu Muslim, identificato nel foreign fighter canadese Andre Poulin, morto in Siria nell’estate 2013, protagonista di un video di Al Hayat Media Center in cui invitava gli islamici in Occidente a collaborare col califfato[64]. La foto era accompagnata dal commento “Che la pace sia con te, possa Allah proteggere lo Stato Islamico i suoi leader e le loro idee e i suoi soldati e sostenitori”.

Dall’analisi delle chat intercorse con altri simpatizzanti di Daesh, risulta anche che Hossameldin Antar ha rappresentato un punto di riferimento per coloro che chiedevano giustificazioni dottrinali per le azioni più brutali compiute dallo Stato Islamico. Infatti, il 30 marzo 2016, gli fu domandato se l’esecuzione del pilota giordano Al Kasasbeh, arso vivo dall’Isis in Siria, fosse giustificabile in base al Corano e alla Sunna[65]. Hossameldin affermò che: “…in caso di punizione si ricambia con la stessa punizione come citato sul Corano, chi vi maltratta dovete maltrattarlo altrettanto con la stessa misura con la quale vi ha trattati”[66]. L’interlocutore marocchino dunque rispose: “Hai ragione sì, nella sura di Al Baqara. Fratello mi piacerebbe imparare dal popolo del Khilafa perché i faqih [esperti di fiqh] non ci fanno pervenire il corretto messaggio sono tutti all’oscuro”[67], riferendosi alle fatawa dei dotti moderati che condannano l’Isis.

Hossameldin precisò di non fare ancora parte dell’esercito del califfato: “…ma sono un agguerrito sostenitore dello Stato del Califfato e chiedo a Dio di farmi unire a loro in salute con le tue preghiere”[68]. A quel punto, Hossameldin disse di essere originario dell’Egitto e il marocchino gli suggerì di unirsi al Wilaya Sinai, ma Antar rispose che: “…si tratta di una delle regioni più difficili, non ha nessun confine con uno stato dal quale si può scappare e il passaggio lì necessita di un coordinamento molto difficile”[69]. Dunque emerse una certa riluttanza di Hossameldin a passare dalle parole ai fatti, accampando scuse e preoccupandosi di avere una via di fuga nel caso l’esercito egiziano fosse riuscito a soverchiare gli jihadisti nel Sinai, che confina con Israele, il quale sta conducendo attività di counter-insurgency nella penisola con il benestare del Cairo[70].

In un dialogo intercorso con un altro utente, il 31 marzo 2016, Hossameldin apprese che l’interlocutore si trovava in Siria nei territori controllati dall’Isis, si congratulò con lui e si augurò di poterlo raggiungere. Il 21 aprile, Hossameldin si offrì di gestire il profilo Facebook di un combattente Isis ucciso in Siria, facente parte della Katiba (traducibile con “Brigata”) di Abu Bakr Al Siddiqi. Infatti, poco dopo la conversazione, Antar pubblicò il seguente post dal profilo “A’awdat Al Khilafa”: “La pagina sarà un punto di diffusione del Tawhid [cioè il principio dell’unità e unicità di Allah, ndr] e delle notizie dello Stato [Islamico, ndr]. Chiediamo ad Allah che faciliti la lealtà e accetti il nostro fratello fra i martiri. Il vostro fratello Al Hossam Bin Antar”[71].

Mohamed, fratello dei due Antar in Italia, era fuggito in Arabia Saudita ma temeva di essere estradato in Egitto, dove era ricercato. Perciò Hossameldin tentò di farlo trasferire in Cina tramite l’interessamento di un terzo, tale Abu Abdallah Al Madani, alias Eslam Khamis, il quale a sua volta si rivolse a Hossameldin per unirsi all’Isis in Siria. Hossameldin rassicurò il fratello sul fatto che Al Madani fosse persona fidata, in quanto lo conosceva “dai tempi di Hazimoun”, con riferimento al movimento del politico salafita egiziano Hazem Salah Abu Ismail, per i quali i due avevano simpatizzato. Inoltre, nella stessa conversazione, Hossameldin chiese a Mohamed un contatto in Libia per Ahmed Al Halawany, un aspirante foreign fighter conosciuto anche dal fratello residente a Finale Ligure. Mohamed fornì il contatto di tale Osama, originario di Sharkya, meglio conosciuto come “il cecchino di Sirte”.

Mohamed, in una chat dell’applicazione Telegram, intercettata il 9 maggio 2016, dall’Arabia Saudita espresse a Hossameldin il desiderio di immolarsi come martire e il fratello gli augurò di raggiungere l’obiettivo. Hossameldin chiese anche al fratello di procurargli una fatwa che giustificasse un prestito bancario per finanziare i combattenti in Siria, dato che: “…dovrei prendere dei soldi, la ditta per la quale lavoravo è fallita e dovrebbe liquidarmi più di 30 mila euro”. Dalle conversazioni, si nota la diffusa convinzione che i sistemi di messaggistica quali Telegram siano sicuri e al riparo da intercettazioni.

Al Madani, alias Eslam Khamis, che Hossameldin tentava di aiutare a raggiungere la Siria, era un commerciante di pietre preziose dal cui profilo Twitter risultava la seguente bio: “Egiziano residente in Medina, amo tutti i musulmani e spero nella nascita del Califfato Islamico e che Allah mi conceda il martirio per amor Suo”[72]. In una telefonata con Hossameldin, Khamis usò delle perifrasi ed evitò di nominare esplicitamente la Siria o Daesh, affermando di voler: “…fare un viaggio lontano però è difficile avere il visto e le strade sono chiuse, non conosco nemmeno una strada, desidero trovare una strada…ho contattato un mio amico…in Sir…nel senso da lì”. Parlò in codice anche riguardo al rischio di cadere nelle mani di una fazione rivale: “…qualsiasi squadra di calcio in cui andrai a far parte è molto probabile che tu cadi nelle mani della squadra avversaria”[73]. Inoltre, in una successiva conversazione, Hossameldin e Khamis sembrano simpatizzare per l’idea della catena del takfir (termine che può essere tradotto con “scomunica”) del predicatore wahhabita Ahmad Al Hazimi, laddove criticano il leader salafita Hazem Salah Abu Ismail per essersi candidato alle elezioni e dunque aver accettato la democrazia degli infedeli[74].

Il 16 aprile 2016, un altro soggetto chiese aiuto a Hossameldin per raggiungere la Siria, questi rispose che: “…quello che so adesso che per quanto riguarda la terra del Sham è difficile, per la Libia sarebbe meglio”. La recluta si mostrò interessata all’alternativa e chiese come procedere, perché sprovvisto della tazkia, un accreditamento che un terzo deve fornire come garanzia del fatto che il volontario non sia un infiltrato. Hossameldin promise di attivarsi per trovare un contatto. Non riuscito ad ottenere un passaggio per Khamis in Siria, cercò di trasferire anche lui in Libia, perciò chiese aiuto a tale Amro Azb, alias Zaki Kodra, di origine egiziana e dimorante in Sudan, in quale rispose: “…digli di venire pure in Sudan ci penso io a mandarlo in Libia […] l'importante è che entri in Sudan. Garantisci tu per lui?”[75]. Eslam Khamis, interessato ad unirsi a Daesh in uno qualsiasi dei suoi territori, aggiunse che: “…se ci fosse una strada sicura per la Wilayat del Sinai sarebbe ottimo”. Appare dunque che i reclutatori di Daesh usassero una rotta consolidata che dal Sudan conduce i migranti del Corno d’Africa verso il sud est della Libia, attraverso l’oasi di Al Kufra, per poi giungere sulla costa, nelle enclavi all’epoca controllate dagli jihadisti.

Assume particolare rilievo per la dimensione dottrinale la chat Telegram dell’8 maggio 2016, tra Hossameldin e Eslam Khamis. Quest’ultimo domandò l’opinione di Antar su Ayman Al Zawahiri, leader di Al Qaeda, rispetto allo Stato Islamico e a Jabhat Al Nusra. Hossameldin rispose che: “…di lui non ci si può fidare, giuro che è l’unica persona che è riuscita a dividere là i fratelli”[76]. Khamis tuttavia obiettò che Al Zawahiri fosse comunque uno jihadista, ma si affrettò a precisare che la sua fosse solo una richiesta di informazioni e non una polemica. Antar quindi rispose che gli avrebbe inoltrato dei video dell’Isis per delucidare i suoi dubbi. Khamis ringraziò e chiese se ci fosse differenza tra lo Stato Islamico in Libia e nel Sham, Hossameldin risposte: “è tutta terra del jihad”.

Al momento dell’arresto, a Hossameldin furono sequestrati un cellulare Nokia, un portatile e un cellulare Samsung. Dalla lettura dei messaggi sul Nokia, fu accertato che Mohamed Antar era ricercato in Egitto per aver condiviso sui social video relativi all’attacco terroristico dell’Isis nel novembre 2014 nel porto di Damietta e dell’attacco nel 2015 ad una stazione di polizia di Al Arish, capoluogo del Sinai. Dallo stesso dispositivo furono estratte altre conversazioni con il fratello Hakim, residente a Finale Ligure. L’8 novembre 2015, come accennato, Hossameldin chiese a Hakim se fosse andato in Egitto con la nave, questi disse: “Sì da Genova” e ricevette come risposta “la cosa migliore”, alludendo ai minori controlli rispetto agli aeroporti.

Nel cellulare Samsung furono rinvenuti un video intitolato “Centro media Al Hayat L’alba del califfato e il ritorno del Dinaro d’oro pubblicazioni dello Stato Islamico”; una foto di Ali Saqr Al Qasem, miliziano dell’Isis noto per aver giustiziato in pubblico sua madre a Raqqa, perché incoraggiato dalla stessa a lasciare l’organizzazione; una foto di Mohammed Emwazi meglio noto come Jihadi John, e un canto nasheed jihadista. Fu rinvenuta anche una conversazione Skype con la moglie, Noha Abdelmonem Dorgham, nel 2016, nella quale Hossameldin affermava: “Lo Stato sta per riconquistare Palmira, se Dio vuole” e rideva per l’attacco compiuto il 18 luglio da un diciassettenne afghano radicalizzato, armato d’ascia su un treno in Baviera.

Infine, nel personal computer di Antar fu rinvenuto un video intitolato “Lettera ai musulmani sinceri” dell’ex-portavoce dell’Isis Abu Mohammad Al Adnani, scaricato il giorno dopo la morte del medesimo. Il portatile conteneva anche un video degli jihadisti suicidi in Yemen, le indicazioni dei siti internet che spiegano come eliminare le tracce di conversazioni e uno screenshot relativo alle operazioni di Daesh in Bangladesh, tra cui viene citato l’attacco al “miscredente crociato italiano” Piero Parolari, missionario ferito da tre jihadisti di Jamaat ul Mujahideen Bangladesh, braccio locale dell’Isis[77].

 

C. Hosny Mahmoud El Hawary Lekaa

Hosny fece il suo ingresso nelle indagini il 10 marzo 2016, quando venne intercettata una conversazione con Hossameldin Antar, dalla quale si comprese che al rientro dall’Egitto avesse fatto scalo in Grecia per eludere i controlli aeroportuali. Hosny Mahmoud El Hawary Lekaa nacque nel 1985 in Egitto, nel distretto di Al Manufiyya, a soli 400 metri dalla casa degli Antar. Nel 2002 emigrò in Italia e lavorò come pizzaiolo a Borghetto Santo Spirito, presso Loano.

Dalla conversazione con Hossameldin, emerse la radicalizzazione di Hosny, che menzionò un tale sceicco Khaled El Rassy, il quale si chiedeva: “Perchè loro ci uccidono e noi stiamo in silenzio?”, con riferimento all’Egitto e alla Siria “…schiacciata dalla Russia e il mondo pensa che la Russia sia la colomba di pace”. In una successiva telefonata, Hosny e Hakim Antar, entrambi residenti in Liguria, parlarono di Hossameldin, irreperibile sul cellulare da una settimana, preoccupandosi della sua sorte. Hosny funse da intermediario con soggetti terzi, al fine di avvisare Mohamed Antar che, qualora fosse tornato in Egitto dall’Arabia Saudita, sarebbe stato arrestato dal Mukhabarat per terrorismo. Infine, sul profilo Facebook di Hosny, il 24 febbraio 2016 la polizia giudiziaria rinvenne un post di tale Abdo Zayan che chiedeva: “Sei di Daesh o cosa?”, al quale Hosny rispose: “No, solamente amo il jihad sulla strada di Allah e spero di morire sulla sua strada”. Sul cellulare sequestrato al momento dell’arresto, fu recuperata una chat del 20 settembre 2016, nell’applicazione Viber, contenente citazioni del teologo hanbalita Ibn Taymiyya, che definiva gli sciiti alleati degli infedeli contro i musulmani sunniti, concludendo con un appello al jihad contro i miscredenti.

 

D. Tarek Sakher

Tarek Sakher, nato in Algeria nel 1982 e residente a Tradate, in provincia di Varese, fece ingresso nelle indagini il 17 ottobre 2016, grazie a una chat intercettata dal Ros dei Carabinieri. Infatti, il profilo Facebook “Aba Rokaya Al Ansari” contattò Hossameldin Antar per ottenere la formula di giuramento di fedeltà all’Isis. Antar, dopo una ricerca sul web, gli inviò uno screenshot contenente una parte del giuramento. Per identificare l’utente “Al Ansari”, gli investigatori risalirono alla linea Adsl intestata alla cittadina marocchina Fatima Ljarmati, residente a Tradate, la quale condivideva l’appartamento col marito algerino Tarek Sakher. Fu poi accertato che nell’appartamento viveva il solo Sakher in quanto la moglie prestava servizio di badante a tempo pieno a Cislago (VA).

In una conversazione telefonica fra Sakher e la Ljarmati, fu attestata la radicalizzazione dell’indagato e il suo odio verso i non-musulmani. La moglie definì l’anziana assistita una miscredente: “…si è svegliata quella kafra [traducibile con “miscredente”]”, mentre quando riferì a Sakher che sarebbe venuta in visita una suora, parente dell’anziana, questi le intimò di mantenere le distanze: “…allontanati da loro vita mia…non sederti con loro capito?! […] quando vengono questi tipi poi si mettono a parlare di cose loro non ti sedere con loro e non ti avvicinare nemmeno a loro”[78]. Sakher avrebbe poi postato il giuramento ricevuto da Hossameldin su Facebook.

Sul telefono cellulare Samsung emersero conversazioni che dimostrano l’intenzione di Sakher di compiere un attentato in nome dello Stato Islamico. Si rivolse a un tale Abu Ahmad Al Jazairi, il quale lo rassicurò del fatto che i responsabili per gli esplosivi in Europa fossero informati della sua disponibilità. Il 14 settembre 2016 un commento di Sakher mise in luce la sua completa radicalizzazione e adesione alla strategia stragista di Daesh, considerando la taqiyya per restare insospettabili sino all’ultimo: “…quello che mi piacerebbe è che i kuffar bastardi non devono riuscire a prenderci…non devono mai sentir parlare di noi, devono solo dire 'op' sai quello lo vedevamo passare di qua sotto i portici, era una persona normale…guarda un po' che ci ha fregati ah…ecco…devono impazzire a starci dietro…”[79]. Mentre il 7 ottobre 2016, si dimostrò un pericolo imminente: “…non ce la faccio più… sono in mezzo a questi kuffar ogni giorno mi piacerebbe fare di loro una carneficina… giuro che sono stanco… sono veramente stanco”[80]. Infatti, il 28 ottobre scattò l’arresto per Sakher, come per gli altri indagati.

Anche il fratello, Redouane Sakher, residente a Bergamo, fu indagato ed espulso per motivi di sicurezza nazionale. Era accusato di aver acquistato una sim card per il fratello Tarek, il cui numero sarebbe poi finito in uso ad un miliziano in Siria. Redouane, giunto in Italia nel 2002 come clandestino a bordo di una nave mercantile, aveva una condanna per spaccio del 2009 e precedenti per contrabbando di sigarette[81]. Nel maggio 2008 aveva sposato una donna italiana convertita all’islam[82]. Tuttavia, a nostro avviso mancano del tutto le evidenze accusatorie per ipotizzare nel suo caso un legame islamista o un percorso di radicalizzazione.

 

E. Il processo e le condanne

Il 25 ottobre 2016, il pubblico ministero dispose il fermo degli indagati, eseguito il 28 ottobre nei confronti di Tarek Sakher e dei due fratelli Antar. Hosny invece era in Egitto e fu arrestato il 4 novembre alla stazione ferroviaria di Genova Principe, mentre tornava a Borghetto Santo Spirito. In sede di udienza di convalida del fermo, Tarek Sakher e Hossameldin Antar si avvalsero della facoltà di non rispondere, mentre Hakim Antar dichiarò che suo fratello Hossameldin fosse solo un simpatizzante dei Fratelli Musulmani. Circostanza smentita da una chat del 30 aprile 2016, in cui Hossameldin definì “cani” i membri della Fratellanza, aggiungendo che: “la loro vergogna è arrivata addirittura a circondare Falluja mano nella mano con le milizie sciite”[83].

Nel corso dell’interrogatorio dell’8 novembre 2016, Hosny dichiarò di non condividere l’ideologia dell’Isis, in quanto contrario alla violenza, e ricordò che nel 2011 avesse salvato da un incendio una persona disabile senza preoccuparsi della sua nazionalità. Circostanza comprovata da articoli di giornale. Aggiunse inoltre che quando utilizzava le parole jihad e morire sulla strada di Allah, si riferiva al “grande jihad” (come sforzo interiore). Il giudice dell’udienza preliminare Roberta Bossi celebrò il processo con rito abbreviato. Il pubblico ministero Federico Manotti chiese la condanna ex art. 270 bis c.p. a sei anni e otto mesi per Tarek Sakher e Hossameldin Antar, mentre per Hakim e Hosny la pena di cinque anni e quattro mesi[84]. Per tutti fu chiesta anche l’espulsione dal paese a pena espiata. La Presidenza del consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno si costituirono parte civile.

Il 13 settembre 2017 fu pronunciata sentenza di condanna a sei anni per Hossameldin Antar e Tarek Sakher, a cinque anni per Hakim Antar e di assoluzione nei confronti di Hosny Lekaa, per non aver commesso il fatto. Ad avviso del giudice, le risultanze investigative portavano ad escludere che gli imputati avessero costituito una cellula dello Stato Islamico in Italia, ma vi erano le prove di una loro partecipazione internazionale all’organizzazione. Nel corso di un’audizione in commissione parlamentare, l’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti definì l’indagine “Taqiyya” come una delle più significative nella lotta al terrorismo. Tuttavia, il sostituto procuratore Manotti, non soddisfatto per l’assoluzione di Hosny Lekaa, nel dicembre 2017 si avvalse, per la prima volta in Italia, di una delle possibilità contenute nel nuovo codice antimafia: chiese l’obbligo di dimora nella città di residenza. Nel frattempo, impugnò la sentenza di assoluzione ritenendo vi fossero gli elementi per un giudizio di appello nei confronti di Hosny per concorso esterno e apologia del terrorismo. Al momento della stesura di questa analisi, l’egiziano continua a risiedere in Liguria a Borghetto Santo Spirito.

Nel maggio 2018, la corte d’assise d’appello di Genova ha ridotto le pene per Tarek Sakher a quattro anni, mentre per i fratelli Antar ha riqualificato il reato in apologia del terrorismo e ridotto la pena a tre anni e otto mesi ciascuno. La corte ha confermato l’assoluzione di Hosny Lekaa e disposto l’espulsione dei tre condannati a fine pena[85]. Inoltre, il legale di Hossameldin Antar aveva ottenuto dalla corte d’assise d’appello il trasferimento dal carcere di Rossano Calabro ai domiciliari a Cassano d’Adda. In seguito, il tribunale del riesame di Genova ha accolto l’opposizione del procuratore Manotti e disposto il ritorno in prigione di Hossameldin[86].

 

  1. Operazione “Over the Web

L’indagine sul marocchino Nabil Benamir iniziò quasi per caso, all’alba del 4 agosto 2017, quando una ragazza incinta, poi rivelatasi la compagna di Benamir, si presentò alla Questura di Genova raccontando di essere stata picchiata e rinchiusa in casa, ma di essere riuscita a scappare[87]. Gli agenti arrestarono il marocchino per maltrattamenti, lesioni aggravate e sequestro di persona. Benamir aveva occupato abusivamente una casa popolare del Comune, nel centrale quartiere della Foce[88]. A seguito dell’arresto, il suo profilo venne confrontato con quelli dei database internazionali. Proprio nel giugno 2017, l’intelligence italiana aveva acquisito importanti informazioni su Benamir. Le indagini della Digos di Genova e del Servizio di Contrasto dell’Estremismo e del Terrorismo Esterno dell’Ucigos, insieme ai contributi di Aisi, della polizia olandese, di Europol e dell’Fbi statunitense, portarono alla conferma: il marocchino apparteneva alla rete jihadista dello Stato Islamico[89].

Dal materiale sequestrato a Benamir, il sostituto procuratore Manotti ravvisò gli estremi per un’ordinanza di custodia cautelare in carcere ex art. 270 bis. Il Gip eseguì l’ordinanza nel dicembre 2017, cui seguì il trasferimento dell’indagato dal carcere genovese di Marassi ad una sezione di Alta Sicurezza in Sardegna[90]. In particolare, i due cellulari sequestrati rivelarono materiale di propaganda di Daesh, incluso un bando di arruolamento del califfato contenente timbri, informazioni sulle località dove arruolarsi e le sanzioni per i disertori. Fu rinvenuta anche una pubblicazione dell’Isis sulle “Operazioni militari più importanti dello Stato Islamico nel giugno 2017: 3150 uccisioni tra cristiani, ebrei, apostati” e un video della rivista Rumiyah, sull’uso dei tir per compiere attentati in Occidente. Ma gli elementi più inquietanti furono senza dubbio gli screenshot di istruzioni per l’uso di vecchi cellulari come innesco a distanza di esplosivo, ricevuti via Telegram. Infatti, oltre ai due smartphone di ultima generazione, Benamir fu trovato in possesso anche di un vecchio Nokia modello 3310, che avrebbe potuto essere trasformato in detonatore[91].

La Digos confermò trattarsi di un soggetto che negli ultimi due anni aveva viaggiato dalla Spagna alla Norvegia, passando per Germania e Olanda. Benamir ha vissuto a Genova quasi ininterrottamente dal 2006 al 2015, dove tra l’altro aveva accumulato un certo numero di condanne per furto, spaccio e l’occupazione di un appartamento nel quartiere di Nervi. Era finito due volte in prigione, ad Arbus in Sardegna e a Caltanissetta[92]. Dopo l’esperienza in carcere, viaggiò per l’Europa e tornò a Genova all’inizio di aprile 2017, dopo aver lasciato l’Olanda e la Germania, dove aveva richiesto con esito negativo un permesso di soggiorno. Nel capoluogo ligure, inizialmente dormì accampato nella tendopoli dei migranti alla Foce, poi con la compagna occupò l’appartamento popolare di via Pescatori.

Secondo la testimonianza della compagna, in un primo tempo Benamir frequentava maghrebini poco religiosi, ma improvvisamente cambiò compagnia e divenne taciturno, mostrando segni di insofferenza e accessi d’ira. Su Telegram fu rinvenuto un gruppo dal titolo “Lupi solitari” di otto membri, che secondo il procuratore Manotti: “induce a pensare all’esistenza di una cellula jihadista strutturata, sebbene non sia stato ancora possibile identificarne gli appartenenti, per dar corso ad un preciso disegno criminale di natura terroristica”. La Procura di Genova ha perciò aperto un secondo fascicolo contro ignoti, nel frattempo i membri del gruppo erano saliti a 23 ma, probabilmente venuti a conoscenza dell’arresto di Benamir, hanno smesso di comunicare con quel canale. Gli investigatori ritengono che gli altri utenti Telegram non risiedano in Italia, fra loro è stato identificato un certo Zieb Al Munfarida, con contatti in Siria. Nell’ordinanza del Gip, si legge che Nabil scrisse alla sorella Farah: “Ha chiamato il chiamante…devo andare al lavoro…parliamo un’altra volta. Inshallah, che Dio allunghi la mia età e il mio destino. Prega per me per la Shahada e che accetti il mio lavoro”. La sorella rispose con toni preoccupati: “Specificami di cosa stai parlando… o Dio… ma di che lavoro si tratta?”. Secondo il giudice per le indagini preliminari, la locuzione “ha chiamato il Chiamante” si riferirebbe alla Sura coranica Al Imran, versetto 139, usata in modo particolare in ambito islamista per le persone che “stanno per incontrare Dio” e pronunciata all’indirizzo dei martiri.

Gli elementi raccolti dagli investigatori sembrano delineare il profilo di una completa radicalizzazione con elevata pericolosità. Il processo con rito abbreviato, con inizio fissato al 29 settembre 2018, dovrà chiarire quali rapporti il marocchino intratteneva con la struttura siriana di Daesh, chi fossero i membri del gruppo “lupi solitari” e se avesse pianificato attentati con le istruzioni in possesso. Gli investigatori sono orientati a pensare ad un ruolo di reclutatore più che di attentatore. Nel braccio Alta Sicurezza 2 del carcere di Sassari “Giovanni Bacchiddu”, dove Benamir è rinchiuso, sono stati notati segnali di ulteriore radicalizzazione e violenza, con il marocchino che intona anashid jihadisti come Salil al Sawarim (“tintinnio di spade”)[93]. Il 7 gennaio 2018, grazie alle intercettazioni ambientali, la polizia penitenziaria registra le celebrazioni dei detenuti jihadisti nella ricorrenza dell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. Benamir rammenta agli altri: “Sono le 8 e 36, tre anni fa la strage di…”, altri detenuti gridano Allah Akbar. Dalle intercettazioni emerge anche che nei primi mesi del 2018 uno dei radicalizzati insieme a Benamir si sarebbe procurato un coltello e avrebbe voluto attaccare un agente penitenziario, ma sarebbe stato fermato da un altro detenuto[94]. Il processo con rito abbreviato, iniziato il 29 settembre 2018, si è concluso il 27 novembre con la condanna di Benamir a 5 anni e 10 mesi di reclusione per associazione con finalità di terrorismo, rispetto agli 8 anni e 8 mesi richiesti dalla procura[95]. Inoltre, è stato condannato a risarcire lo Stato per cinquantamila euro.

 

  1. Da Bengasi a Genova

Un’indagine complessa ha riguardato due individui e la loro rete di appoggio a Genova. Si tratta del 23enne siriano Abdelrahman Ismail e del 34enne libico Moftah al Sllake. Quest’ultimo fu segnalato dall’Fbi all’intelligence italiana, dopo essere sbarcato in Sicilia e aver viaggiato con il siriano tra Francia, Germania e Milano. Nel 2016 Abdelrahman era domiciliato nel quartiere genovese di Sampierdarena, mentre il libico era ospitato presso il centro Don Orione di via Berghini nel quartiere di Camaldoli e nella “Casa Bozzo” di via Edera a Quezzi, assegnati dalla prefettura[96]. Le indagini della Digos hanno acclarato l’affiliazione di Moftah al Sllake al gruppo qaedista responsabile dell’attacco al compound statunitense di Bengasi nel 2012, in cui perse la vita l’ambasciatore J. Christopher Stevens[97]. Nel corso dei pedinamenti, Moftah si recò due volte presso il centro commerciale Fiumara nel quartiere genovese di Sampierdarena, dove tuttavia non sembrava interessato ai prodotti quanto piuttosto agli ambienti, facendo sospettare dei sopralluoghi di preparazione per qualche azione. È stato accertato che si sottopose anche a terapie odontoiatriche a Sampierdarena. In una occasione fu Farhat A., salafita pachistano e richiedente asilo di 35 anni, ad accompagnare in treno Moftah alla Fiumara[98].

Sia il libico che il siriano frequentavano il centro islamico di via Prè a Genova, dove disponevano di una rete d’appoggio per la fornitura di documenti falsi e cure mediche. In particolare, i due fratelli libici Yosf e Ali S., disponibili a procurare biglietti falsi per i traghetti dalla Tunisia, oppure un giovane siriano che fornisce ai ricercati aiuto per ricorrere a cure mediche. Nel 2016, i sostituti procuratori Silvio Franz e Federico Manotti indagarono Moftha al Sllake e Abdelrahman Ismail, che tuttavia si erano dati alla latitanza, e nel 2018 hanno chiesto il rinvio a giudizio[99]. Al momento, pende un mandato di cattura internazionale e la segnalazione dell’Fbi dimostra la serietà dei sospetti confermata dalle indagini italiane.

 

Conclusioni

Prima dell’avvento dello Stato Islamico, la Liguria era stata scarsamente interessata dal radicalismo islamico e dal terrorismo jihadista. Le reti di Al Qaeda e di altri gruppi islamisti erano concentrate a Milano o altrove. Salvo sporadici casi, come per un 49enne tunisino residente a Perinaldo (Imperia), indagato dalla Digos di Genova per possesso di materiale celebrativo di Hamas e delle brigate Al Qassam[100].

Ciò che ha senza dubbio contribuito a cambiare questa situazione è la propaganda capillare di Daesh e la sua capacità di attrazione, che ha avuto il suo picco intorno al 2015 con le conquiste territoriali in Siria ed Iraq. L’Isis ha inoltre indirizzato il suo messaggio ad un nuovo e ben più vasto pubblico, rispetto a quello qaedista. La radicalizzazione, in Liguria come in Europa, ha toccato individui spesso poco religiosi, in condizioni economiche precarie, socialmente frustrati o emarginati in quanto immigrati, ex carcerati, che sono stati facilmente galvanizzati dalla proposta di una riscossa personale offerta dall’Isis. Gli esempi più icastici arrivano dalle storie di Giuliano Delnevo, alla ricerca di una verità spirituale e determinato a combattere l’ingiustizia della umma umiliata; di Brahim Aboufares, uno dei tanti adolescenti “caduti” nella trappola propagandistica di Daesh; di Nabil Benamir, precipitato nel vortice della criminalità e born again dopo il carcere; dei fratelli Antar, in quella logica di radicalizzazione familiare ben descritta, tra gli altri, da Olivier Roy[101].

Non è facile da questa prospettiva intravedere le tendenze future per la Liguria come per il resto dell’Italia. Il reclutamento di foreign fighters ha visto una battuta d’arresto con la sconfitta militare del califfato nel Mashreq, ma lo Stato Islamico potrebbe sopravvivere in altre forme e cercare persino una nuova dimensione territoriale altrove. Le ampie comunità islamiche, da quella araba a quella albanese, residenti in Liguria, potrebbero correre il rischio di costituire terreno fertile per eventuali tentativi di proselitismo. L’inchiesta Fitna mostra che anche i luoghi di culto, specialmente quando emarginati dalle istituzioni, possono essere a rischio di infiltrazione da parte di radicali. La grande esperienza e competenza accumulate in questi anni dalla Procura di Genova e dalla polizia giudiziaria saranno una garanzia nel monitoraggio di questi fenomeni, sebbene l’episodio di un cosiddetto “lupo solitario” sia spesso imprevedibile. In tal senso, saranno decisive anche le misure messe in campo dalle istituzioni, nazionali e locali, per politiche di prevenzione diffusa della radicalizzazione, dalla sensibilizzazione nelle scuole e nei centri sportivi, sino alle carceri.

 Note

[1] A questo riguardo, eventuali errori o omissioni nella presente ricostruzione sono da attribuirsi all’autore.

[2] A titolo di esempio, Caso Adinolfi, confermate in appello le condanne per Cospito e Gai, Il Secolo XIX, 11 luglio 2014.

[3] G. Filetto, S. Origone, Condanne pesanti al primo processo per terrorismo islamico a Genova, La Repubblica, 13 settembre 2017.

[4] Pur nella consapevolezza dell’evoluzione storica del gruppo terroristico, qui, per semplicità, i termini Stato Islamico, Isis, Is e Daesh vengono utilizzati sostanzialmente come sinonimi.

[5] Ventimiglia, controlli a tappeto della polizia di frontiera: arrestati quattro stranieri, Riviera24, 8 settembre 2017.

[6]M. Townsend, British jihadis heading to join Isis switch routes via Italy, The Guardian, 23 maggio 2015.

[7] M. Grasso, T. Fregatti, Caccia due uomini dell'Isis in Liguria: sono pericolosi e armati, Il Secolo XIX, 14 gennaio 2016.

[8] S. Origone, Porto, allerta terrorismo “Rischia di diventare un crocevia pericoloso”, La Repubblica, 6 gennaio 2016.

[9] Chat su Whatsapp dal telefono sequestrato a Hossameldin Antar, sentenza 859/17, Genova.

[10] Terrorismo: tre nuovi arresti a Genova, c'è anche adesione a Isis, ANSA, 5 gennaio 2016.

[11] T. Fregatti, M. Indice, La Procura: "I libici arrestati avevano un basista a Genova", Il Secolo XIX, 7 gennaio 2016.

[12]M. Indice, La Procura: "I libici fermati erano già stati a Genova", Il Secolo XIX, 9 gennaio 2016.

[13] Terrorismo, scarcerati i tre libici arrestati a gennaio, Il Secolo XIX, 12 febbraio 2016.

[14] S. Origone, Porto di Genova, altri sette libici fermati ed espulsi, il pm: "Traffico di auto finanzia Jihad", La Repubblica, 6 gennaio 2016.

[15]G. Filetto, Terrorismo libico Indagine tra Lione e porto di Genova, La Repubblica, 24 settembre 2017.

[16]M. Grasso, Terrorismo, massima allerta a Genova. Indagini su una cellula libica in città, Il Secolo XIX, 5 settembre 2017.

[17] M. Grasso, L’inchiesta sulla cellula “libica”, Imam genovese finanziato da sospetto terrorista, Il Secolo XIX, 6 settembre 2017.

[18]S. Origone, Jihad, romena sbarcata a Genova subito espulsa dal Viminale, La Repubblica, 20 agosto 2015.

[19] L. Galeazzi, Terrorismo islamico, cittadina rumena espulsa dall’Italia ottiene alloggio sociale in Austria: "Non è pericolosa", Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2015.

[20]M. Grasso, Espulsa per sostegno all’Isis: "Non giustifico gli attentati ma li comprendo", Il Secolo XIX, 27 novembre 2015.

[21] Aeroporto Colombo, il salto per il 2018: “Un milione e mezzo di passeggeri”, Il Secolo XIX, 4 gennaio 2018.

[22]S. Origone, Arrestati a Genova come sospetti di terrorismo: "Via all'Iran per diventare cristiani", La Repubblica, 4 gennaio 2016.

[23] S. Origone, Genova, nuovi controlli anti-terrorismo, processo per i fratelli iraniani, La Repubblica, 12 febbraio 2016.

[24] P. Mazzarello, Ventimiglia, soldati al confine contro il terrorismo, Il Secolo XIX, 18 dicembre 2015.

[25] C. Del Frate, A. Pasqualetto, Attentato di Nizza, rafforzati i controlli al confine per evitare una fuga in Italia, Corriere della Sera, 15 luglio 2016.

[26] F.Q., Terrorismo, Anis Amri e gli altri stragisti passati per l’Italia. “Decifrato il codice dell’attentatore di Berlino”, Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2016.

[27] L’attentatore di Marsiglia controllato dalla Polizia di Frontiera di Mentone, La Riviera.it, 3 ottobre 2017.

[28] Marsiglia, fratello dell’attentatore aveva combattuto in Siria, RaiNews24, 9 ottobre 2017.

[29]P. Isaia, Terrorismo, pianificato attentato in Italia: trovato un biglietto con scritte in francese, Il Secolo XIX, 16 gennaio 2017.

[30] T. Fregatti, M. Indice, Terrorismo, indagato un operaio a Ventimiglia. Il Ros scheda 10 sospetti, Il Secolo XIX, 31 gennaio 2016.

[31] S’indaga sui contatti liguri di Chouchane, la “mente” dell’attentato al Bardo, Il Secolo XIX, 16 marzo 2016.

[32]Database dei foreign fighters legati all’Italia, ISPI – Osservatorio sulla Radicalizzazione e il Terrorismo Internazionale. Si veda anche Francesco Marone e Lorenzo Vidino, Destinazione jihad. I foreign fighters d’Italia, Rapporto, ISPI, 2018.

[33] Relazione sulla politica dell’Informazione per la Sicurezza al Parlamento 2017, Dis.

[34] Database ISPI – Osservatorio sulla Radicalizzazione e il Terrorismo Internazionale, sulla base di informazioni del Ministero dell’Interno.

[35] Fonti di intelligence e da Digos.

[36] Cfr. L. Vidino, F. Marone, E. Entenmann, Jihadista della Porta Accanto, radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente, ISPI – ICCT – GWU, 2017.

[37] L. Vidino, Il jihadismo autoctono in Italia: nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione, p. 70, ISPI, 2014.

[38] La Procura: "Nessuna prova che Delnevo abbia partecipato a atti terroristici", Il Secolo XIX, 2 dicembre 2015.

[39] E. Dellacasa, Il diario di “Ibrahim”, jihadista Genovese: capi in hotel, noi in tenda, Corriere della Sera, 24 agosto 2014.

[40] Cfr. www.trackingterrorism.org/group/muhajireen-brigade.

[41] G. Piccardo, Giuliano Ibrahim Delnevo: l'amico Umberto Marcozzi: "Mi scrisse che in Siria i martiri profumano", Huffington Post, 18 giugno 2013.

[42]M. Indice, La storia di Aboufares: "Così fu plagiato il filo-jihadista espulso in Liguria", Il Secolo XIX, 21 novembre 2015.

[43] Intervista al Procuratore Nicola Piacente.

[44] P. Isaia, Cellula jihadista attiva a Taggia, Il Secolo XIX, 10 gennaio 2015.

[45]Terrorismo, 4 fermati tra Italia e Kosovo. Sul web scrivevano: "Questo sarà l'ultimo Papa", La Repubblica, 1 dicembre 2015.

[46]Per un profilo di Muhaxheri cfr. M. Pugliese, La lunga storia del jihadismo nei Balcani, Limes, 14 dicembre 2015.

[47] S. Traverso, "Cellula jihadista arruolata alla Spezia", Il Secolo XIX, 17 aprile 2015.

[48] Database dei foreign fighters legati all’Italia, ISPI – Osservatorio sulla Radicalizzazione e il Terrorismo Internazionale.

[49] S. Origone, Terrorismo, siriano arrestato dalla polizia di Genova, indagati anche tre imam, Il Secolo XIX, 3 agosto 2016.

[50] Terrorismo, in Siria per la Jihad: condannato a tre anni, Il Giorno, 31 ottobre 2017.

[51] P. R. Neumann, The trouble with radicalization, International Affairs, Volume 89, Issue 4, luglio 2013, pp. 873-893.

[52] Terrorismo, il presunto jihadista Jrad chiede il rito abbreviato, Il Secolo XIX, 9 marzo 2017.

[53] T. Fregatti, M. Grasso, Genova crocevia di estremisti: fermato siriano, indagati tre imam, La Stampa, 4 agosto 2016.

[54] T. Fregatti, M. Grasso, Il centro di preghiera blindato dei filo jihadisti, Il Secolo XIX, 4 agosto 2016.

[55] S. Origone, Terrorismo, sotto inchiesta anche tre imam genovesi ‘Nel 2015 in città si stava formando un’associazione’, La Repubblica, 4 agosto 2016.

[56] S. Origone, Genova, i soldi sospetti all'estero dell'imam di piazza Durazzo nel mirino della Procura, La Repubblica, 5 agosto 2016.

[57] S. Origone, Un arresto e 6 indagati Sotto inchiesta anche tre imam genovesi, La Repubblica, 4 agosto 2016.

[58] Genova, i soldi sospetti all'estero dell'imam di piazza Durazzo nel mirino della Procura, op. cit.

[59] S. Origone, Un arresto e 6 indagati Sotto inchiesta anche tre imam genovesi, op. cit.

[60] Genova, uno degli imam indagati: "Noi raccogliamo firme contro il terrorismo", La Repubblica, 5 agosto 2016.

[61] Respinto permesso soggiorno imam Genova, Ansa Liguria, 17 gennaio 2017.

[62] S. Pedemonte, Terrorismo, l’allarme per la sala di preghiera a Rapallo era già scattato da tempo, La Repubblica, 4 agosto 2016.

[63] Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[64]M. S. Schmidt, Canadian Killed in Syria Lives On as Pitchman for Jihadis, ISIS Uses Andre Poulin, a Convert to Islam, in Recruitment Video, The New York Times, 15 luglio 2014.

[65] Un hadith del Ṣaḥīḥ di al-Bukhārī stabilisce infatti che solo Allah possa punire col fuoco.

[66] Pag. 16, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[67] Ibidem.

[68] Pag. 17, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[69] Ibidem.

[70]D. Kirkpatrick, Secret Alliance: Israel Carries Out Airstrikes in Egypt, With Cairo’s OK, The New York Times, 3 febbraio 2018.

[71] Pag. 19, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[72] Pag. 29, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[73] Pag. 30, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[74] Una fazione ancor più radicale dello Stato Islamico sotto il profilo dottrinale si è fatta strada nel mondo salafita e anche tra i jihadisti in Siria. Secondo tale interpretazione predicata da Ahmad al Hazimi, coloro che non dichiarano takfir nei confronti di ogni eretico o miscredente e mantengono contatti sociali sono a loro volta infedeli, in una sorta di catena. Si veda: V. Mironova, E. Sergatskova, K. Alhamad, The Bloody Split Within ISIS, Foreign Affairs, 8 dicembre 2017.

[75] Pag. 35, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[76] Pag. 44, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[77] Bangladesh, ferito gravemente un missionario italiano a due mesi dall'uccisione di Tavella, La Repubblica, 18 novembre 2015.

[78] Pag. 58, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[79] Pag. 76, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[80] Pag. 89, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[81]M. Berbenni, G. Ubbiali, L’algerino espulso per terrorismo: “La sim era per mio fratello”, Corriere della Sera, 17 ottobre 2016.

[82] G. Sturlese Tosi, Redouane Sakher, intervista all’algerino espulso per sospetto terrorismo, Panorama, 31 ottobre 2016.

[83] Pag. 37, Sentenza n. 859/17, Tribunale di Genova, 30/09/2017, depositata il 12/12/2017.

[84]Terrorismo, operazione Taqiyya: il Pm chiede condanne per quattro fondamentalisti, IVG, 24 giugno 2017.

[85] Terrorismo, pene ridotte in appello a Genova per tre fondamentalisti, Il Secolo XIX, 15 maggio 2018.

[86] K. Bonchi, Scarcerato dopo condanna per terrorismo, il riesame: deve tornare in prigione, rischio proselitismo sul web, Genova 24, 2 agosto 2018.

[87] Arrestato per aver picchiato la fidanzata: marocchino nei guai con l'antiterrorismo, Primocanale, 5 agosto 2017.

[88] M. Indice, Abusivi senza controllo così il terrorista Isis viveva nella casa popolare, Il Secolo XIX, 20 dicembre 2017.

[89] Sito della Questura di Genova: questure.poliziadistato.it/Genova/articolo/8465a3908ba59349573378216.

[90] Terrorista trasferito in un carcere di massima sicurezza, La Repubblica, 27 dicembre 2017.

[91] Genova, arrestato terrorista islamico. Il Gip: «Attendeva l’ordine per agire», Il Secolo XIX, 19 dicembre 2017.

[92] K. Bonchi, La ex del terrorista arrestato: “Era diventato taciturno e aveva nuovi amici”. In Procura un nuovo fascicolo per dare la caccia ai membri della cellula jihadista, Genova24, 20 dicembre 2017.

[93] K. Bonchi, Terrorismo, chiesto il giudizio immediato per Benamir: in carcere intona l’inno dei tagliatori di teste, Genova24, 15 giugno 2018.

[94] M. Indice, Sassari, nel “supercarcere” le rivolte in nome del Califfo, Il Secolo XIX, 16 giugno 2018.

[95] Terrorismo, 5 anni e 10 mesi allo jihadista “pronto a immolarsi” fermato a Genova, Il Secolo XIX, 27 novembre 2018

[96] Terrorismo, dalle indagini genovesi emerge che uno dei due jihadisti aveva effettuato sopralluoghi alla Fiumara, Genova Quotidiana, 26 aprile 2018.

[97] Fonti Digos.

[98] T. Fregatti, “A Genova fiancheggiatori insospettabili degli jihadisti”, Il Secolo XIX, 28 aprile 2018.

[99] Chiesto giudizio per due jihadisti Genova, ANSA, 29 maggio 2018.

[100] Terrorismo, indagato tunisino a Imperia, ANSA, 13 dicembre 2017.

[101] O. Roy, Generazione Isis. Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l'Occidente, Milano, Feltrinelli, 2017.

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