28 Mar 2019

La minaccia jihadista dopo il Califfato

L'ISIS dopo Baghouz

“Lo alleverò secondo il modo dello Stato Islamico”, così ha risposto ai giornalisti una giovane donna, allattando il proprio neonato nato nel “Califfato”, durante la fuga dalla cittadina siriana di Baghouz, ultima roccaforte dello Stato Islamico, caduta definitivamente sabato 23 marzo. La donna ha poi aggiunto: “Nonostante tutto – la fame e i bombardamenti – ci sentivamo bene”. Le dichiarazioni di questa giovane madre, che connettono saldamente un’esperienza passata a una prospettiva futura, da sole rivelano efficacemente i rischi della minaccia jihadista dopo la fine della sua incarnazione territoriale in Siria e Iraq.

Il cosiddetto Stato Islamico o Daesh – a differenza del suo maggior competitor nella galassia jihadista, al-Qaeda – non costituiva soltanto un gruppo terroristico e un’organizzazione guerrigliera. Era infatti riuscito nell’impresa di costruire una sorta di Stato, appunto, che, al suo apice, si estendeva su un territorio di decine di migliaia di chilometri quadrati e controllava una popolazione di milioni di persone. Inoltre, il gruppo aveva dimostrato spiccate doti organizzative, esibendo da subito una propensione per l’amministrazione burocratica.

A ben vedere, l’organizzazione guidata da Abu Bakr al-Baghdadi aveva proposto ufficialmente un modello di Stato peculiare, caratterizzato, in primo luogo, da confini fluidi, in virtù di un progetto rivoluzionario di continua espansione territoriale per mezzo della violenza e, in secondo luogo – a differenza dei potentati premoderni (come gli antichi Califfati islamici, cui si richiamava) – dall’intento di rendere socialmente e culturalmente omogenea la propria popolazione, su rigide basi ideologiche.

L’esaurimento della dimensione territoriale viene ad eliminare un tratto che era in realtà inusuale, riportando l’organizzazione a logiche più comuni nella storia del terrorismo: quelle di un gruppo armato clandestino che si oppone ad alcuni stati con atti di violenza colpisci-e-fuggi, spesso dotati di alta valenza simbolica, per sopperire a una posizione di netta inferiorità militare.

Lo Stato Islamico ritorna quindi ad assumere una configurazione simile a quella che aveva prima della repentina e imprevista ascesa nel 2014. Anche per questo, sarebbe un errore sopravvalutare l’impatto della sconfitta militare in Siria e Iraq. Oltretutto, alcune delle condizioni che hanno favorito direttamente o indirettamente tale avanzata cinque anni fa, come il senso di frustrazione della minoranza sunnita in Iraq, sono ancora presenti. Inoltre, l’area al confine tra Siria e Iraq potrebbe rivelarsi ancora una volta di particolare salienza. Il motto del gruppo armato, “rimanere ed espandersi”, rimane valido, sebbene l’accento cada ora prevalentemente sul primo elemento.

Non vi sono dubbi sul fatto che la scomparsa del sedicente “Califfato” costituisca una grave perdita per l’organizzazione jihadista. A livello operativo, il controllo diretto di un territorio consentiva al gruppo di attrarre e addestrare militanti, pianificare attacchi di ampia portata, raccogliere e testare armi, accumulare ingenti risorse. A livello propagandistico, il concetto del Califfato rappresentava, com’è noto, un elemento cruciale e distintivo della sua narrativa estremistica.

L’esperienza del “proto-stato jihadista” porta comunque allo Stato Islamico alcune eredità rilevanti. In primo luogo, è opportuno ricordare che la formazione di al-Baghdadi è stata di gran lunga il più ricco gruppo terroristico del mondo e uno dei più ricchi della storia. Secondo analisi e resoconti recenti, è ancora oggi una potenza economica, in grado di aver accesso a centinaia di milioni di dollari. La perdita del territorio ha causato naturalmente una forte riduzione delle entrate (in particolare, provenienti dalla “tassazione”/estorsione dei propri “cittadini” e dallo sfruttamento di giacimenti petroliferi nell’area), ma, dall’altra parte, consente ora di concentrare le uscite sulle attività di terrorismo e guerriglia, senza più sopportare costi legati all’esperienza del governo.

Le risorse umane sono ancora più salienti. Il gruppo può ancora contare su numerosi militanti e simpatizzanti. Il 15 marzo 2019, pochi giorni prima della caduta di Baghouz, fonti ufficiali degli Stati Uniti sostenevano che vi fossero ancora “tra i 15.000 e i 20.000 aderenti a Daesh” in Siria e Iraq. Lo stesso leader al-Baghdadi sarebbe ancora attivo, a dispetto di una gigantesca caccia all’uomo e, secondo alcuni resoconti giornalistici, persino di presunti golpe interni.

Le dichiarazioni della giovane madre citate in precedenza segnalano eloquentemente che l’esperienza del “Califfato” continua a ispirare e motivare almeno una parte di coloro i quali l’hanno conosciuto e vissuto di persona in Siria e Iraq. Come gli studiosi hanno più volte evidenziato, al percorso di disimpegno dalle attività estremistiche e, al limite, terroristiche non corrisponde necessariamente un processo di deradicalizzazione dei valori e degli atteggiamenti. Il fenomeno riguarda non soltanto i maschi adulti che hanno combattuto nei ranghi dell’organizzazione, ma anche le donne che lo hanno sostenuto senza poter prendere le armi (perché non autorizzate) e indirettamente i bambini che sono stati condotti nell’area o vi sono nati, senza poterlo decidere.

Un altro rischio è che i combattenti sopravvissuti possano trasferirsi in altre aree di conflitto, unendosi a gruppi jihadisti affiliati allo Stato Islamico. L’organizzazione di al-Baghdadi, infatti, può ancora contare su una consistente rete formata da gruppi affiliati e Wilayat (Province) che continuano ad operare in diverse parti del mondo, diffondendo la causa jihadista e rendendosi responsabili di atti di violenza.

Uno dei continenti maggiormente interessati da questo fenomeno è l’Africa. Nel nord della Nigeria, al confine con Niger, Ciad e Camerun, è tuttora attiva la Wilaya dello Stato Islamico in Africa Occidentale. Secondo una recente analisi della BBC, nel 2019 il gruppo avrebbe già rivendicato direttamente 34 attacchi in Nigeria – registrando un netto aumento rispetto al 2018, quando furono rivendicati 45 attacchi in tutto l’anno.

In Egitto, invece, la Wilaya del Sinai si è resa protagonista di un’intensa campagna di terrorismo e guerriglia, lanciando attacchi contro le forze di sicurezza egiziane e i cristiani copti. L’organizzazione ha anche rivendicato l’abbattimento di un aereo di linea russo il 31 ottobre 2015, costato la vita a 224 persone. Di rilievo sono anche le attività degli altri gruppi affiliati in Libia, Tunisia, Somalia, nel Sahara e in Africa occidentale.

Anche nel Sudest asiatico diversi gruppi jihadisti hanno aderito allo Stato Islamico, formando una Wilaya attiva specialmente nelle Filippine. A maggio del 2017, la Wilaya è stata protagonista della conquista della città di Marawi, nel sud dell’arcipelago filippino – un’operazione complessa, effettuata da diverse centinaia di miliziani che hanno poi resistito per cinque mesi all’assedio dei militari filippini.

Sotto l’ombrello dello Stato Islamico e delle sue Wilayat, diversi gruppi armati sparsi per il mondo hanno così potuto beneficiare del “marchio” dell’organizzazione per elevare a livello globale la propria causa (spesso di natura locale) e beneficiare dell’expertise sviluppato dall’organizzazione e dai suoi combattenti in Iraq e in Siria. La proliferazione di queste Province in Africa, nel Sudest asiatico, ma anche in Afghanistan, Pakistan e nello Yemen rappresenta una minaccia globale concreta.

Il crollo del “Califfato” in Siria e Iraq è destinato ad avere un impatto significativo anche in Occidente. Come accennato, a livello operativo, la realizzazione di questa sorta di utopia estremistica aveva incoraggiato migliaia di persone a trasferirsi nel Levante. Il fenomeno dei foreign fighters jihadisti non costituisce una novità assoluta; nondimeno, il flusso di combattenti jihadisti diretti in Siria e in Iraq negli ultimi anni è stato senza precedenti. Secondo le stime disponibili, nel complesso, più di 40.000 individui sono partiti da oltre 80 paesi; di questi tra i 5.000 e i 6.000 provenivano dall’Europa. I foreign fighters legati a vario titolo all’Italia risultano invece 138, di cui 25 con passaporto italiano.

In Occidente il timore principale è naturalmente che i foreign fighters jihadisti sopravvissuti alle ostilità possano ritornare per supportare o eseguire attacchi terroristici, avvalendosi dei legami, dell’addestramento, dell’esperienza e dello status sociale che hanno ottenuto nelle aree di conflitto. Secondo dati originali dell’Osservatorio sulla radicalizzazione e il terrorismo internazionale dell’ISPI, su 101 attentatori che hanno eseguito 78 attacchi terroristici di matrice jihadista in Occidente dalla proclamazione del “Califfato” (29 giugno 2014), 14 sono stati realizzati da veterani jihadisti. Si tratta quindi di una minoranza (13,8%), ma associata ad attacchi di particolare gravità, come quelli del 13 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles.

Per quanto riguarda la propaganda, la caduta del Califfato costituisce un ulteriore colpo per il gruppo armato; un colpo considerevole, ma non decisivo. La comunicazione dello Stato Islamico aveva già conosciuto una riduzione quantitativa e un’involuzione qualitativa con la ritirata militare nel 2017. È facile ipotizzare che l’organizzazione di al-Baghdadi possa essere in grado di accomodare ancora una volta la propria attività propagandistica al mutato contesto. D’altra parte, l’organizzazione ha già dimostrato di saper trasformare abilmente dei fallimenti sul campo in “successi” nella propaganda. Lo Stato Islamico potrà, per esempio, sviluppare il tema della “nostalgia” nei confronti dell’utopia perduta. Probabilmente grande attenzione sarà ancora dedicata all’evocazione dei tanti nemici, compresi gli “infedeli” occidentali, allo scopo di motivare e mobilitare simpatizzanti e militanti.

Vale la pena di notare che nell’ultimo messaggio ufficiale della leadership dell’organizzazione, un lungo discorso in arabo diffuso il 21 marzo 2019 (a quasi sei mesi di distanza dal precedente), il portavoce Abul-Hasan al-Muhajir ha rimarcato l’importanza della “pazienza” per raggiungere la “vittoria”. Significativamente ha anche menzionato i recenti attacchi a due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda; questi riferimenti confermano il pericolo di un circolo vizioso tra gli opposti estremismi dello jihadismo e dell’estrema destra.

Di fondamentale importanza continuerà a essere la propaganda sul web. Il mondo virtuale di internet, infatti, presumibilmente continuerà a essere – insieme con il carcere – uno degli ambienti più rilevanti per lo jihadismo, pur in una fase di apparente arretramento in cui la minaccia è meno visibile a causa della scomparsa del “Califfato” in Medio Oriente, appunto, ma anche della flessione degli attacchi terroristici in Occidente[1].

Nonostante tale flessione, soltanto in Europa vi sono ormai decine di migliaia di persone sospettate di simpatizzare per la causa jihadista, con vari gradi di coinvolgimento personale. Lo Stato Islamico potrà continuare a diffondere messaggi estremistici, incoraggiando anche questi fiancheggiatori a passare dalle parole ai fatti. D’altra parte, occorre ricordare che, sulla base delle informazioni disponibili, già prima del crollo del “Califfato”, la maggior parte degli attentatori in Occidente non faceva organicamente parte del gruppo o di altre organizzazioni terroristiche, ma era soltanto ispirata a distanza.

Alcune delle condizioni e delle dinamiche che hanno favorito la mobilitazione jihadista in Europa – come la presenza di bacini di reclutamento in crescita, la disponibilità di “imprenditori” e intermediari estremisti, la persistenza di influenti conflitti armati nel mondo musulmano e l’opportunità di impiegare internet con relativa libertà – sono ancora presenti e difficilmente verranno meno nel breve-medio periodo.

In conclusione, il crollo del Califfato in Siria e Iraq costituisce una rilevante battuta d’arresto per la causa jihadista, ma la minaccia appare ancora concreta e rilevante.

 

 

[1] Database originale degli attacchi terroristici di matrice jihadista in Occidente, Osservatorio sulla radicalizzazione e il terrorismo internazionale dell’ISPI.

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