15 Gen 2019

La nuova guerra fredda mediorientale

Le divisioni in Medio Oriente sono pane quotidiano. Lo sono all’interno degli Stati, tra etnie o comunità religiose diverse; lo sono fra Stati, tra blocchi contrapposti, allineati dietro bandiere religioso-ideologiche che di solito servono a celare i più classici conflitti di potere. Dal secondo dopoguerra in poi ne abbiamo viste diverse varianti. C’erano una volta […]

Le divisioni in Medio Oriente sono pane quotidiano. Lo sono all’interno degli Stati, tra etnie o comunità religiose diverse; lo sono fra Stati, tra blocchi contrapposti, allineati dietro bandiere religioso-ideologiche che di solito servono a celare i più classici conflitti di potere. Dal secondo dopoguerra in poi ne abbiamo viste diverse varianti. C’erano una volta i Paesi del Patto di Baghdad, allineati con l’Occidente, e i regimi panarabi allineati con l’Unione Sovietica. 

Più recentemente abbiamo visto la grande frattura cosiddetta tra sciiti e sunniti, i primi capitanati dall’Iran rivoluzionario, e i secondi allineati dietro l’Arabia Saudita. Quest’ultima divisione, sviluppatasi negli anni Ottanta, è emersa come una chiave di lettura piuttosto longeva, sopravvivendo alla fine della guerra fredda e agli sconvolgimenti della cosiddetta Primavera araba. Dalle sue dinamiche sono scaturiti fenomeni che hanno investito il mondo intero, a cominciare dal salafismo di stampo wahhabita e le sue diramazioni terroristiche. Ovviamente la denominazione sciiti-sunniti è piuttosto semplicistica e ampiamente contestata. Soprattutto Teheran e i suoi alleati hanno sempre preferito la narrazione de “l’asse della resistenza” – composto primariamente da Iran, Siria, ed Hezbollah libanese – contrapposto alle potenze reazionarie, filo-occidentali vicine all’Arabia Saudita. 

È vero infatti che tutte le fratture ideologiche mediorientali osservate negli ultimi settant’anni hanno trovato nel rapporto con l’Occidente la loro definizione principale. Agli occhi del resto del mondo – e spesso anche degli stessi abitanti della regione – gli Stati nasseristi e baathisti degli anni Cinquanta e Sessanta rappresentavano prima di tutto quel blocco che più si contrapponeva all’influenza occidentale. Analogamente, il cosiddetto “asse della resistenza” si definisce tale proprio in funzione della propria sbandierata “resistenza” all’egemonia americana e al potere israeliano nella regione. Tutto questo, naturalmente, è stato un risultato diretto prima della guerra fredda – che ha definito gran parte delle relazioni globali per oltre cinquant’anni – e poi dell’unipolarismo a guida statunitense che ha caratterizzato gli anni Novanta e Duemila. Un unipolarismo ormai al tramonto. È anche per questo, forse, che tale frattura sta perdendo lentamente di rilevanza. 

Ma c’è anche un altro motivo, forse ancora più importante: il sostanziale fallimento di entrambi i fronti. È facile infatti sentire parlare in questi mesi di sostanziale avanzata dell’Iran nella regione, soprattutto in seguito all’annuncio del ritiro americano dalla Siria. Si tratta però di una lettura corretta solo in parte. Se, infatti, l’influenza di Teheran ha sicuramente tratto giovamento dall’aumentato controllo sui regimi dominanti in Siria, Libano ed Iraq, è anche vero che, soprattutto dopo l’esperienza del conflitto siriano, il tentativo dell’Iran di proporsi come forza rivoluzionaria unificante per l’intero mondo musulmano è definitivamente fallito. Alleati e proxy iraniani possono anche guadagnare terreno a Beirut, Damasco e Baghdad, ma la capacità attrattiva dell’Iran come brand ideologico è ormai strettamente confinata alle minoranze sciite sparse per il Medio Oriente. Se la rivoluzione iraniana negli anni Ottanta era stata in grado di ispirare movimenti di opposizione islamista in gran parte del Medio Oriente, compresi paesi a maggioranza sunnita come Tunisia e Palestina, niente del genere è oggi possibile. 

Sull’altro fronte la situazione è analoga. I sauditi reagirono all’espansionismo ideologico iraniano del primo periodo post-rivoluzionario coagulando ed esportando il loro brand iper-conservatore di Islam sunnita. Per decenni hanno finanziato centri culturali, moschee e movimenti che si sono fatti portatori di un Islam tanto rigido quanto disinteressato alla politica – se non quando esplicitamente richiesto dai patroni sauditi, come accaduto per la guerra contro i sovietici in Afghanistan. Ma proprio da questa propaganda e da questi movimenti negli anni si sono generate quelle formazioni jihadiste sfuggite molto presto al controllo di Riyadh e diventate protagonista dell’ondata di terrorismo internazionale più longeva della storia. L’11 settembre è stato probabilmente il singolo evento che più ha danneggiato l’immagine internazionale dell’Arabia Saudita di fronte al pubblico globale, un danno che finora nessuna charme offensive multimilionaria è riuscita a riparare. La danarosa influenza saudita si è quindi sempre più concentrata sul sostegno a quei regimi autoritari laici, ma comunque molto sensibili ai desiderata dei loro ricchi sponsor stranieri. È stato così che negli ultimi quindici anni Riyadh e i suoi alleati hanno speso miliardi nel sostegno degli uomini forti della regione, da Mubarak e Al-Sisi in Egitto, a Haftar in Libia, e Saleh e poi Hadi in Yemen. Questo si era reso necessario anche a causa dell’ascesa, negli stessi anni, del brand di Islam politico “dal basso” della Fratellanza musulmana, ritornato alla ribalta in diversi paesi dopo le lunghe repressioni subite durante la guerra fredda. 

Non che potenze wahhabite e Fratelli musulmani fossero sempre stati così in contrasto. Anzi. Negli anni Settanta e Ottanta Fratelli musulmani da tutto il mondo arabo avevano trovato rifugio e spazio culturale in Arabia Saudita, contribuendo a forgiare ed esportare quell’ideologia salafita che sarebbe dovuta diventare l’arma ideologica perfetta contro lo charme dell’Iran rivoluzionario. Le sue successive distorsioni, incluso il movimento jihadista internazionale, sono quindi tanto figlie dell’iper-conservatorismo wahhabita quanto dei principi ideologici elaborati da pensatori afferenti alla Fratellanza come Sayyid Qutb. 

Ma la spaccatura tra monarchie del Golfo e i loro vecchi alleati non avrebbe tardato ad arrivare due decenni più tardi, e oggi potrebbe assurgere come nuova grande frattura caratterizzante del Medio Oriente moderno. Durante gli anni Duemila diverse ramificazioni della Fratellanza sono infatti emerse come le principali forze di opposizione politica in diversi paesi. Un’opposizione basata soprattutto su una attività politica dal basso, che trova la propria base popolare tra la piccola borghesia e i ceti meno abbienti. Un islamismo politico “bottom-up” che nella pratica si contrapponeva all’approccio autoritario “top-down” adottato da Riyadh e i suoi alleati. Specialmente in seguito agli eventi della cosiddetta Primavera araba, il contrasto è emerso in tutta la sua forza. Mentre nelle elezioni organizzate in diversi paesi i partiti legati alla Fratellanza ottenevano un successo dopo l’altro, Riyadh e alleati si adoperavano per reprimere e contrastare quest’ondata di Islam politico “elettoralistico” ovunque potessero, fino a promuovere colpi di mano come quello che nel 2013 ha portato al potere il generale Al-Sisi in Egitto. 

Sarebbe però improprio descrivere tale competizione semplicemente come il contrasto tra un Islam politico “autoritario” e uno “democratico”. Se infatti dovessimo guardare ai pochi esempi disponibili di forze più o meno afferenti alla Fratellanza musulmana al potere – come la breve presidenza di Mohammed Morsi in Egitto o il lungo dominio “trasformativo” del partito AKP di Erdogan in Turchia – dovremmo infatti concludere che esse sono fautrici di un modello “elettoralistico-illiberale” – caratterizzato da elezioni e ricerca del consenso ma anche da uno stretto controllo repressivo su società civile e media – che in questi anni sta riscuotendo notevole successo anche al di fuori del mondo musulmano[1]. 

Comprendere le caratteristiche fondamentali di questa nuova frattura ideologica tutta infra-sunnita è utile in quanto essa sta assumendo sempre più importanza all’interno della politica regionale, sostenuta anche dai profondi riequilibri tra potenze regionali e internazionali di questi anni. Il progressivo ritiro americano ha infatti permesso ad altri attori internazionali, come la Russia e, in misura minore, la Cina, di affacciarsi sui giochi mediorientali. Allo stesso tempo, nuove potenze regionali un tempo marginali come Turchia e Qatar si sono tramutate in veri e propri protagonisti. Proprio Ankara e Doha, infatti, sono oggi i principali sponsor delle varie espressioni della Fratellanza musulmana in tutto il Medio Oriente. Dall’altra parte, al consueto ruolo di leadership di Riyadh si è affiancata la politica sempre più assertiva degli Emirati Arabi Uniti, oggi impegnati insieme ai sauditi sia sul “tradizionale” fronte anti-iraniano, sia (e forse soprattutto) sul fronte del contrasto all’influenza di Turchia e Qatar. 

In questo quadro di vecchie e nuove fratture regionali che si sovrappongono, la Siria è diventato il luogo dove queste faglie sembrano incrociarsi, generando i risultati politici più ibridi. Se non fosse per la sua pluridecennale vicinanza a Teheran, infatti, il regime di Assad, con il suo autoritarismo laico, rappresenterebbe infatti un perfetto esempio di quel tipo di regime che Riyadh e Abu Dhabi hanno mostrato di prediligere in questi anni. E ora che la rinnovata influenza turca e qatarina sembra spaventare anche più di quella di un Iran in crescente difficoltà economica, la storica vicinanza tra Damasco e Teheran non sembra rappresentare necessariamente un elemento ostativo per un riavvicinamento alle monarchie del Golfo. Un sorprendete ribilanciamento degli equilibri regionali sancito dalla recente riapertura delle ambasciate a Damasco di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, e presto anche di quella saudita. Ad accomunare queste potenze un tempo acerrime nemiche – come dimostrato per il sostegno saudita ed emiratino per alcune fazioni ribelli siriane – ci sarebbe la condivisa avversione per la Fratellanza musulmana e i suoi stati sostenitori Turchia e Qatar, oggi gli sponsor esclusivi dell’opposizione siriana. 

L’aumentare di importanza del nuovo fronte infra-sunnita è quindi prima di tutto un sintomo della fine del sistema internazionale a cui per oltre vent’anni siamo stati abituati. Questa è infatti la prima frattura politico-ideologica mediorientale dal dopoguerra che non si definisce nel rapporto con l’Occidente, ma che trova le proprie logiche esclusivamente negli assestamenti di potere interni alla regione. Questi assestamenti dal 2011 stanno ricercando un nuovo equilibrio stabile, senza finora averlo trovato. È quindi opportuno prepararsi ad assistere a nuovi focolai di instabilità e ad analizzarli con chiavi di lettura più sofisticate di quelle, piuttosto semplici, che il recente passato unipolare ci aveva reso possibili.   


Note

1. Un caso diverso è forse quello del Partito islamista Ennahda in Tunisia, divenuto, non senza travagli interni, uno dei principali pilastri del nuovo regime democratico instauratosi nel Paese. Ma la posizione marginale della Tunisia all’interno della politica regionale lo rende difficilmente un esempio imitabile, almeno finora.

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