22 Feb 2019

La politica regionale della Repubblica islamica di Iran

Pubblicazioni per il Parlamento e MAECI

È da oggi disponibile online il nuovo approfondimento su “La politica regionale della Repubblica islamica di Iran” curato da ISPI per l’Osservatorio di politica internazionale di Senato, Camera dei Deputati e MAECI. L’approfondimento mira a esaminare il ruolo dell’Iran nel Medio Oriente di oggi. Nella prima parte vengono prese in esame le principali direttrici dell’azione iraniana nella regione, le priorità di politica estera del Paese, e il modo in cui la percezione delle minacce esterne si riflette sull’operato iraniano nei diversi teatri regionali. Nella seconda parte, il focus è dedicato ai principali teatri regionali: sono esaminate le relazioni dell’Iran con Iraq, Siria, Libano, Yemen e monarchie del Golfo. 

 

Indice

Obiettivi, minacce percepite, strumenti

1.1 Obiettivi
1.2 La percezione delle minacce
1.3 Gli strumenti
1.4 Il processo decisionale in politica estera

 
 
 

Executive Summary

Sono due gli obiettivi che guidano la politica regionale di Teheran: la sopravvivenza dell’Iran nella sua attuale conformazione istituzionale di Repubblica islamica, e il riconoscimento internazionale del suo ruolo di interlocutore per la gestione delle questioni di sicurezza nella regione. 
A guidare l’azione di Teheran è però anche e soprattutto il prisma attraverso il quale essa vede sé stessa e la regione. Fin dalla rivoluzione del 1979 questo prisma restituisce soprattutto un senso di assedio, definito “solitudine strategica”. La vittoria della rivoluzione e la creazione del primo governo islamico propriamente detto hanno infatti messo in crisi il sistema di alleanze precedente al 1979: oltre alla nota rottura con gli Stati Uniti, Teheran è diventata per gli altri paesi della regione, a eccezione di Siria e Oman, un paese da contenere e isolare. Il radicalismo e i tentativi di esportazione della rivoluzione nel decennio 1979-1989, con il sostegno a movimenti di opposizione all’interno di diversi paesi della regione, e ancora la creazione di Hezbollah nel 1982, hanno rafforzato la percezione di insicurezza nei vicini regionali dell’Iran e aumentato la polarizzazione regionale.
Con la fine del decennio khomeinista e l’avvio, negli anni Novanta, di una nuova fase più improntata al pragmatismo in politica estera, dovuta alla necessità di far uscire il paese dall’isolamento internazionale, l’Iran ha cercato di appianare le divergenze con i propri vicini regionali. Se da un lato si è registrato tanto un tentativo di dialogo con l’Arabia Saudita quanto l’avvio di relazioni – prettamente economiche – con alcuni paesi della regione, dall’altro i rapporti con i paesi dell’area non hanno mai conosciuto una piena normalizzazione. La crisi legata al programma nucleare iraniano, scoppiata agli inizi degli anni Duemila, ha monopolizzato l’agenda regionale, portando ancora una volta a percepire l’Iran come una minaccia da contenere e isolare.
La destabilizzazione dell’Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003 e lo scoppio della guerra in Siria nel 2011 rappresentano il contesto all’interno del quale l’Iran ha visto crescere la propria proiezione regionale ed espandere la propria influenza nell’area. In misura minore, anche lo scoppio della guerra in Yemen ha rappresentato un’opportunità per Teheran per aumentare la propria presenza nella regione, in un paese che è tradizionalmente considerato il “cortile di casa” dell’Arabia Saudita. Oggi, dunque, milizie addestrate dall’Iran sono presenti in Siria e in Iraq, mentre in Yemen i guerriglieri Houthi ricevono da Teheran armi e addestramento. Rimane poi la capacità di Teheran di influenzare la politica libanese attraverso l’alleanza con il movimento sciita libanese Hezbollah, per quanto questo sia diventato nel corso degli anni un attore sempre più libanese e sempre meno alle dipendenze di Teheran. 
Infine, la frattura apertasi all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo nel giugno 2017, con il tentativo di isolamento economico e diplomatico del Qatar da parte del blocco a guida saudita-emiratina, ha rimesso in discussione le relazioni tra Iran e principali paesi del Golfo: se il tradizionale ruolo degli Emirati Arabi Uniti come hub finanziario e mercato di re-export per le esportazioni iraniane sembra destinato a venire meno, risultano invece approfondite le relazioni tra Teheran e Doha, sulla scorta del comune isolamento regionale. In bilico, infine, le relazioni con l’Oman. Mascate, paese tradizionalmente neutrale nella regione, è divenuto oggetto delle pressioni saudite ed emiratine affinché cessi la sua politica di dialogo con Teheran. 
 

1. Obiettivi, minacce percepite, strumenti

Spesso definita irrazionale e dettata dall’ideologia, la politica regionale dell’Iran si basa al contrario su un solido pragmatismo. A definire le scelte che guidano l’azione di Teheran nella regione sono diversi elementi. Per comprendere a pieno tale azione occorre dunque analizzare gli obiettivi e la percezione delle minacce che la guidano e, di conseguenza, gli strumenti messi in atto per affrontare le molteplici sfide.

 

1.1 Obiettivi

Gli obiettivi principali che guidano l’azione iraniana tanto a livello domestico quanto a livello regionale sono due: garantire la sopravvivenza della Repubblica islamica e assicurare che Teheran ricopra un ruolo nella gestione dell’ordine regionale.

Innanzitutto l’Iran mira a garantire la sopravvivenza del paese nella sua attuale conformazione politica e istituzionale. Dopo la Rivoluzione del 1979, l’Iran cessò di essere una monarchia sotto l’influenza degli Stati Uniti, e avviò un esperimento istituzionale teso a unire una componente islamica (l’instaurazione del “governo di Dio” sulla terra, conseguenza della supremazia della classe religiosa guidata dall’ayatollah Khomeini su tutte le altre anime della rivoluzione) e una componente repubblicana, necessaria a distanziare il “nuovo Iran” dal vecchio regime monarchico dei Pahlavi. Nacque così la Repubblica islamica, un unicum istituzionale ricalcato su modello della Quinta repubblica francese, con influenze anche del costituzionalismo belga, ma che incorporava i dettami della legge islamica e assegnava un ruolo preponderante al clero che aveva guidato la rivoluzione1. Si realizzava così il primo esperimento di governo islamico guidato direttamente dai religiosi: una chiara sfida agli altri governi a legittimità religiosa della regione, in primis all’Arabia Saudita. Infatti proprio nel 1979 ha origine lo strappo che porta alla rivalità odierna tra i due paesi. Il Regno dei Saud guarda con sospetto e timore all’affermazione del governo islamico in Iran, percependo quanto accaduto al di là del Golfo Persico come una potenziale minaccia al proprio modello statuale: una monarchia basata su una stretta alleanza con la classe religiosa (wahhabita) del paese, e soprattutto una casa reale (i Saud) che trae legittimità dal proprio ruolo di custode dei luoghi santi dell’Islam, Mecca e Medina. Il modello dirompente della Repubblica islamica iraniana, con il suo carico di radicalismo, i suoi appelli ai musulmani degli altri paesi a ribellarsi a governi corrotti e ingiusti, i suoi tentativi (limitati al decennio 1979-1989) di esportazione della rivoluzione in altri paesi della regione, rappresentava dunque un pericolo per l’ordine regionale.

L’ostilità della quasi totalità dei paesi della regione verso la neonata Repubblica islamica diviene palese già a partire dal 1980, anno dello scoppio della guerra tra l’Iran e l’Iraq di Saddam Hussein, destinata a durare fino al 1988. L’esperienza della guerra Iran-Iraq rappresenta il principale prisma cognitivo attraverso il quale l’Iran definisce ancora oggi se stesso e il proprio ruolo nella regione. Saddam Hussein attacca l’Iran a sorpresa nel settembre 1980, scommettendo sulla debolezza del vicino, ancora in preda alle convulsioni rivoluzionarie. Obiettivo di Saddam, l’annessione dei territori iraniani circondanti lo Shatt al-Arab, il fiume che corre lungo il confine tra i due stati, oggetto di dispute fin dall’epoca ottomana. Nonostante fosse egli stesso percepito come l’ostacolo principale alla realizzazione dell’ordine regionale, Saddam ottiene il sostegno – morale e soprattutto materiale – di tutti i paesi della regione, eccezion fatta per la Siria di Hafez al-Assad e l’Oman (paese tradizionalmente neutrale).

L’Iran resiste, grazie alle migliaia di giovani soldati volontari che accorrono al fronte per esercitare quella che nell’immaginario collettivo iraniano è ancora nota come “Sacra difesa” nella “Guerra imposta”, ma la ferita è profonda: anche quando Saddam utilizzerà le armi chimiche nell’assalto ai villaggi curdi iraniani lungo il confine, la comunità internazionale non troverà mai una parola di condanna. La guerra finisce con un nulla di fatto nel 1988, con l’accettazione da parte di Khomeini del cessate-il-fuoco (definito dall’ayatollah “l’amaro calice”), ma la sua memoria ha plasmato il paese. Da quell’esperienza nasce infatti il senso di “solitudine strategica” che determina l’azione iraniana ancora oggi: è un senso di assedio, una percezione di accerchiamento derivante dal comune schieramento di pressoché tutti i paesi della regione contro di sé2. Una percezione che si è rafforzata negli anni con il progressivo dispiegamento di forze statunitensi nella regione, e – dal 2003 – con il timore che gli Usa, dopo l’esperimento iracheno, avrebbero proceduto al regime change anche in Iran, soprattutto dopo che nel gennaio del 2002 l’allora presidente americano George W. Bush aveva indicato l’Iran come appartenente, insieme all’Iraq e alla Corea del Nord, al famigerato “asse del male”3.

Strettamente collegato all’obiettivo della sopravvivenza della Repubblica islamica, e alla risoluta opposizione dei paesi della regione schieratisi contro, ecco il secondo obiettivo: la ricerca di un ruolo regionale. L’Iran non ha una visione relativa alle dinamiche regionali come di un gioco a somma zero; non aspira a essere l’unico egemone, bensì a vedere riconosciuto un ruolo commisurato al proprio peso geopolitico. L’Iran non vede la regione come un teatro in cui vi è spazio per un solo attore protagonista, ma senza dubbio invoca un posto al tavolo principale.

Ciò si manifesta principalmente nei ripetuti appelli lanciati fin dagli anni Novanta agli altri paesi della regione per la creazione di una struttura di sicurezza regionale, un forum di dialogo e collaborazione, all’interno del quale i principali paesi dell’area avrebbero avuto una funzione nella gestione dell’ordine regionale4. Una richiesta, questa, che mal si coniuga con le relazioni di alleanza nel campo della difesa e della sicurezza tra numerosi paesi della regione, in primis Arabia Saudita e Israele con gli Stati Uniti. La richiesta iraniana di creazione di un forum di sicurezza regionale è infatti tesa anche all’allontanamento degli Stati Uniti dalla regione, con l’obiettivo ultimo di evitare qualsiasi ulteriore futura ingerenza da parte di Washington nelle dinamiche interne dei paesi dell’area.

 

1.2 La percezione delle minacce

Si è accennato sopra a come l’Iran percepisca la presenza statunitense nella regione come fonte di potenziale minaccia, e come di conseguenza insista per la creazione di strutture di sicurezza “endogene”, che mettano i paesi dell’area al riparo da quelle che Teheran percepisce come le mire egemoniche di Washington. Oltre al timore del possibile intervento statunitense volto a provocare un regime change (che si manifesta in maniera più o meno forte a Teheran a seconda dell’orientamento dell’amministrazione statunitense in carica; dopo lo strappo di Bush e il parziale ricucire di Obama, con Trump è tornato alto l’allarme per un possibile regime change spinto dal basso), Teheran guarda con preoccupazione alla vasta presenza statunitense nel Golfo Persico, per l’Iran via indispensabile di collegamento al mondo.

Dai porti del Golfo partono infatti le petroliere iraniane contenenti le esportazioni di greggio, che a oggi rimane la maggior fonte di ricchezza per il paese, nonostante Teheran goda di una economia maggiormente diversificata rispetto a quella dei paesi tipicamente rentier della regione. La presenza di forze navali straniere, e in particolar modo statunitensi, nel Golfo rappresenta per l’Iran una minaccia alla libertà di movimento e di commercio. Nonostante Teheran stia cercando di sviluppare un sistema infrastrutturale di terra, dopo che le navi sono state costrette all’immobilità dalle rinnovate sanzioni statunitensi nel settore dell’energia iraniano, rientrate in vigore a novembre 2018 in seguito alla decisione di Trump di abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA, firmato nel luglio 2015), il controllo dei porti e l’accesso al commercio marittimo globale rappresentano una componente imprescindibile della politica regionale iraniana.

Fig. 1 – I principali porti nel Golfo Persico

Fonte: ISPI

 

Infine, particolarmente alta è la percezione del pericolo di uno scontro militare con Israele, il paese meglio armato nella regione, così come prima della firma dell’accordo sul nucleare era elevato l’allarme per un possibile attacco preventivo da parte di Israele sui siti nucleari iraniani (lo aveva messo in atto Tel Aviv nei confronti dell’Iraq, con l’operazione Babilonia del 7 giugno 1981, distruggendo il reattore nucleare iracheno di Osiraq).

Anche la minaccia terroristica, soprattutto in seguito alla nascita e alla diffusione dello Stato islamico (IS), è diventata per l’Iran una presenza costante con cui il paese si deve spesso confrontare5. Tra gli obiettivi principali dell’IS vi è infatti la lotta contro l’Islam sciita, riconosciuto come un’eresia dall’ortodossia sunnita, la sola considerata legittima dal movimento integralista di Abu Bakr al-Baghdadi. In conseguenza di ciò diventa dunque di primaria importanza combattere il principale paese di confessione islamica sciita, ovvero l’Iran. L’Iran ha subito negli ultimi tre anni due attacchi terroristici rivendicati dall’IS: il primo a Teheran, contro le sedi del Parlamento e del Mausoleo dell’ayatollah Khomeini, nel giugno 2017, il secondo – sebbene di attribuzione più dubbia – nel settembre 2018, durante una parata militare nella città di Ahvaz. Inoltre, diversi sembrano essere stati gli attacchi sventati grazie ad arresti preventivi6.

Ad accrescere il livello di allarme vi è il timore che, come nel caso dell’attentato di Ahvaz, il terrorismo di matrice islamica si fonda e si integri con quello di altri gruppi, che operano all’interno dell’Iran da anni, portatori perlopiù di istanze autonomiste, come il gruppo arabo per l’autonomia dell’Ahvaz, ad Ahvaz, o il movimento Jundallah per l’autonomia dei baluchi, nella regione del Sistan-Baluchistan, nel sud del paese7.

Una parte consistente dello sforzo militare iraniano nella regione riguarda l’obiettivo di contrastare l’espansione dello Stato Islamico e di movimenti dalle istanze simili. In Iraq sono state principalmente milizie iraniane a rappresentare i “boots on the ground” che, affiancando l’esercito iracheno, hanno contribuito alla liberazione del paese dallo Stato Islamico.

 

1.3 Gli strumenti

Dal senso di solitudine strategica e di assedio regionale, oltre che dall’isolamento imposto al paese dal lungo embargo internazionale sull’acquisto di armi, derivano le scelte iraniane in riferimento agli strumenti utilizzati per avanzare la propria politica regionale.

In primo luogo, la difficoltà di accesso al mercato internazionale degli armamenti, dovuta all’embargo in vigore sul paese (quello statunitense dura dal 1979, quello europeo e delle Nazioni Unite dal 2007) ha portato l’Iran a sviluppare, da una parte, capacità di combattimento non convenzionale (metodi di guerriglia asimmetrica), dall’altra ad avviare un copioso sforzo di produzione domestica di armamenti, che vengono periodicamente esibiti in sfilate e parate come motivo di orgoglio nazionale, ma la cui efficacia in una guerra convenzionale rimane da dimostrare.

Per quanto riguarda l’accesso alle armi convenzionali, l’Iran viene superato dai propri rivali nella regione. Nel 2017 la sua spesa militare è stata di 14,5 miliardi di dollari; quella di Israele di 16,4 miliardi di dollari (più ulteriori 3,5 miliardi in aiuti militari statunitensi), quella dell’Arabia Saudita di 69,4 miliardi di dollari.

Per controbilanciare la mancanza di capacità militare convenzionale e ovviare al proprio senso di “solitudine strategica”, Teheran ha cercato di accrescere la propria profondità strategica e di raggiungere l’autosufficienza nel campo delle capacità militari non convenzionali, o asimmetriche8, creando inoltre un network di partner e proxies nella regione, allo scopo di tenere lontano le minacce. È quella che Teheran definisce “strategia della difesa avanzata”: se non è possibile difendersi lungo i propri confini, è necessario creare degli avamposti di difesa altrove nella regione, principalmente in stati dalla struttura istituzionale debole come il Libano e l’Iraq. In questo modo, è possibile affrontare i nemici sul campo di battaglia straniero, senza recare danno al paese o mettere in pericolo la popolazione iraniana. La manifestazione più evidente di questa strategia è il cosiddetto “Asse della resistenza” – un’alleanza composta da Iran, Siria di Bashar al-Assad e Hezbollah libanese – il cui obiettivo dichiarato è di resistere all’egemonia di Stati Uniti e Israele nella regione. I rivali regionali dell’Iran hanno etichettato l’Asse della resistenza come “Asse sciita”, o “crescente/mezzaluna sciita”, conferendo dunque al conflitto il tono di rivalità etnico/religiosa, trattandosi invece di un conflitto squisitamente geopolitico9.

L’Iran è poi impegnato nell sviluppo di deterrenti che scoraggino i nemici regionali – o gli Usa – dal condurre un attacco contro il suo territorio. Rientra in questa categoria il programma di sviluppo di missili balistici. Mentre gli Stati Uniti considerano il programma missilistico di Teheran come la dimostrazione di un intento aggressivo e offensivo, Teheran lo considera invece l’unica possibilità di difesa in un contesto di netto svantaggio geostrategico. Come già nel caso del programma nucleare, lo sviluppo del programma missilistico sembrerebbe non essere teso alla produzione di armamenti da impiegare: essi dovrebbero ricoprire piuttosto la funzione di deterrente nella sua accezione più classica: un mezzo la cui semplice esistenza o disponibilità consenta di dissuadere dal tradurre in azione ostile la profonda animosità nei confronti di chi lo possiede.

Il programma nucleare, ulteriore strumento di deterrenza perseguito da Teheran, è stato invece oggetto di un accordo, il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), siglato nel 2015 da Iran e P5+1 (Russia, Cina, Usa, Francia, Regno Unito, Germania). L’accordo ha posto uno stop al programma nucleare iraniano; in cambio, Teheran ha ottenuto la sospensione delle sanzioni internazionali che ne hanno a lungo frenato lo sviluppo economico. Con l’abbandono dell’accordo da parte degli Stati Uniti, nel maggio 2018, Washington ha reintrodotto le proprie sanzioni, obbligando tutti gli altri paesi del mondo (compresi gli alleati europei, che pure erano e rimangono a favore del Jcpoa) a cessare ogni attività economica e commerciale con l’Iran, pena l’esclusione dal mercato americano e/o l’imposizione di pesanti multe10. A oggi, l’Iran rimane parte dell’accordo, ovvero non ha deciso di riprendere il proprio programma nucleare.

Infine, è necessario un riferimento al ruolo che l’ideologia gioca nella politica regionale iraniana. Se non è corretto affermare che l’Iran agisca come un attore puramente ideologico e irrazionale, non si può negare l’importanza di alcuni capisaldi ideologici nell’azione politica iraniana. Il primo di questi è l’opposizione agli Stati Uniti che costituisce un pilastro dell’ideologia rivoluzionaria e successivamente divenuto parte integrante del discorso politico della Repubblica islamica,. Nella costruzione del proprio messaggio rivoluzionario, l’ayatollah Khomeini fece grossa leva sul forte nazionalismo iraniano, ponendolo in contraddizione con l’ingerenza politica che gli Usa avevano esercitato nel paese fin dall’appoggio (insieme al Regno Unito) al colpo di stato del 1953 contro l’allora primo ministro Mohammad Mossadeq. Vi è però da sottolineare come l’assalto all’ambasciata statunitense a Teheran, nel novembre 1979, e la successiva crisi degli ostaggi che ha segnato la rottura delle relazioni tra i due paesi, non fosse stata ordinata da Khomeini. Al contrario, l’ayatollah aveva in un primo momento dato ordine di porre fine all’assedio. Fu solo con la presa di coscienza che l’incitamento della folla contro un nemico esterno poteva essere utile al consolidamento della rivoluzione, che Khomeini “benedì” l’atto e inaugurò una politica di aperta ostilità verso gli Stati Uniti, entrati nella narrazione rivoluzionaria iraniana come “il grande Satana”, o l’emblema della “arroganza globale”. L’opposizione agli Stati Uniti non è però un’opposizione tout court verso il paese; è semmai un’opposizione verso alcune politiche perpetrate da Washington nella regione, in primis l’appoggio a regimi autoritari – quale era quello iraniano di Mohammad Reza Pahlavi – e l’ingerenza nella politica interna di paesi terzi. In generale, nell’immaginario politico iraniano gli Stati Uniti rappresentano l’emblema dell’imperialismo, del dominio del forte sul debole, dell’ingiustizia globale. Ciò non significa però che vi sia un rifiuto degli Stati Uniti di per sé; al contrario, l’interesse verso ciò che gli Stati Uniti rappresentano (il soft power Usa) è fortemente radicato, soprattutto nelle generazioni più giovani. Se si esclude la retorica di governo, paradossalmente, l’Iran potrebbe essere considerato come uno dei paesi della regione meno interessato dall’anti-americanismo. Anche a livello politico, l’opposizione retorica al “grande Satana” ha trovato in passato spazi di apertura e cooperazione. Già prima del dialogo sul nucleare, culminato con il successo diplomatico del JCPOA, Usa e Iran avevano affrontato con pragmatismo alcune delle sfide comuni della regione: di particolare importanza è lo spazio di collaborazione apertosi a seguito dell’intervento post-11 settembre degli Usa in Afghanistan. Dopo aver rovesciato il regime dei Talebani, il dialogo tra Stati Uniti e Iran fu cruciale per dare al paese un nuovo governo, guidato da Hamid Karzai. Anche oggi, l’Iran si dice disponibile a un dialogo con gli Stati Uniti sulle questioni regionali, a patto che Washington riconosca a Teheran la dignità di interlocutore.

Altro pilastro dell’ideologia rivoluzionaria che permane tutt’oggi è l’opposizione a Israele, definito “il piccolo Satana”, a significare l’identificazione di Tel Aviv come di una replica, su scala minore, del comportamento degli Stati Uniti. Per l’Iran gli atteggiamenti di Israele sono l’emblema dello stesso imperialismo americano, replicato nella regione nei confronti della popolazione palestinese. L’opposizione iraniana a Israele non è opposizione verso gli ebrei: la minoranza ebraica è al contrario tutelata in Iran, con spazi di preghiera dedicati e alcuni seggi in Parlamento riservati per Costituzione. L’atteggiamento negazionista divenuto noto durante il mandato dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, così come di alcuni circoli politici radicali a lui legati, rappresenta una voce isolata nella politica iraniana, parte del complicato gioco politico tra fazioni. Se dunque lo stato iraniano continua a condannare con fermezza le politiche anti-palestinesi di Israele, soprattutto quelle dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, non è per via di un innato anti-sionismo, bensì per dare linfa al ruolo che l’Iran ha cercato di ritagliarsi negli anni di difensore della causa palestinese. Non essendo un paese arabo, ma persiano e sciita, l’Iran ha utilizzato la carta del “protettore dei popoli oppressi” – come nella narrazione ufficiale lo erano gli iraniani durante il regno dello shah Pahlavi – per “migliorare la propria reputazione” presso le piazze arabe, solidali con la causa palestinese.

Infine, rimanendo nell’ambito del ruolo dell’ideologia nel determinare la politica regionale iraniana, occorre sfatare il mito dello scontro sciiti vs sunniti che, secondo una comune narrazione, sarebbe alla base della rivalità tra l’Iran, principale paese sciita della regione, e l’Arabia Saudita, principale polo dell’islam sunnita. La rivalità tra i due paesi, che pure esiste, non sembra doversi ricondurre a motivazioni religiose risalenti alla notte dei tempi: sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli, e tutt’oggi non vi è un’antipatia pregiudiziale degli uni nei confronti degli altri. All’origine della rivalità vi sono piuttosto motivazioni squisitamente geopolitiche, in parte già delineate sopra, che dal 1979 fanno sì che i due paesi si percepiscano reciprocamente come una minaccia per la propria esistenza e legittimità. All’interno di questo scontro geopolitico, le identità religiose vengono politicizzate e strumentalizzate, poste al servizio della narrazione, e così facendo finiscono per alimentare il conflitto, conferendogli dunque anche una dimensione etno-identitaria. Tuttavia, come in una profezia che si autoavvera, questo è il risultato, non la causa, del processo.

 

1.4 Il processo decisionale in politica estera

Per una piena comprensione della postura regionale della politica estera iraniana, occorre tenere conto della complessità del processo decisionale nel paese. Innanzitutto, è importante sottolineare che la classe politica iraniana è assai plurale ed eterogenea. Se è vero che la rivoluzione del 1979 ha portato la classe religiosa al governo, è altrettanto vero che all’interno di tale classe sono emerse fin dai primi anni dopo la rivoluzione idee e posizioni diverse riguardo tanto alla politica interna quanto alla politica estera. Vi è chi, come l’attuale governo, è favorevole a una maggiore apertura internazionale del paese e al dialogo con i vicini regionali, e chi, come l’ex presidente Ahmadinejad e la fazione degli ultra-radicali, sostiene invece la linea dura11.

Quanto al processo decisionale, nella Repubblica Islamica le decisioni vengono infatti prese per consenso, attraverso un processo che rispecchia un fitto labirinto istituzionale12.

Fig. 2 – La Repubblica islamica dell’Iran: Il fazionalismo politico interno

 

Fig. 3 – La Repubblica islamica dell’Iran: un complesso meccanismo di funzionamento


 

 

La politica estera, ovviamente, non sfugge a questo complesso processo di elaborazione. Il processo decisionale odierno è il risultato di una modifica costituzionale introdotta nel 1989, resasi necessaria dopo che nel periodo cruciale della guerra Iran-Iraq si erano registrate difficoltà derivanti dalla presenza di molteplici centri decisionali, e di idee profondamente diverse. Il processo decisionale relativo alla politica di difesa e sicurezza è stato dunque accentrato nel Consiglio supremo per la sicurezza nazionale (Supreme National Security Council, Snsc), un organo deputato al dibattito sulle questioni di sicurezza e difesa, nel quale sono rappresentate tutte le anime della struttura istituzionale iraniana, tanto quelle che fanno capo al campo del presidente, quanto quelle che fanno capo alla Guida suprema.

Nel Consiglio, presieduto dal presidente della repubblica, siedono i capi del legislativo e del giudiziario, il capo delle forze armate, due rappresentanti della Guida suprema (uno dei quali svolge la funzione di segretario del Consiglio), i ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Interno, il comandante dell’esercito e il comandante del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (pasdaran). Le decisioni prese dal Consiglio, una volta ottenuto l’avallo della Guida suprema, hanno valore di legge.

All’interno del Consiglio gli equilibri variano a seconda dell’argomento oggetto di discussione. In linea generale, sui dossier che vedono l’Iran impegnato a livello militare si registra un ruolo maggiore per i rappresentanti delle forze armate, mentre i dossier più “diplomatici” sono saldamente in mano al presidente della Repubblica e al ministro degli Esteri.

Al di là di quanto accade all’interno del Consiglio, la dialettica tra i diversi attori coinvolti nella definizione della politica di difesa e sicurezza è assai elevata: è assai frequente che le ali militari, soprattutto legate ai pasdaran, rilascino le dichiarazioni più intransigenti, ad esempio contro Israele o gli Stati Uniti, mentre la componente guidata dal ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, lavora intessendo relazioni diplomatiche e operando per il riconoscimento del ruolo regionale del paese, avendo come fine ultimo l’uscita dall’isolamento internazionale e il pieno riconoscimento dell’Iran come di un paese al pari di tutti gli altri.

 

2. I Teatri Di Azione Regionale

 

2.1 Iraq

L’Iraq rappresenta per Teheran la principale priorità di sicurezza, per diversi motivi: la vicinanza (Iran e Iraq condividono un confine lungo circa 1.500 km), il fatto che l’Iraq sia l’unico paese ad aver attaccato militarmente l’Iran in passato; l’importanza del centro religioso sciita iracheno di Najaf – in competizione con quello iraniano di Qom.

Questa molteplicità di interessi riflette una molteplicità di obiettivi. In primo luogo, il principale obiettivo iraniano in Iraq è assicurare che il paese non possa più rappresentare una minaccia per la propria sicurezza; da qui, il tentativo di assicurare che nel paese vi sia un governo abbastanza forte per evitarne la frammentazione, ma non così forte da poter rappresentare una minaccia.

Da questo primo, generale, obiettivo deriva quello della preservazione dell’integrità territoriale irachena, allo scopo di evitare un’ipotetica disintegrazione su base etnica o religiosa che dia il via a un effetto domino con conseguenze per lo stesso Iran. Ciò appare particolarmente evidente in riferimento alla decisa opposizione iraniana all’indipendenza dei territori curdo-iracheni e, di conseguenza, al tentativo da parte del governo regionale del Kurdistan di incorporare il territorio di Kirkuk – e i circostanti pozzi di petrolio – al proprio interno.

Ulteriore intento è quello di fare in modo che l’Iraq non rappresenti per i gruppi dell’opposizione iraniana (come in passato i Mojaheddin-e Khalq) o per gruppi terroristici un possibile rifugio, da utilizzare come base per compiere attacchi in Iran; allo steso tempo, Teheran mira a evitare che l’Iraq divenga un paese eccessivamente nell’orbita statunitense: dopo la caduta di Saddam nel 2003, l’Iran ha lanciato una campagna tesa a contenere la minaccia rappresentata dalla presenza delle truppe Usa vicino al proprio confine, dal 2003 fino al 2011 –anno del ritiro. Allo stesso modo, non ha visto di buon occhio il rinnovato dispiegamento delle truppe statunitensi in Iraq a partire dal 2014, questa volta per combattere lo Stato islamico. Ma l’esigenza prevalente di contrastare l’organizzazione di al-Baghdadi ha però portato Teheran a chiudere un occhio, e a crearsi “un’assicurazione” a propria tutela contro la presenza Usa attraverso il dispiegamento di milizie (Pmu, Unità di mobilitazione popolare) incaricate di combattere lo Stato islamico. Il contributo delle Pmu è stato fondamentale per la liberazione del paese dall’IS, ma la loro permanenza anche dopo la liberazione di Mosul pone alcuni interrogativi circa il loro ruolo nell’Iraq di domani. Alcuni osservatori mettono in guardia dal fatto che esse potrebbero rappresentare una seria sfida per l’autorità centrale irachena, e una sorta di longa manus iraniana sempre attiva nel paese, allo scopo di assicurare il mantenimento dell’influenza iraniana sul vicino iracheno.

Ad ogni modo, per i prossimi anni l’obiettivo iraniano in Iraq rimarrà quello di impedire che da lì possano nascere nuove minacce alla propria sicurezza. A questo scopo, continuerà con ogni probabilità a tentare di avere ancora voce in capitolo riguardo alla politica interna del paese attraverso il controllo delle Pmu. Alcune di queste formazioni militari hanno infatti intrapreso un processo di trasformazione in movimento politico, seguendo un percorso simile a quella del movimento sciita libanese Hezbollah, nato come attore militare addestrato dall’Iran e successivamente evoluto in attore fondamentale della politica interna libanese.

 

2.2 Libano

Il Libano è l’unico paese della regione in cui l’Iran è stato in grado di produrre un soggetto politico che in parte replica il primo modello rivoluzionario: Hezbollah, o il “partito di Dio”. Nato nel 1982, nel contesto dell’invasione israeliana del Libano, grazie all’aiuto dei pasdaran iraniani, Hezbollah si fece portatore fin da subito delle molte istanze della minoranza sciita libanese: la condizione svantaggiata rispetto alla maggioranza cristiana e a quella sunnita; la presenza dei militanti palestinesi (che utilizzavano il territorio libanese, in particolar modo i campi profughi, per organizzarsi e lanciare attacchi contro Israele); e il conseguente sgretolamento delle condizioni di sicurezza, dovuto alle rappresaglie israeliane.

Nel corso degli anni la relazione di subordinazione tra Iran e Hezbollah si è evoluta in una relazione più complessa, di mutua dipendenza. I fattori che stanno dietro a questa ridefinizione dei rapporti sono diversi. In primo luogo, il rafforzamento di Hezbollah a seguito della “resistenza” contro Israele nel contesto dell’invasione israeliana del Libano nel 2000, in quell’occasione il movimento libanese aveva costretto Tel Aviv al ritiro; ancora, la “resistenza” nella guerra contro Israele del luglio 2006; infine, il rafforzamento del movimento a seguito del coinvolgimento nella guerra civile siriana a favore del regime di Assad, con l’apprendimento di nuove capacità operative, e il rifornimento di armamenti.

Per l’Iran, Hezbollah è cruciale nella strategia della “difesa avanzata”, in quanto risulta fondamentale per l’esercizio della deterrenza nei confronti di Israele. Teheran, infatti, al momento non dispone di capacità offensive a medio-lungo raggio in grado di raggiungere Tel Aviv; anche in questo caso, Hezbollah rappresenta una “assicurazione” contro un eventuale strike israeliano su Teheran. Hezbollah, poi, rappresenta per l’Iran un alleato importante nella vita politica libanese. Basti pensare all’episodio delle dimissioni che il premier del Libano Saad Hariri diede, ufficialmente, per protestare contro l’ingerenza che l’Iran metteva in atto nel paese attraverso Hezbollah. Hariri, tradizionale alleato dell’Arabia Saudita, era stato probabilmente spinto da Riyadh a rassegnare le dimissioni, allo scopo di far cadere il governo di cui era esponente anche Hezbollah. L’episodio si era poi risolto grazie alla mediazione della Francia, che aveva permesso il ritorno in Libano di Hariri e il successivo ritiro delle dimissioni.

Se è vero che l’Iran ha in Hezbollah un alleato politico, è altrettanto vero che Hezbollah nel corso degli anni è andato rafforzando la propria statura all’interno del paese, facendosi portatore di istanze libanesi (in contrasto alla narrazione che lo vede invece un mero strumento nelle mani dell’Iran). Prova ne è il successo elettorale alle elezioni di maggio 2018 in cui ha visto incrementare i propri seggi così come quelli dei propri alleati, tra cui il Movimento Patriottico Libero, il partito guidato dall’attuale ministro degli Esteri Gebran Bassil e fondato dall’attuale presidente della repubblica Michel Aoun.

 

2.3 Siria

L’alleanza tra Iran e Siria ha origine nel contesto della guerra Iran-Iraq, durante la quale – come delineato sopra (p. – tutti i paesi della regione a eccezione della Siria e dell’Oman appoggiarono l’Iraq di Saddam allo scopo di contrastare l’Iran rivoluzionario. Le motivazioni della longeva alleanza tra Damasco e Teheran risiedono nell’esigenza di fare fronte comune contro gli stessi nemici: il regime baathista di Saddam in Iraq, Israele, così come dalla comune opposizione alla presenza statunitense nella regione.

Il mantenimento dell’alleanza con la Siria è uno degli obiettivi che unisce l’altrimenti frammentato fronte politico iraniano. Nonostante la relazione tra la famiglia Assad (Hafez prima, il figlio Bashar poi) e Teheran abbia avuto notevoli alti e bassi negli anni, a Teheran vi è la comune percezione che sia fondamentale preservare l’attuale orientamento geostrategico di Damasco: soprattutto dopo lo scoppio delle rivolte in Siria, e la loro trasformazione in guerra civile, in Iran si è rafforzato il timore che un cambio di regime a Damasco (con il rovesciamento di Bashar al-Assad da parte dell’Occidente) così come la presa del potere da parte dei movimenti jihadisti legati allo Stato islamico o ad al-Qaeda avrebbero comportato la perdita dell’alleato, e finito con il risultare in un pieno accerchiamento dell’Iran da parte dei propri avversari.

Allo scopo di agire contro la realizzazione di tale scenario, nonché sulle modalità per evitarlo, all’interno del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano è emerso un dibattito acceso fin dai primi giorni della rivolta. Due posizioni in particolare si sono confrontate: da una parte chi intendeva esortare Assad alla concessione di riforme per placare la rivolta, ed evitare la repressione manu militari per evitare di radicalizzare la situazione; dall’altra parte, chi sosteneva la necessità di una decisa repressione, per spegnere sul nascere la ribellione. Di fronte alla decisione di Assad di intervenire militarmente, rigettando la strada alle riforme, l’Iran è dunque intervenuto a sostegno di Damasco, con il favore dei pasdaran. Tuttavia, in un primo momento lo sforzo bellico iraniano è stato assai cauto: nel 2012 la guida suprema, Ayatollah Khamenei, ha imposto un limite di 1500 al numero di consiglieri e personale militare da schierare in Siria; forte era infatti il timore di rimanere coinvolti in uno sforzo bellico costoso e duraturo. Di fronte al progressivo disfacimento dell’esercito di Assad, l’Iran ha dovuto infatti impiegare un numero crescente di risorse, arrivando dunque a chiedere l’intervento di Hezbollah e a mobilitare guerriglieri sciiti provenienti da Iraq e Afghanistan, fino ad arrivare alla sollecitazione, nell’estate 2015, dell’intervento militare russo. Nonostante il viaggio a Mosca di Qasem Suleimani, leader delle brigate al Qods dei pasdaran, responsabile delle operazioni all’estero, la classe politica iraniana si è divisa circa la desiderabilità del coinvolgimento russo nelle operazioni siriane. Se da una parte l’apporto militare di Mosca era indispensabile alle operazioni sul campo, dall’altro si temeva che l’intervento russo a sostegno di Assad avrebbe minato la relazione di dipendenza di Assad da Teheran, aprendo per il presidente siriano un maggiore spazio di manovra. Così effettivamente è stato; l’intervento militare russo ha modificato gli equilibri del conflitto, con effetti sugli stessi equilibri regionali: il capitale politico e diplomatico di Mosca è infatti cresciuto in seguito al suo intervento militare, e Teheran non rappresenta più l’unico interlocutore di Assad. Al contrario, l’Iran ha dovuto accettare la mediazione russa e la concessione, per volere di Mosca, di uno spazio negoziale anche alla Turchia, nel formato diplomatico di Astana.

Oggi, a otto anni dall’inizio della guerra, l’Iran rimane determinato a preservare l’alleato siriano mantenendo nel paese una presenza militare, ma appare sempre più determinato a ricercare una soluzione diplomatica per mettere fine a uno sforzo bellico difficile da sopportare tanto a livello economico quanto a livello di reputazione. Il sostegno ad Assad ha infatti intaccato la reputazione di leader delle masse oppresse che la classe politica iraniana ha cercato di costruire presso le piazze arabe, ad esempio con il sostegno alla causa palestinese. Teheran, inoltre, guarda con interesse alla fine della guerra e all’avvio della fase della ricostruzione, della quale sembrano determinate ad approfittare le grandi imprese del settore delle costruzioni iraniane, molte delle quali legate a doppio filo ai pasdaran.

 

2.4 Yemen

Diversamente da Iraq e Siria, lo Yemen non rappresenta per l’Iran una priorità strategica. “Cortile di casa” dell’Arabia Saudita, il paese appartiene tradizionalmente alla sfera di influenza di Riyadh. La ribellione Houthi, del resto, ha origine nel processo politico domestico yemenita: dopo aver abbandonato il processo parlamentare e aver dato inizio all’insurrezione militare nel 2004, il gruppo si è reso protagonista di sei round di combattimento contro il governo centrale. Nel 2012, tuttavia, gli Houthi avevano preso parte attiva al processo di pace guidato dalle Nazioni Unite e supportato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, allo scopo di trovare una soluzione pacifica alla vasta ribellione popolare che ha avuto inizio nel 2011, sulla scia delle Primavere arabe. Il fallimento, nel 2014, del processo di pace, ha però portato gli Houthi a ri-imbracciare le armi, conquistando – con l’aiuto dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh – la capitale Sanaa e rovesciando il governo di Abed-Rabbo Mansour Hadi. L’intervento militare della coalizione a guida saudita-emiratina, lanciato nell’aprile 2015, ha avuto dunque l’obiettivo di evitare che gli Houthi prendessero il controllo dell’intero paese. La coalizione è riuscita a liberare Aden, ma gli Houthi hanno mantenuto il controllo dello Yemen nord-occidentale. Al dicembre 2017, quando l’alleanza tra Houthi e Saleh è crollata per via del cambiamento di fronte dell’ex presidente, la situazione sul terreno si era ormai fossilizzata in una lunga guerra d’attrito.

È in questo contesto che l’Iran è intervenuto a sostegno degli Houthi dopo il 2015, con rifornimenti crescenti di armi e consiglieri militari. La motivazione dell’intervento iraniano non risiede tuttavia in una volontà di conquista del territorio yemenita, bensì nell’intento di contrastare l’influenza saudita sul paese: più semplicemente, Teheran mira a far diventare lo Yemen il Vietnam dell’Arabia Saudita.

Tuttavia, il fatto che il dossier yemenita non rappresenti per Teheran una priorità strategica fa sì che esso sia quello su cui vi sono le maggiori probabilità del raggiungimento di una soluzione negoziata. L’Iran è infatti impegnato in un dialogo politico sulla risoluzione della crisi nel paese, insieme ai quattro paesi europei di E4 (Francia, Germania, Italia, Regno Unito). Il raggiungimento di una soluzione negoziata e duratura alla guerra nel paese, tuttavia, passa inevitabilmente dal raggiungimento di un compromesso tra Iran e Arabia Saudita, che trovi il favore degli Houthi, che sono portatori di istanze autonome. Una condizione che sembra al momento assai lontana dal verificarsi.

 

2.5 Le relazioni con i paesi del Golfo

Come descritto nell’introduzione del presente Approfondimento, le relazioni tra l’Iran e i paesi del Golfo – guidati dall’Arabia Saudita – hanno subito un drastico mutamento dopo la rivoluzione iraniana del 1979, divenuto evidente con il sostegno accordato dai paesi del Golfo (con l’eccezione dell’Oman) all’Iraq di Saddam Hussein nella lunga guerra contro l’Iran. La rivoluzione iraniana, del resto, è stato uno dei principali fattori che hanno portato i paesi del Golfo a riunirsi in un’organizzazione regionale, il Consiglio per la Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, Gcc), allo scopo di aumentare il livello di integrazione politica, diplomatica ed economica dell’area e fare fronte comune contro le minacce condivise, come era appunto l’Iran rivoluzionario.

Tuttavia, così come il Gcc non è mai riuscito nel suo obiettivo di diventare un’organizzazione regionale pienamente integrata, anche i rapporti dell’Iran con i singoli paesi componenti il Gcc si sono caratterizzati – e si caratterizzano tuttora – per una forte eterogeneità.

 

Arabia Saudita

La rivalità tra questi due giganti geopolitici regionali – che rappresentano modelli antitetici, come descritto in precedenza – è la principale linea di faglia che da decenni divide il Medio oriente. Dalla rottura del 1979 si sono susseguiti alti e bassi nelle relazioni, con tentativi di dialogo (principalmente negli anni ’90, durante il mandato del presidente Hashemi Rafsanjani) alternati a decise chiusure. Attualmente, i rapporti tra i due paesi vivono una fase di accesa conflittualità. L’esperienza delle primavere arabe e il ripiegamento statunitense inaugurato con la presidenza Obama hanno infatti mutato la struttura delle minacce percepite da Riyadh: “l’abbandono” da parte degli Usa di alleati tradizionali quale era ad esempio il presidente Mubarak in Egitto, il via libera concesso alle rivolte popolari in nome dei valori democratici, e ancora l’ascesa al potere in alcuni paesi della regione di movimenti politici vicini alla Fratellanza musulmana, hanno messo Riyadh in uno stato di allerta, portandola ad assumere un approccio più diretto e assertivo alla gestione delle crisi. L’intervento saudita – diretto, come in Yemen, o per procura, come in Siria – in molti degli scenari di crisi regionale in cui era presente in forma indiretta anche l’Iran ha quindi portato diversi analisti a parlare di una “guerra per procura” tra Teheran e Riyadh, combattuta non direttamente ma attraverso proxies dislocati sul teatro siriano, libanese, yemenita. Il cambiamento di presidenza americano, con la fine del mandato di Obama e l’elezione di Donald Trump, ha portato un cambiamento anche nel rapporto tra Washington e Riyadh. Diversamente dall’epoca Obama, oggi Usa e Arabia Saudita condividono la percezione dell’Iran come principale minaccia regionale, e formano dunque un fronte nuovamente compatto (dopo gli anni del gelo obamiano) ai fini del contenimento di Teheran.

 

Emirati Arabi Uniti

Anche le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) vivono oggi una fase di deciso confronto. Nonostante l’appartenenza al GCC, gli EAU sono stati tradizionalmente artefici di una politica estera autonoma: allineati alle posizioni di Riyadh di fronte a interessi e minacce condivisi, indipendenti da Riyadh quando l’interesse emiratino si distaccava da quello saudita. È così che gli EAU hanno potuto negli anni forgiare relazioni con Teheran, basate su interessi di natura economica. L’emirato di Dubai, in particolare, ha rappresentato a lungo per Teheran il principale mercato di re-export che ha permesso all’Iran di continuare a ricevere merci e prodotti nonostante le sanzioni internazionali. Tuttavia, l’onda lunga delle primavere arabe e l’ascesa di una nuova leadership, quella del principe ereditario Mohammad bin Zayed, hanno impresso una svolta anche alla politica estera emiratina. Oggi, EAU e Arabia Saudita risultano allineati sui principali dossier regionali: dall’isolamento del Qatar a quello dell’Iran, dalla guerra in Yemen al sostegno ai gruppi anti-Assad in Siria. Questo ribilanciamento ha portato Teheran a perdere uno dei principali canali di accesso agli scambi economici internazionali: l’Iran starebbe guardando a Oman e Qatar come potenziali sostituti di Abu Dhabi per facilitare il proprio commercio internazionale, anche se nel breve-medio periodo permangono molte incognite, soprattutto sul settore bancario. Le banche emiratine, inoltre, hanno tradizionalmente svolto funzioni di triangolazione finanziaria per permettere all’Iran di avere accesso – in cambio di commissioni elevate – al sistema finanziario internazionale. Ciò rendeva possibile per l’Iran ricevere ed effettuare i pagamenti che altrimenti gli erano preclusi, per via dello “sganciamento” dal sistema di messaggistica finanziario internazionale Swift imposto dalle sanzioni. Oggi, la reintroduzione – e l’inasprimento – delle sanzioni internazionali e il giro di vite imposto dal governo emiratino ai trader iraniani basati a Dubai, rischiano di fare venire meno una componente importante delle relazioni Iran-EAU, e di lasciare Teheran ancora più isolata nella regione.

 

Qatar

Le relazioni tra Iran e Qatar, già orientate a un solido pragmatismo negli anni passati, hanno subito un netto avvicinamento in seguito allo scoppio della crisi tra Qatar e GCC nel giugno 2017. Il tentativo, guidato da Arabia Saudita e EAU, di isolare diplomaticamente ed economicamente il Qatar allo scopo di limitarne l’autonomia in politica estera, ha portato Doha a intensificare le relazioni con Iran e Turchia al fine di rompere l’isolamento regionale. Se Ankara funge da fornitore di derrate alimentari in sostituzione di Riyadh, Teheran fornisce il proprio spazio aereo e marittimo per rendere possibile la continuazione degli scambi tra il Qatar – soggetto al blocco aereo e marittimo imposto dai propri vicini – e il resto del mondo. A quasi due anni dall’avvio del tentativo di strangolamento dell’economia qatarina, Doha dunque resiste e paradossalmente approfondisce le relazioni proprio con il paese da cui il blocco guidato da Arabia Saudita e EAU gli intimavano di separarsi: la Repubblica islamica iraniana.

 

Oman

In una regione fortemente polarizzata, l’Oman esercita da decenni il ruolo di mediatore regionale, cercando di mantenere neutralità ed equidistanza rispetto alle numerose linee di frattura geopolitica regionale. Condizione necessaria all’esercizio di tale ruolo è il mantenimento di una politica estera indipendente. Così è stato tradizionalmente, tanto che l’Oman è noto proprio per la sua capacità di mantenere relazioni tanto con l’Arabia Saudita quanto con l’Iran. I rapporti tra Mascate e Teheran, giù buoni durante l’epoca dello shah, si sono mantenuti e rafforzati anche dopo la rivoluzione iraniana del 1979, in netta controtendenza rispetto a quanto accaduto con gli altri paesi della regione. La cooperazione tra i due paesi è forte tanto a livello economico – con numerosi accordi in essere soprattutto nel campo dell’energia – quanto a livello militare: dal 2014 Mascate e Teheran svolgono esercitazioni militari in comune nello stretto di Hormuz.

Questo scenario, tuttavia, ha iniziato a mutare negli scorsi mesi, con l’aumento della pressione saudita ed emiratina sull’Oman affinché cessi questa politica di collaborazione con l’Iran e si unisca al blocco del Golfo che ha come obiettivo l’isolamento di Teheran. La pressione di Riyadh e Abu Dhabi avviene prevalentemente attraverso lo strumento economico, e si manifesta soprattutto nel ritardare accordi o imporre ostacoli burocratici agli scambi commerciali così come all’attraversamento del confine tra Oman e EAU. L’economia omanita, del resto, appare particolarmente vulnerabile: la fluttuazione dei prezzi del petrolio, in un paese che trae l’80% delle proprie entrate dalle rendite petrolifere, ha causato un forte stress alle casse dello stato, che deve confrontarsi anche con una disoccupazione giovanile vicina al 50%. La stabilità del paese – che tra pochi anni dovrà affrontare anche il momento ricco di incognite della successione al sultano bin Qaboos – appare dunque gravemente a rischio. Ciò solleva a sua volta numerose incognite sulla capacità di Mascate di difendere sul medio-lungo periodo la propria autonomia in politica estera, e dunque il legame con l’Iran, di fronte alle richieste saudite ed emiratine.

 

1 Said-Amir Arjomand, Constitution-making in Islamic Iran: The impact of theocracy on the legal order of a Nation-State, in June Starr, Jane F. Collier (a cura di), History and Power in the Study of Law. New Directions in Legal Anthropology, pp. 113-128, Cornell University Press, 1989

2 Adnan Tabatabai, Iran in the Middle East: The notion of ‘Strategic Loneliness’, ISPI Commentary, 8 febbraio 2019 

3 Daniel Heradstveit, G. Matthew Bonham, What the ‘Axis of evil’ metaphor did to Iran, Middle East Journal, Vol.61, n.3, 2007, pp. 421-440

4 Walter Posch, Rouhani’s Iran: Moderation under pressure, al-Sharq Forum, 14 luglio 2017 

5 Ariane M. Tabatabai, Other side of the Iranian coin: Iran’s counterterrorism apparatus, Journal of Strategic Studies, Vol.41, Issue 1-2, 2018, pp.181-207

6  Sanam Vakil, What to know about the Tehran terror attacks, Chatham House, 14 giugno 2017 

7 Jundallah: Iran’s Sunni rebels, al Jazeera, 20 giugno 2010 

8 Adnan Tabatabai, The logic behind Iran’s regional posture, LobeLog, 11 dicembre 2017 

9 Mohammad Soltaninejad, Coalition-Building in Iran’s Foreign Policy: Understanding the ‘Axis of Resistance’, Journal of Balkan and Near East Studies, 2018

10 Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, Nuova strategia USA verso l’Iran: quali rischi per l’Italia?, ISPI Focus, 24 maggio 2018 

12 A. Perteghella e T. Corda, Lo Stato duale: la struttura istituzionale della Repubblica Islamica d’Iran, Analysis, ISPI, 10 aprile 2017.

 

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