27 Feb 2019

La soluzione della crisi tra India e Pakistan passa (anche) per l’Afghanistan

La crisi diplomatica e militare tra India e Pakistan rischia di avere conseguenze rilevanti anche sul processo di pace in Afghanistan, ripetono le autorità pachistane e nota qualche analista. Quel che è meno evidente, invece, è che il negoziato in corso a Doha, in Qatar, è anche una delle cause della crisi indo-pachistana, perché a […]

La crisi diplomatica e militare tra India e Pakistan rischia di avere conseguenze rilevanti anche sul processo di pace in Afghanistan, ripetono le autorità pachistane e nota qualche analista. Quel che è meno evidente, invece, è che il negoziato in corso a Doha, in Qatar, è anche una delle cause della crisi indo-pachistana, perché a livello regionale e internazionale ha rafforzato Islamabad e al contrario indebolito New Delhi, innescando una serie di azioni che vanno lette certamente in chiave nazionale e bilaterale, alla luce della lunga ostilità reciproca, ma anche regionale, per via dei recenti avvenimenti sul fronte afghano.

Per capire quanto l’Afghanistan conti nella nuova escalation tra India e Pakistan conviene partire dall’attentato del 14 febbraio a Pulwama contro le forze paramilitari indiane, rivendicato dal Jaish-e-Mohammad (Jem), gruppo islamista radicale che secondo le autorità indiane è legato ai servizi segreti pachistani, sebbene Islamabad neghi l’accusa e il primo ministro Imran Khan abbia rivisto in parte la tradizionale politica di sostegno ai gruppi jihadisti. L’evoluzione strategica del gruppo rimanda, come è stato notato, all’Afghanistan. La postura di Jaish-e-Mohammad in Kashmir si è fatta più aggressiva a partire dal 2014, l’anno in cui le truppe della missione Isaf della Nato hanno cominciato a ritirarsi dall’Afghanistan. Fino ad allora il Jem aveva impiegato risorse, energie, uomini per colpire le forze americane e della Nato. Con il progressivo disimpegno militare della Nato il Jaish-e-Mohammad, così come altri gruppi pachistani anti-indiani, ha cambiato obiettivi e terreno d’azione: non più l’Afghanistan, ma di nuovo il Kashmir.

L’attentato del 14 febbraio a Pulwama va letto dentro questo cambiamento strategico. E può essere ricondotto ad altri due fattori. Il primo è la necessità di Islamabad di dirottare l’attenzione di alcuni gruppi radicali verso obiettivi indiani, evitando che colpiscano le istituzioni statali e governative del “Paese dei puri”. Il Jaish-e-Mohammed serve a catalizzare reclute e militanti provenienti da altri gruppi islamisti. L’altro elemento, più rilevante, è il rafforzamento diplomatico di Islamabad nel quadro regionale e soprattutto nei confronti di Washington.

Nell’agosto 2017, presentando la nuova dottrina asiatica, il presidente statunitense Donald Trump ha criticato apertamente il Pakistan, accusandolo di ricevere finanziamenti americani senza concedere nulla in cambio, tanto meno nella lotta al terrorismo. E ha aggiunto di volere un ruolo più significativo dell’India in Afghanistan, causando molti malumori tra le autorità pachistane, per le quali una forte presenza indiana nel Paese governato da Ashraf Ghani equivale a essere circondati dalla potenza nemica. A distanza di un anno e mezzo, la situazione è opposta rispetto a quella descritta e auspicata allora dal presidente statunitense.

Lo dimostra quello che sta avvenendo in queste ore a Doha, in Qatar, proprio mentre Islamabad e New Delhi si accusano reciprocamente e alzano l’asticella del confronto militare. A Doha una delegazione di Talebani di altissimo profilo sta discutendo con l’inviato degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, un accordo di pace che prevede il ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan in cambio della garanzia da parte dei Talebani di rinunciare a ogni legame con i gruppi terroristici a vocazione globale. A guidare la delegazione degli studenti coranici è mullah Abdul Ghani Baradar, tra i fondatori del gruppo, già sodale dello storico leader mullah Omar e recentemente nominato capo dell’ufficio Politico di Doha. Il punto centrale è questo: se Baradar è a Doha è perché lo hanno concesso le autorità pachistane. Arrestato nel febbraio 2010 a Karachi con un’operazione congiunta della Cia e dell’intelligence pachistana, è stato rilasciato lo scorso ottobre dopo 8 anni di carcere, proprio su pressione degli americani. Nel comunicato con cui hanno annunciato la nomina di Baradar, i Talebani hanno spiegato che serve a “rafforzare e gestire in modo appropriato il processo negoziale in corso con gli USA”, omettendo che serve anche a Islamabad per dimostrare le proprie buone intenzioni e rispondere almeno in parte ai sospetti e alle accuse dell’amministrazione Trump.

Al di là dei suoi esiti, ancora incerti e difficili da valutare, il processo di pace in corso a Doha per ora è una vittoria per le autorità pachistane, e non è un caso che l’inviato Khalilzad abbia tenuto a ringraziarle, appena arrivato a Doha. Al contrario, è fonte di estrema preoccupazione per New Delhi, che ha cercato di isolare diplomaticamente Islamabad nella regione, ritrovandosi invece con un antagonista diplomaticamente più forte e sicuro di prima. Con il rafforzamento sul fronte diplomatico grazie al processo di pace sull’Afghanistan, Islamabad potrebbe aver deciso di offrire maggiori margini di manovra operativa ad alcuni gruppi radicali in funzione anti-indiana nel Kashmir. Presentando ufficialmente un volto conciliante. Lo scorso 11 dicembre il segretario agli Esteri pachistano, Shah Mehmood Qureshi, ha sostenuto infatti che l’India gioca un ruolo importante in Afghanistan, chiedendo sostegno per risolvere il conflitto “attraverso il dialogo”. Un riconoscimento inedito, il primo di questo tipo, ma accolto con scetticismo dalle autorità indiane.

La reazione indiana all’attentato di Pulwama va interpretata alla luce del lungo contenzioso sul Kashmir, delle rispettive opinioni pubbliche, così come delle prossime elezioni indiane, che si terranno a maggio. Ma può essere compreso appieno soltanto all’interno di un quadro più ampio, che ha come fulcro non il Kashmir, ma l’Afghanistan, e più in particolare la riconfigurazione degli equilibri regionali legata al processo di pace e al ritiro degli americani.

Con l’operazione aerea a Balakot (Pakistan) – in cui martedì scorso l’aviazione indiana ha bombardato un campo d’addestramento del Jem – il primo ministro Narendra Modi manda un triplice messaggio. Alla popolazione indiana, e in particolare ai suoi elettori, dice “siete in buone mani”, come ha rivendicato lo stesso Modi in un comizio nel Rajastan. A Islamabad manda a dire che, al contrario di altri attori, New Delhi non si fa ingannare dal doppio gioco dei pachistani ed è pronta a difendere i propri interessi, tanto nel Kashmir quanto in Afghanistan. A Washington segnala che l’India è un attore regionale di cui occorre tener conto nel processo di pace. Quando le truppe statunitensi si saranno ritirate, a fare i conti con un governo guidato anche dai Talebani, movimento con legami significativi con il Pakistan, sarà New Delhi, non Washington.

L’India chiede dunque che gli americani prestino attenzione anche agli interessi indiani nella regione. Una richiesta che mette in difficoltà l’amministrazione Trump, che deve soddisfare due indirizzi politici diversi. Da una parte il sostegno all’India, ribadito tra gli altri dal Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che ha espresso al suo omologo indiano pieno appoggio per un’operazione definita di “auto-difesa”. Dall’altra la necessità di mantenere buoni rapporti con Islamabad, senza cui non è possibile trovare alcun accordo con i Talebani. Riuscire a tenere insieme questi due obiettivi non è semplice. Servono ottime doti diplomatiche. Che l’amministrazione Trump le abbia o meno, si vedrà già nelle prossime ore.

 

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