27 Apr 2018

L’Arabia Saudita sotto i colpi della guerra in Yemen

Otto attacchi in quindici giorni: è questo il numero dei missili lanciati dagli huthi yemeniti contro l’Arabia Saudita tra l’11 e il 23 aprile.(1) La sicurezza nazionale saudita è evidentemente a rischio. Nonostante gli insorti sciiti zaiditi si siano dimostrati, finora, degli scarsi lanciatori, non riuscendo a centrare gli obiettivi prefissati, il bilancio dell’intervento militare in […]

Otto attacchi in quindici giorni: è questo il numero dei missili lanciati dagli huthi yemeniti contro l’Arabia Saudita tra l’11 e il 23 aprile.(1) La sicurezza nazionale saudita è evidentemente a rischio. Nonostante gli insorti sciiti zaiditi si siano dimostrati, finora, degli scarsi lanciatori, non riuscendo a centrare gli obiettivi prefissati, il bilancio dell’intervento militare in Yemen si rivela sempre più fallimentare. Il primo lancio missilistico degli huthi è datato giugno 2015, ovvero tre mesi dopo l’inizio dell’operazione a guida saudita: secondo l’allora portavoce della Coalizione, le capacità missilistiche degli insorti erano state “neutralizzate” già nell’aprile 2015. (2)

Invece, la frequenza degli attacchi si è intensificata, la gittata dei missili si è fatta più lunga, Riyadh è già stata colpita due volte. L’escalation è cominciata due mesi fa. Nella notte fra il 25 e il 26 marzo, terzo anniversario dell’avvio della campagna militare in Yemen, gli huthi hanno lanciato sette missili, su Riyadh (tre), Jizan, Khamis Mushayt e Najran: secondo la coalizione militare a guida saudita, il movimento-milizia fondato dal defunto Husayn Al-Huthi avrebbe scagliato in Arabia Saudita oltre 100 missili dal 2015, quasi tutti intercettati e distrutti – secondo la versione saudita – dal sistema antimissilistico del regno (i Patriot PAC-2 di fabbricazione statunitense).

Ovviamente, quando un missile Patriot parte per intercettare quello del nemico, esso lo colpisce, ma non può “smaterializzarlo”: la caduta dei detriti costituisce un serio pericolo. Proprio i detriti hanno già ucciso un residente egiziano a Riyadh, ferendone altri due (26 marzo), così come un residente indiano, ferito a Najran (30 marzo).

Gran parte dei missili lanciati dagli huthi in territorio saudita sono Scud di fabbricazione sovietica, già in dotazione alla Guardia Repubblicana dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh e quindi parte dell’arsenale dell’esercito regolare, prima che questi si frantumasse. Tuttavia, alcuni Scud presentano modifiche di gittata attribuibili a Iran o Hezbollah (Qaher 1, Qaher 2, Burkan 1, Burkan 2) che gli huthi non avrebbero potuto operare senza l’assistenza tecnica di terzi.

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno identificato, in Yemen e in Arabia Saudita, resti di missili, materiale militare nonché droni, di origine iraniana: armi, si legge nel Rapporto del Panel degli esperti (gennaio 2018), entrate in Yemen dopo l’imposizione dell’embargo. Pertanto, scrive l’Onu, l’Iran non ha preso le misure necessarie per prevenire la fornitura/vendita diretta o indiretta di armi agli huthi, in violazione così delle relative risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu. (3) 

Il lancio settimanale, ormai quasi quotidiano, di missili contro il territorio dell’Arabia Saudita non può diventare un fatto “normale” nel regno, il livello di guardia non è mai stato così alto dai tempi della prima guerra del Golfo (1990-91): l’incidente avvenuto la sera del 21 aprile, quando un drone giocattolo, secondo l’agenzia di stampa ufficiale dell’Arabia Saudita, è stato abbattuto dalle forze di sicurezza mentre sorvolava la capitale, lo testimonia. Le autorità saudite hanno poi emesso una circolare che regolamenta l’utilizzo dei droni ricreativi. Pochi giorni prima, il 16 aprile, due droni di sorveglianza, di probabile fabbricazione iraniana, erano stati abbattuti dai soldati degli Emirati Arabi Uniti a Midi, città frontaliera della regione yemenita di Hajja, a pochi chilometri dall’Arabia.

Due dinamiche politico-militari giocano a favore di un’escalation fra gli huthi e l’Arabia Saudita, quindi del proseguimento della minaccia missilistica contro il regno: l’uccisione del numero due del movimento di Ansarullah e l’inizio dell’offensiva militare anti-huthi nello Yemen occidentale. Dopo giorni di silenzio, il movimento-milizia ha annunciato che Saleh Al-Sammad, capo del Consiglio Politico Supremo degli huthi, è morto il 19 aprile nel corso di un raid saudita sulla città di Hodeida. Al-Sammad, 45 anni, secondo nella lista dei ricercati da Riyadh, rappresentava l’ala politica di Ansarullah, quella del governo parallelo di Sana’a: proprio lui era stato fra i protagonisti della strana alleanza, anche tribale, con il blocco di potere dell’ex presidente Saleh.

La morte di Al-Sammad, rivendicata dall’ambasciatore saudita a Washington, Khaled bin Salman Al-Saud (fratello minore di Mohammed bin Salman), come un successo ottenuto grazie a un ordine direttamente impartito da MbS in qualità di ministro della difesa, dà ulteriore spazio all’ala più militare e dogmatica di Ansarullah, quella della roccaforte settentrionale di Sa’da, ostile al negoziato politico. Il successore, Mahdi Mohammed Hussein Al-Mashat, è infatti un uomo vicino a Mohammed Ali Al-Huthi, il capo del Comitato Supremo Rivoluzionario degli huthi, l’anima militare del movimento che ha in Abdel Malek Al-Huthi (cugino di Mohammed Ali) la guida carismatica nonché spirituale.

Proprio il 19 aprile, giorno dell’uccisione di Al-Sammad, è poi iniziata l’operazione “Mar Rosso”, ovvero il tentativo delle forze di terra anti-huthi, con l’appoggio aereo della coalizione, di recuperare la costa occidentale yemenita. La campagna è coordinata da Tareq Mohammed Saleh, nipote dell’ex presidente (ucciso dagli huthi il 4 dicembre scorso), già brigadiere dell’esercito: sotto l’insegna delle “Forze di Resistenza Nazionale”, Tareq Saleh ha organizzato tre brigate da 3mila uomini, ex membri della Guardia Repubblicana fedele a Saleh, più le Central Security Forces, gruppo d’elite agli ordini del presidente riconosciuto Abd Rabu Mansur Hadi. Questa iniziativa militare, sostenuta dalle Forze Speciali della Guardia Presidenziale degli Emirati Arabi Uniti presenti in Yemen (e appoggiata anche dalle milizie secessioniste e filo-emiratine del sud) vuole mettere in sicurezza il collegamento fra Al-Mokha (già liberata) e Taiz (ancora contesa), per puntare alla liberazione di Hodeida. In caso di successo, il profondo nord, bastione degli huthi, verrebbe isolato, peggiorando così la già grave situazione umanitaria: la posta in gioco, per entrambe le parti, è dunque altissima.

“Qualsiasi cosa succeda in Yemen, i sauditi non devono risentirne”, ha detto MbS in un colloquio al settimanale “Time” uscito il 16 aprile. Certamente, la perdurante minaccia missilistica non fa rima con affari, investimenti e, nel lungo periodo, turismo, ovvero gli asset della diversificazione post-oil dell’Arabia Saudita. Proprio Al-Sammad, qualche giorno prima di morire, aveva dichiarato che il 2018 sarebbe stato “l’anno missilistico per eccellenza” (4) . MbS, sempre al “Time”, non ha escluso l’invio di soldati sauditi in Yemen, ipotesi ancora remota, ma che dà il senso del crescente nervosismo di Riyadh. Che cosa accadrà quando, più verosimilmente di se, i missili degli huthi uccideranno un saudita?

Note:

(1) Date e luoghi colpiti: Riyadh (11 aprile), Jizan (impianto Saudi Aramco, 11 aprile, 12 aprile), Najran (16 aprile), Jizan (impianto Saudi Aramco, 18 aprile, 20 aprile, 22 aprile, 23 aprile)

(2) Al-Arabiya, “Coalition strikes Huthis’ missiles: spokesman”, 19 aprile 2015, https://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2015/04/19/Saudi-led-coalition-spokesman-holds-daily-briefing.html

(3) United Nations Security Council, Panel of Experts on Yemen, 26 January 2018, S/2018/68.

(4)  L’Orient Le Jour, “Assassinat du chef politique des Houthis, menaces de vengeance”, 23 aprile 2018 https://www.lorientlejour.com/article/1111969/des-raids-aeriens-au-yemen-font-au-moins-20-morts-lors-dun-mariage.html
                     

   

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