14 Dic 2018

Le militanti italiane dello Stato Islamico

Più di 500 donne sono partite dall’Europa per unirsi allo Stato Islamico (conosciuto anche come Isis): sono almeno dieci le italiane sedotte dalle promesse di un brand, lo Stato Islamico, appunto. Partendo dall’analisi delle loro storie di vita, questo saggio fa luce sulle caratteristiche socio-demografiche e sui processi di radicalizzazione identitaria. Pone in evidenza i […]

Più di 500 donne sono partite dall’Europa per unirsi allo Stato Islamico (conosciuto anche come Isis): sono almeno dieci le italiane sedotte dalle promesse di un brand, lo Stato Islamico, appunto. Partendo dall’analisi delle loro storie di vita, questo saggio fa luce sulle caratteristiche socio-demografiche e sui processi di radicalizzazione identitaria. Pone in evidenza i fattori di vulnerabilità che hanno predisposto le italiane al fascino del mondo utopico dell’Isis, e il ruolo dei familiari tra i reclutatori. Inoltre, prende in esame le motivazioni, religiose-ideologiche, socio-politiche e personali, che le hanno guidate a compiere l’hijra («emigrazione»). Il brand Isis ha dato risposte per così dire «oggettive» a più esigenze, che sono diventate prospettive di vita. È stato acquisito come ulteriore fonte di senso per la costruzione identitaria da musulmane con profili biografici differenti, accumunate dalla fragile identificazione con sistemi tradizionali (famiglia, comunità islamica e islam tradizionale, Stato, lavoro, ecc.). [1]

 

1.Le donne dell’Isis secondo la prospettiva del brand

Il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi ha annunciato la nascita dello Stato Islamico, ma considerarlo solo un’entità statale è riduttivo: l’Isis è un vero proprio brand con un proprio «mondo possibile» (Semprini 1993; Ballardini 2015), divenuto, però, reale nei territori della Siria e dell’Iraq (Bombardieri 2018).[2]  E come tutti i brand anche l’Isis funziona come un testo letterario, così nella narrazione del suo «mondo possibile», l‘auto-proclamato Califfato, si ritrova parte della struttura  del «viaggio dell’eroe» e alcune funzioni dei personaggi delle fiabe analizzate da Propp (2000). Al-Baghdadi assolve la funzione narrativa del re che emana un editto e fa una chiamata con delle promesse. I foreign fighters rappresentano l’eroe cercatore che risponde a tale chiamata, partendo da una situazione di mancanza e/o desiderio, e il brand è l’aiutante-magico (testimonials, reclutatori) che aiuta l’eroe a compiere la sua missione, contrastata da alcuni personaggi antagonisti (familiari, forze dell’ordine sul confine turco-siriano, Coalizione anti-Isis, ecc.)

In questa narrazione anche le muhajirat (sing. muhajira: donna che emigra) ricoprono il ruolo di eroe.[3] Donne radicalizzate che hanno risposto all’appello di Al-Baghdadi, credendo all’«originaria» promessa del brand: di realizzazione individuale, presentata in chiave religiosa «vocazionale» (Weber 1991; Orsini 2016). E alle promesse «secondarie» di gloria e onore (soprattutto ai mujahiddin, e alle muhajirat di riflesso in quanto mogli-vedove dei mujahiddin-martiri); di empowerment; di liberazione/salvezza; di partecipazione (agency); e di impegno religioso (Rafiq e Malik 2015). Il compimento delle promesse dipende dall’accettazione dell’offerta dell’hijra e del jihad differenziato per genere. Le muhajirat, dunque, compiendo l’hijra accedono allo status religioso e sociale di muhajira (Guolo 2016), ed eseguendo il jihad in ruoli familiari, e funzioni domestiche e sociali, si realizzano all’interno del progetto di edificazione dello Stato Islamico (Brigata al-Khansa 2015). Pertanto, l’accezione muhajira identifica meglio di foreign fighter (combattente straniero) l’esperienza di una donna che non ha avuto accesso all’azione bellica (Dabiq 11, 44). Tale termine è, infatti, preferito nella propaganda (comunicazione del brand) ufficiale (Lombardi 2015; Maggioni 2015) e dalle musulmane occidentali per auto-definirsi nei social media, volendo così porre in evidenza una nuova identità.

L’hijra è stata primariamente finalizzata alla vita, le donne migravano nei territori dello Stato Islamico per vivere ed essere «vere musulmane» (Fernandez 2015). «Vita» è il valore di base dell’identità del brand, già veicolato nello slogan baqiya wa tatamadda: «resistenza» (rimanere: baqiya) e «progresso» (espandere: tatamadda). Baqiya e tatamadda insieme offrono il significato di «vita» nella dimensione spaziale (territoriale) e in quella temporale (terrena e ultra-terrena). Vivere una vita utopica in terra nella dawla (stato islamico), e in «cielo» nella janna («paradiso»). Compiere l’hijra senza mahram (garante)[4], sposarsi e generare figli, accudire bambini orfani, ricoprire funzioni domestiche (cucinare, ecc.) ed extra-domestiche (insegnare, offrire assistenza negli ospedali, applicare la sharia), fare propaganda e reclutare, perpetrare il ricordo degli shahid (martiri) vivendo la morte «per procura», ecc. sono tutte «ortoprassi» che portano «vita». Lo Stato Islamico è stato un territorio da abitare e popolare, ed è un brand da continuare ad alimentare. Nel «mondo possibile» dell’Isis i ruoli e le funzioni attribuite alle donne sono via di empowerment e agency.

 

2. Muhajirat italiane

I fenomeni della radicalizzazione femminile e delle donne militanti nel jihadismo o in gruppi terroristi non sono nuovi (Bakker e de Leede 2015; Bloom 2011); tuttavia è senza precedenti la capacità mobilitante del brand Isis, da un lato, e la risposta affermativa alla chiamata, dall’altro lato.

Le variabili del genere e dell’età differenziano il dato quantitativo dell’Isis, distanziandolo da quello di altri gruppi o movimenti salafiti-jihadisti (es., al-Qaeda). Secondo uno studio del 2015 dell’Institute for the Strategic Dialogue (ISD) di Londra le donne occidentali emigrate nello Stato Islamico sono circa 550 su 4000 combattenti occidentali (Saltman e Smith 2015). Superiore è, invece, il dato dell’International Centre for Counter-Terrorism (ICCT), nel report del 2016 curato da Van Ginkel e Entenmann, la presenza media femminile è stimata al 17% con tendenza crescente fino al 20% del totale dei foreign fighters europei oscillante tra 3922 e 4294 individui (Van Ginkel e Entenmann 2016). La proporzione di donne occidentali nel contingente dei foreign fighters varia, a seconda del Paese, dal 6% al 30% dei giovani partiti.[5] Per quanto concerne l’Italia, dal 2014 al 2017, 12 donne (di cui sei convertite, sette con sola cittadinanza italiana, e tre con doppio passaporto) su 125 individui hanno lasciato il Paese (Marone e Vidino 2018).[6]

 

2 .1 Caratteristiche socio-demografiche

Le muhajirat italiane sono di prima o di seconda generazione, oppure sono italiane convertite, in prevalenza dal cristianesimo all’islam. Hanno un’età compresa tra i 16 e i 40 anni, sono nubili o coniugate e con figli. Inoltre, hanno quasi tutte conseguito un livello d’istruzione superiore; solo alcune hanno intrapreso percorsi universitari, tuttavia senza terminarli. Un esempio è Maria Giulia Sergio che era iscritta al corso di laurea triennale in Biotecnologie presso l’Università degli Studi di Milano. Sulla base dell’età si distinguono due macro gruppi di muhajirat occidentali: le «teenagers» e le «giovani adulte».

Il gruppo delle «teenagers» include ragazzine dai 14 anni in su che stanno attraversando la fase dell’adolescenza in cerca di modelli identitari (Ballaben 2016; Caparesi 2016). Affascinate dalla sub-cultura jihadista (Hegghammer 2017), trovano nell’Isis un lifestyle e un sistema valoriale. Più delle «giovani adulte» hanno una percezione naïve e romantica del Califfato, e hanno una personalità narcisistica, tipica della fase dell’adolescenza (Barber 2010). Dunque, la maggioranza delle muhajirat adolescenti vivono una fase di contestazione verso la struttura patriarcale e/o la tradizione culturale-religiosa rappresentata dai genitori (Bouzar 2014b; Roy 2017). Rigettano il modello materno e svuotano di valore l’autorità simbolica della figura paterna, cercando e trovando nel «mondo possibile» dell’Isis altri modelli forti e ben definiti in cui identificarsi. L’Isis offre loro: una «femminilità con kalashnikov» (madre-donna), la sharia (padre-Legge/autorità), il «vero uomo» (marito-amore) e una comunità di simili (fratelli e sorelle – senso di appartenenza/solidarietà).

Guardando al contesto familiare d’origine le situazioni sono differenti. Ci sono casi di teenagers cresciute in ambienti familiari conservatori con una figura paterna rigida che limitava e vincolava la socializzazione, soprattutto con l’altro genere (es., fuori dall’Italia, le gemelle Halane, di origine somala, partite dall’Inghilterra – Hoyle, Bradford e Frenett 2015; Saltman e Smith 2015; e Hoda Muthana, yemenita-americana, partita dagli Stati Uniti – Alexander 2017).

E ci sono poi i casi di teenagers accudite in ambienti familiari, socialmente isolati, in cui si respirano gli usi e i costumi del Paese d’origine, senza una reale trasmissione del dato religioso. Questo è il caso di Meriem Rehaily, una delle due teenagers partite dall’Italia. Meriem è giunta in Italia all’età di 14 anni, non era praticante e non portava il velo. Amava l’hip-hop, il rap e le moto, si abbigliava e comportava come un «tomboy» («maschiaccio»). Meriem è passata dall’identificazione con forme sub-culturali a una forma contro-culturale. Il brand Isis le ha offerto una chiara identità, radicale, e le ha dato occasione di «ribellarsi» verso i genitori: simbolo di un islam tradizionale, e verso la società occidentale, nuovo contesto di socializzazione (Roy 2017). In entrambi i contesti familiari qui espressi, la figura materna è dipendente dalla figura paterna ed è preposta alla cura dei figli e dell’ambiente domestico: non lavora, non è autonoma e non rappresenta agli occhi delle muhajirat un modello di femminilità di successo.

Le «giovani adulte» (dai 20 anni in su), originarie di paesi a maggioranza musulmana o convertite occidentali, sono donne single, coniugate e con figli o, talvolta, divorziate e con un figlio a carico. Alcune sono disoccupate, mentre altre hanno un lavoro: questo è un dato molto variabile. Le «giovani adulte» italiane non hanno un’occupazione lavorativa e, comunque, dopo la radicalizzazione non la cercano. Guardando al background familiare delle donne italiane, la figura paterna è assente dal nucleo familiare o manca di autorità riconosciuta. Inoltre, in alcuni casi le radicalizzate hanno un primo matrimonio fallito alle spalle, come per esempio le sorelle Sergio (Serafini 2015) e Salma Bencharki, e sono esempi d’oltralpe Laura Passoni, muhajira italo-belga e Tareena Shakil, muhajira inglese.

Il gruppo italiano è costituito da una nutrita rappresentanza di convertite all’islam, nella maggioranza dei casi in seguito all’innamoramento e al conseguente matrimonio con un uomo musulmano. Inizialmente, la conversione all’islam può essere una scelta «relazionale», data dal desiderio di avvicinarsi al partner e alla sua cultura (Allievi 2017; Itri 2011). Tuttavia, successivamente alcune convertite approfondiscono la cultura e la religione islamica, prendendo progressivamente le distanze dallo stile di vita occidentale fino a contrapporvisi. Nell’attuale fase storica, segnata da incertezze e liquidità anche nelle relazioni affettive (Bauman 2006), il modello di subordinazione e rigida separazione dei ruoli offerto dall’Isis può essere fonte di senso e di sicurezza per la donna.

In entrambi i gruppi sono presenti nuclei familiari in situazioni di emarginazione sociale, spesso vivono difficoltà di natura economica, e perlopiù residenti in paesi di piccole dimensioni in vallate di montagna, lago e campagna.

 

3. Radicalizzazione

La radicalizzazione è un processo identitario in cui «un individuo o un gruppo adotta una forma violenta d’azione, direttamente collegata a un’ideologia estremista di contenuto politico, sociale o religioso che contesta l’ordine stabilito sul piano politico, sociale o culturale» (Borum 2011; Wilner e Dubouloz 2010). Secondo Silber e Bhatt (2007) il processo di radicalizzazione consta di quattro fasi: pre-radicalizzazione, identificazione dell’individuo con il movimento radicale, indottrinamento, azione violenta. Non tutti i radicalizzati passano dall’adesione all’ideologia all’impegno violento. Le muhajirat italiane e le donne arrestate o espulse hanno espresso approvazione per l’operato dell’Isis, incluse le esecuzioni rituali (decapitazione, taglio della mano, uso del fuoco); esempi sono le sorelle Sergio e Meriem Rehaily (Priante 2016).

 

3.1 Fattori di pre-condizione

I fattori di pre-condizione ai processi di radicalizzazione e identificazione con l’Isis che sono stati prevalentemente riscontrati nelle biografie delle muhajirat occidentali sono propri della condizione di marginalità sociale (Orsini 2016, 145): stati depressivi; isolamento e senso di solitudine, fragili e scarsi legami sociali; traumi esistenziali (es., morte di un familiare – Vidino 2011), delusioni affettive non rielaborate; percezione della mancanza di senso, d’identità, di appartenenza e di riconoscimento sociale.

Inoltre, in prevalenza sono stati riscontrati ulteriori due fattori: l’assenza della trasmissione del dato culturale-religioso islamico o di altra religione nel caso delle convertite, come già è stato osservato in Francia (Bouzar 2014a; Khosrokhavar 2015; Roy 2017), e l’«evaporazione del padre», ovvero l’assenza della Legge, di un «argine simbolico di interdizione» che, allo stesso tempo, rende possibile «il desiderio come fede nell’avvenire» (Recalcati 2017).

Si tratta di fattori di vulnerabilità che predispongono l’individuo al cambiamento, ad accogliere elementi di novità nel percorso biografico: un viaggio, un lavoro, un’amica, un partner, una religione, uno sport, un brand, ecc. È, quindi, in una situazione di transizione e di apertura cognitiva che le musulmane occidentali hanno incontrato il testimonial del brand, hanno fatto proprio il «mondo possibile» con il suo sistema valoriale, etico e la sua comunità globale. Pertanto, si è di fronte a un fenomeno di strumentalizzazione di fattori di vulnerabilità e condizioni di marginalità sociale al fine di costruire e proporre identità musulmane alternative, quelle del mujahid («combattente») e della muhajira.

A differenza della controparte maschile, le donne non hanno nei loro background: uso di sostanze stupefacenti, precedenti penali, e periodi di detenzione (Marone e Vidino 2018).

 

3.2 Processi

Nelle biografie delle donne musulmane considerate per questo studio, i processi di radicalizzazione seguono due itinerari. Il primo è un processo di radicalizzazione che consegue a un percorso di maturazione religiosa di medio-lungo periodo (un paio di anni), di approfondimento dell’islam, il più delle volte nell’ambiente online. Si verifica il passaggio dalla credenza e pratica dell’islam tradizionale al salafismo e, successivamente, alla proposta dell’Isis (Kepel 2016a). Per esempio, questo è il caso delle convertite italiane Fatima Maria Giulia Sergio, Aisha Alice Brignoli e di Valbona Berisha, musulmana reborn. L’abbigliamento, in particolare il colore e il tipo di velo, e lo stile di vita sono elementi visibili del progressivo cambiamento identitario.

Il secondo è un processo di radicalizzazione che ha origine con la «conversione» diretta al «jihad di marca» dell’Isis (Bombardieri 2018), un «ritorno» che avviene in un breve arco di tempo, come nel caso di Meriem Rehaily. Dall’adesione al brand al compimento dell’hijra è trascorso meno di un anno. Diversi studiosi (Winter 2015; Neumann 2007; Lombardi 2015) e defectors (Laura Passoni, Sophie Kasiki) attribuiscono un ruolo alla «comunicazione del brand», nel facilitare e catalizzare il processo di radicalizzazione identitaria e/o reclutamento. La propaganda che fa leva sulle emozioni, tramite materiale visuale, crea più facilmente e velocemente un senso di fascino verso il testimonial e/o verso il mondo del brand narrato, genera «desiderio mimetico» (Girard 2002).

 

3.3 Motivazioni

Così com’è per i foreign fighters (Roy 2017; Guolo 2018; Khosrokhavar 2014, 2015; Vidino 2014; Marone e Vidino 2018), anche per quanto concerne le muhajirat non c’è un unico modello di donna che si erge a rappresentare il fenomeno della radicalizzazione femminile nell’Isis. Questo è dovuto all’unicità biografica individuale; ogni individuo è mosso dalle proprie complesse esperienze psico-sociali e tratti (Victoroff 2005; Caparesi 2016). Di conseguenza nei profili sono presenti dei push factors (fattori-mozioni interiori di spinta) che hanno incontrato altrettanti diversificati pull factors (fattori di attrazione) della seducente propaganda.

Quali sono, dunque, le motivazioni che hanno guidato le donne occidentali, in particolare italiane, a unirsi all’Isis? Perché hanno compiuto l’hijra? Le motivazioni che sostengono i percorsi di radicalizzazione e di adesione all’Isis, nonché il passaggio all’hijra sono molteplici e differenti, non necessariamente tutte co-presenti nello stesso profilo biografico. Sono state suddivise in tre sfere: la sfera religiosa-ideologica, socio-politica, personale (Bombardieri 2018). Le motivazioni ascritte alla sfera religiosa-ideologica fanno riferimento all’identità religiosa della muhajira (credenza, pratica, conoscenza, ecc.). Le donne principalmente motivate da fattori religiosi considerano l’hijra un obbligo religioso, lo Stato Islamico una terra dove sono garantiti giustizia, sicurezza personale (la possibilità di indossare il niqab) perché è applicata la sharia, e anche l’accesso diretto al paradiso (es., Fatima Maria Giulia Sergio e Aisha Alice Brignoli).

Nella sfera socio-politica ci sono motivazioni che interessano lo stile di vita, la co-esistenza in una comunità e in un territorio, nonché l’assolvimento di funzioni sociali percepite come emancipanti. Le muhajirat motivate politicamente rigettano maggiormente la cultura e lo stile di vita occidentale, desiderando la separazione dagli occidentali stessi e, allo stesso tempo, idealizzano la vita nella dawla e i ruoli di supporto bellico e umanitario nel conflitto siriano (es., Meriem Rehaily e Valbona Berisha).

Infine, le motivazioni della sfera personale si basano su ragioni strettamente individuali ed esistenziali. Le muhajirat sono motivate da fattori che toccano la dimensione affettivo-relazionale ed economico-materiale: mosse dal desiderio di un uomo virile, religioso e romantico (es., Fahmy Fatma e Marianna Sergio), così come dalla possibilità di godere gratuitamente di belle abitazioni.

Le donne, dunque, non si differenziano dagli uomini nella domanda di senso, nella ricerca di identità e di comunità, nel desiderio di protagonismo ed eroismo e di realizzazione individuale e sociale.

Studiando i profili delle muhajirat occidentali, la combinazione di push factors e pull factors nelle loro storie di vita, sono stati elaborati sei «idealtipi» (Weber 2003) di muhajirat: il modello utopista e/o apocalittica, il modello jihadi-bride («sposa jihadista»), il modello «Mulan» («ragazza guerriera»), il modello «Candy Candy» («crocerossina»), il modello naïve («ingenua»), e il modello ingannata (Bombardieri 2018).

 

3.4 Testimonials e luoghi

La maggior parte delle convertite del gruppo italiano si è radicalizzata in seguito a un percorso di maturazione religiosa insieme al fidanzato o al marito, spesso su sua iniziativa, in quanto era già in uno stadio avanzato della radicalizzazione. Inoltre, il processo di radicalizzazione di alcune delle «giovani adulte» e/o convertite è avvenuto durante le fasi della gravidanza e post-gravidanza, quando la donna può essere più suscettibile di manipolazione psicologica (Ballaben 2016). Perché il partner maschile è il compagno privilegiato, talvolta unico, per un confronto; marito e moglie fungono l’uno per l’altro da cassa di risonanza, per cui il dissenso e i dubbi sono messi a tacere dall’intima relazione. La donna può già essere in una posizione di forte dipendenza psicologico-affettiva, in quanto il marito sposandola l’ha riconosciuta con un atto di assunzione simbolica (Recalcati 2017: 63). Un esempio è il caso di Aisha Alice Brignoli in cui si osservano i seguenti passaggi: il ritorno all’islam o la conversione in seguito all’incontro e al matrimonio; l’abbandono dei propri interessi e il ridimensionamento dei legami con la famiglia d’origine alla nascita del primo figlio, il confinamento nella vita familiare e/o nella comunità islamica locale; l’impegno personale nella radicalizzazione e/o il reclutamento di altre donne (le cognate).  

I testimonials del brand, quindi, sono di ambo i generi. Donne ben preparate e ideologizzate reclutano altre donne; le sorelle Sergio, sposate a uomini musulmani, sono radicalizzate e reclutate con l’intervento di altre donne. Fatima Maria Giulia è reclutata da Haik Bushra, la maestra di lingua araba, mentre nel caso di Marianna è la sorella stessa. Pertanto, il testimonial del brand è spesso una persona di fiducia, incontrata in precedenza e che è già partita per il jihad in Siria. Sono soprattutto familiari e amici a reclutare perché conoscono meglio di chiunque altro le forme di mancanza, le fragilità e i desideri dei reclutati (Migotto e Miretti 2017). La francese Sophie Kasiki (2016) è reclutata da tre conoscenti-amici, mentre le sorelle britanniche Dawood così come le gemelle Halane sono reclutate dai fratelli.

Tuttavia, ci sono stati casi di testimonials, resi noti dai media per la loro appartenenza all’Isis, che hanno radicalizzato e reclutato dalle piattaforme dei social networks, come la britannica Aqsa Mahmoud con Hoda Muthana, yemenita-americana (Hall 2015). Le donne sono «avvicinate» in rete mentre navigano in cerca di informazioni generiche sull’islam, sulla lingua araba, sullo stile di vita da adottare in Occidente, e ancora più specifiche sull’Isis come nel caso di Alex, americana dello Stato di Washington, «caduta» nella trappola di Faisal durante la ricerca di dettagli sullo Stato islamico (Vidino e Hughes 2015).

Un ulteriore aspetto da evidenziare è il ruolo del gruppo. Il reclutatore non agisce da solo nel creare una relazione di assoluta fiducia, ma in concerto con un team di supporters. Fanno sentire il «reclutato» parte integrante di una nuova comunità, lo «responsabilizzano», gli danno un ruolo e veicolano il senso di solidarietà e di affetto. L’intrinseca struttura dei social networks facilita relazioni peer to peer, grazie a una comunicazione multi-relazionale e una condivisione narrativa dallo stile conversazionale. La variabile «tempo di permanenza nei social» può anche incidere nei processi di radicalizzazione e reclutamento, perché sono un luogo dove domanda e offerta si incontrano, anche grazie agli algoritmi che propongono pagine simili a quelle già visualizzate. Meriem Rehaily e Valbona Berisha sono state radicalizzate e reclutate online.

I luoghi privilegiati della radicalizzazione delle donne partite, arrestate o espulse sono in prevalenza le reti familiari entro le mura domestiche e le reti amicali nei social networks. Tuttavia, alcuni casi evidenziano il ruolo indiretto delle carceri e delle moschee, perché luoghi dove si sono radicalizzati i mariti di alcune donne radicalizzate.

 

Conclusioni

Per concludere, il brand Isis è stato proposto per la costruzione identitaria dei musulmani post-moderni, perlopiù in situazioni di marginalità e di emarginazione sociale. L’Isis ha dato risposte per così dire «oggettive» a più esigenze di vita, che sono diventate prospettive di vita: modelli di maschilità e femminilità (mujahid, muhajira), ruoli (domestici, extra-domestici), ecc., finalizzati alla costruzione di uno stato. Per questo motivo, il brand è stato acquisito come ulteriore fonte di senso da donne con profili biografici differenti, accumunate dalla fragile identificazione con sistemi tradizionali (famiglia, comunità islamica e islam tradizionale, Stato, lavoro ecc.). Nell’ «epoca dell’evaporazione del padre», il brand Isis ha falsamente assunto l’autorità e la funzione simbolica dell’interdizione della Legge/padre, e ha dato speranza nel compimento di un nuovo avvenire. Le muhajirat, dunque, non hanno visto «un carico di promessa» in un futuro in Italia, lo hanno intravisto nelle promesse del brand e nella realtà dello Stato Islamico. Hanno scelto di compiere l’hijra liberamente e consapevolmente, sono state determinate e ben motivate; non c’è brainwashing («lavaggio del cervello»). Migrando nello Stato islamico hanno agito politicamente e hanno fatto proprie modalità di vita e di empowerment alternative a quelle occidentali.

Il fascino del brand non è stato per tutte irreversibile, infatti, nella dawla molte muhajirat hanno compreso che le promesse sono false e sono tornate indietro o, almeno, hanno tentato di farlo (es., Meriem Rehaily). Le donne ritornate sono motivate da una ritrovata consapevolezza sui modelli che portano vita: queste sono un valore aggiunto per pianificare strategie di contrasto a progetti identitari illusori e ideologie violente, per esempio ricoprendo il ruolo di «mentore» negli interventi di prevenzione e di de-radicalizzazione. Tuttavia, ci sono anche muhajirat, come Khadija Lara Bombonati, convinte di aver lasciato nella dawla la «vita vera» e pronte per questo a progettare una nuova hijra (Rocci 2017).

* Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell'ISPI.

Note

[1] Questo contributo si basa su una ricerca empirica dottorale condotta sulle donne occidentali supporter e muhajirat dello Stato Islamico, successivamente pubblicata in M. Bombardieri, Donne italiane dell’Isis. Jihad, amore e potere, Guida editori, Napoli, 2018.

[2] I «mondi possibili» del brand possono cambiare, ciò che resta è la capacità del brand di generarli. Nel caso studio di Isis, il brand ha mostrato la progressiva generazione di un «mondo possibile» meno ancorato al mito del Califfato e allo Stato Islamico quale «terra promessa», a causa della perdita dei territori. La rivista Rumiyah pubblicata dal settembre 2016 è segno dell’evoluzione della narrativa del brand, più incentrata sull’Occidente, di cui Roma è simbolo nel mito apocalittico islamico. Anche i ruoli offerti alle donne mutano e così i modelli femminili islamici. Nel numero 11 di Rumiyah, Isis attribuisce alle donne un ruolo attivo nel campo di battaglia, motivato dal loro amore per il jihad, il desiderio di sacrificio per Allah e la ricompensa della janna («paradiso») e non dal numero, sempre più esiguo, di combattenti. Inoltre, la figura storica di riferimento diventa Umm ‘Amarah Nasibah Bint Ka’b al-Ansariyyah, a discapito di Khadija, Aisha e Fatima (donne della Ahl al-Bayt, ovvero della famiglia del Profeta Muhammad). Nella continua generazione di «mondi possibili», il brand rimane così fedele sia alla narrazione islamica sia all’idea di successo (vita).

[3] Le muhajirat nel «mondo possibile» del brand sono raffigurate con il niqab e il kalashnikov AK47. La conformità tra l’auto-rappresentazione delle muhajirat nei social media e la propaganda di Isis, diretta a un target occidentale, mostra l’adesione e l’appartenenza delle muhajirat al brand e, quindi, una trasformazione identitaria. La donna dell’Isis porta su di sé il marchio del jihad, il kalashnikov, e diventa testimonial anche mostrandosi con l’indice alzato (simbolo del tawhid) e reggendo la bandiera.

[4] Secondo la tradizione islamica salafita, la donna per uscire dallo spazio privato dell’ambiente domestico necessita di un mahram (garante, custode). Al-Baghdadi, riprendendo la regola sul jihad come dovere individuale (fard ‘ayn) di Abdullah Al-Azzam, scioglie le donne da questo vincolo per consentire l’ingresso nello Stato Islamico, a prescindere dalla volontà del padre o del marito tutore legali). Il brand, quindi, le «emancipa» e le «libera» dando loro una nuova identità, offre la promessa (falsa) di definirsi e auto-determinarsi in quanto donne.

[5] Nel report sono precisati i dati relativi ai Paesi europei che hanno un maggior numero di muhajirat sul totale dei rispettivi foreign fighters: Francia (200 donne su più di 900 partiti), Germania (148 donne su 720-760 partiti), Belgio (47 donne su 516 partiti) e Regno Unito (34 donne su 700-760 partiti). Questi sono seguiti da: Svezia (30 donne su 250-300 partiti), Austria (17 donne su 230 partiti, di cui 9 ragazze sotto i 18 anni), Danimarca (12 donne su 125 partiti), Spagna (13 su 120-139 partiti).

[6] Per questo contributo sono stati presi in esame soprattutto i profili di alcune muhajirat italiane: Fatima Maria Giulia Sergio (27 anni), Valbona Cira in Berisha (31 anni), Aisha Alice Brignoli (39 anni) e Meriem Rehaily (19 anni), unitesi tutte al Califfato.  Sono stati considerati i profili e i ruoli di donne arrestate in prossimità della prima o della seconda hijra (Assunta Buonfiglio, 60 anni; Marianna Sergio, 32 anni; Sara Pilè, 25 anni; Khadija Lara Bombonati, 26 anni, apparentemente legata a un gruppo qaidista e non all’Isis), quelli di donne fermate e/o arrestate che hanno giocato un ruolo nella pianificazione e facilitazione dell’hijra di familiari o amici (Salma Bencharki, 26 anni; Wafa Koraichi, 24 anni). Per quanto concerne i casi di espulsione, dal 2013 al 2017, si sono considerati dettagli socio-biografici di: Jasmin Collcaku, di origine albanese, espulsa con il marito Adrian Collcaku; Diana Ramona Medan (36 anni), di origine rumena, convertita all’islam e sposata con un uomo tunisino; e Fahmy Fatma Ashraf Shawky (22 anni), di origine egiziana. Infine, nel gruppo considerato c’è anche Haik Bushra (31 anni), verso la quale è stato emesso un mandato di arresto inattuato perché fuggita all’estero, prima dell’intervento giudiziario, ora residente in Arabia Saudita.

 

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