22 Lug 2018

Nicaragua: la “fattoria” degli Ortega si ribella

Il territorio del Nicaragua, con la sua forma trapezoidale, occupa la sezione dell’istmo centroamericano a sud degli altipiani dell’Honduras. L’attività vulcanica del paese ha avuto conseguenze importanti su tutta la morfologia della regione, soprattutto sul suo assestamento idrografico. Non è un caso che nello stemma del Nicaragua i vulcani e i due oceani occupino un […]

Il territorio del Nicaragua, con la sua forma trapezoidale, occupa la sezione dell’istmo centroamericano a sud degli altipiani dell’Honduras. L’attività vulcanica del paese ha avuto conseguenze importanti su tutta la morfologia della regione, soprattutto sul suo assestamento idrografico. Non è un caso che nello stemma del Nicaragua i vulcani e i due oceani occupino un posto centrale: c’è quasi una tragica simmetria tra la movimentazione geologica di questa piccola nazione e la sua storia politica, mossa da autoritarismi repressivi e varie forme di ribellismo.

La superficie del Nicaragua è pari a soli 130.000 km quadrati e la sua popolazione è di circa sei milioni di abitanti, con un 70% di meticci e poco più del 15% di popolazione bianca. Colonizzato prima dagli spagnoli, poi dai britannici, è stato annesso all’impero messicano prima, per poi aderire alla federazione Centro Americana.

Oltre che dalle frequenti agitazioni interne, la storia moderna del Nicaragua è marcata dalle ingerenze straniere, comuni a tutti i paesi centroamericani. Solo nel 1978 il presidente della Costa Rica Oscar Arias riuscì a convincere i presidenti degli altri paesi della regione a firmare un progetto che la rese abbastanza pacifica per un quinquennio. Fu per questo che gli venne attribuito il premio Nobel per la pace. All’inizio del secolo scorso fu lo stesso governo nicaraguense, sollecitato dalle grandi società americane di frutticoltura, a convincere gli Stati Uniti a inviare le proprie truppe in quel paese, occupandolo militarmente per un lungo tratto. Nel 1905 il poeta Rubén Darìo, eroe nazionale del Nicaragua che al paese ha dato una identità culturale, scrisse una poesia intitolata a Roosevelt: “credi che la vita è incendio/che il progresso è irruzione/che dove arriva la tua pallottola/arriva il futuro?/no”. A cento anni dalla morte del poeta, queste parole non hanno perso la propria forza.

Fu in quel contesto che apparve sulla scena politica del Nicaragua quel generale Anastasio Somoza Garcìa che negli anni trenta avrebbe dato inizio a una dittatura famigliare durata oltre un quarant’anni. Da allora fino al 1979 almeno un membro della sua famiglia ebbe un ruolo preponderante nello Stato: a volte direttamente come presidente della repubblica e altre come comandante della guardia nazionale che aveva praticamente in pugno il Paese, commettendo ogni sorta di arbitri.

Per rovesciare questa situazione, nel 1962 si costituì il clandestino Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, che prendeva il nome del generale Agusto Cesar Sandino, figura amata e rispettata, capo di un gruppo guerrigliero antigovernativo e antiamericano, ucciso nel 1934. Il suo obiettivo dichiarato era quello di abbattere la dittatura somozista che continuava allora con il figlio del primo dittatore. L’attività del Fronte si manifestava in azioni belliche, che a partire dal 1970 andarono intensificandosi, al punto che il governo introdusse a più riprese la legge marziale. Torture e uccisioni sistematiche compiute dai somozisti (fra l’altro, quella del capo dell’opposizione, Chamorro Cardenal, direttore del giornale La Prensa, nel 1978) furono denunciate di continuo all’opinione pubblica internazionale.

Nel 1979 i sandinisti, ormai padroni di gran parte del territorio e giunti alle porte di Managua, annunciarono la formazione di un governo provvisorio. Il Presidente Somoza si dimise, rifugiandosi nel Paraguay, dove fu assassinato un anno più tardi. I morti della rivoluzione furono calcolati intorno ai 40/50.000.

Ho conosciuto quegli anni e nel 1980 ho attraversato quel territorio e le più importanti città nicaraguensi parlando con alcuni dei protagonisti di quell’epoca, viaggiando per alcuni giorni su un vecchio Mercedes guidato dall’allora vice ministro della difesa Eden Pastora, più noto come il “comandante Zero”. Fui presente nella città di Somoto alla festa di per vittoria sandinista. Alle spalle di quella rivoluzione c’era la cosiddetta “decada perdida”, popolata dalla dittatura militare in Brasile del 1964, in Argentina del 1976, la morte del Che Guevara in Bolivia nel 1967 e il colpo di stato di Augusto Pinochet contro Salvador Allende nel 1973, avvenimenti che segnarono profondamente il Sudamerica di quegli anni. In campo c’era un pensiero sociale cristiano incarnato da partiti molto presenti sia in America Latina che in Europa, che vanamente hanno cercato di costruire uno spazio politico programmatico che cercava di emergere ideologicamente nel durissimo scontro tra un militarismo spesso sostenuto dagli Stati Uniti e un castrismo che aveva riferimenti a Mosca, senza che questo significasse riprodurre come un “calco” lo scontro Est–Ovest come quello conosciuto soprattutto in Europa nel periodo della Guerra Fredda.

La rivoluzione sandinista sembrava andare controcorrente e fu segnata da una partecipazione popolare senza precedenti. Metteva in campo: la riforma agraria, una campagna di alfabetizzazione che ottenne un premio da parte dell’UNESCO e la creazione di un servizio sanitario pubblico in cui fu decisivo l’intervento della cooperazione italiana. Fu un periodo complicato, perché segnato dalla ripresa della guerra civile dovuta all’entrata in campo di formazioni finanziate a favore di una guerriglia controrivoluzionaria (i contras), componente contraria a capovolgimento politico che era avvenuto. Ciononostante, si riuscì a mantenere un quadro democratico, entro il quale si produsse la sterzata liberista impressa dopo il 1996 dal presidente Arnoldo Alemàn, che riuscì a rimettere in carreggiata l’economia locale. Persona chiave del periodo transitorio fu Violeta Chamorro, moglie del giornalista assassinato dalla guardia nazionale, che cercò di tenere insieme un governo di antisomosisti che non si amalgamò con la parte moderata guidata dall’imprenditore Alfonso Robelo.

Successivamente, la componente sandinista accelerò da sola il suo programma nazionale per interi comparti economici, comprese le terre giudicate non produttive. E nel 2006 il fronte sandinista sempre guidato da Daniel Ortega Saavedra riconquistò il potere che tuttora detiene.

Da tempo il Nicaragua, come un po’ tutto il Centro America, è fuori dal radar della pubblica opinione internazionale e della stessa sinistra latino-americana, che insiste nel considerare tutto ciò che pregiudica la sinistra frutto della mano nera dell’imperialismo. Ma dodici anni dopo, il protagonista della politica del Nicaragua, oggi una repubblica presidenziale, è ancora il Presidente Ortega, comandante della rivoluzione sandinista che nel 1979 rovesciò il regime di Anastasio Somoza e attuale leader del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Ortega è stato rieletto a novembre 2016 per un terzo mandato quinquennale consecutivo (il quarto se si tiene conto quello relativo al periodo 1985-1990) con la moglie Rosario Murillo che ha assunto le funzioni di vicepresidente.

Ortega rappresenta una ridotta nuova borghesia, arricchitasi spogliando qualsiasi risorsa del paese e paurosa del futuro incerto. Nel suo fortino, situato in un bario esclusivo, Ortega teme la rivolta dei poveri, al momento priva di un’alternativa politica, ma teme anche uno sciopero fiscale a tutto campo e soprattutto di un imputridimento alla venezuelana: quella che rappresenta è una componente verticistica, che pensa che si possa perdere tutto meno il potere, perché il resto è una illusione. Ma quando si vuole sostituire un tutto con un altro tutto, si apre al disastro autoritario. C’è stato un tempo in cui nei principali Paesi europei, compresa l’Italia, il Centro America e le vicende polacche e praghesi per le loro opposte scelte di campo (c’era ancora il Muro di Berlino) riempivano le prime pagine dei quotidiani e stimolavano la ricerca di una distensione praticabile. Numerose furono le conversazioni del sottoscritto con inviati speciali del calibro di Maurizio Clerici per il Corriere della Sera, Paolo Guzzanti della Repubblica e la giovane salernitana, Lucia Annunziata, alle sue prime esperienze giornalistiche sul Manifesto.

Dal mese di aprile in Nicaragua è in corso una protesta portata avanti principalmente da giovani universitari, contro l’indifferenza del governo di fronte alla catastrofe ecologica della riserva naturale Indio-Maìz, causata da un incendio determinato dalla selvaggia deforestazione: un fuoco incontrollabile che si estese lungo tutto il bosco umido tropicale che copre il sud-est del Nicaragua fino alla frontiera del Costa Rica, paese in cui la salvaguardia della natura boschiva è protetta dalla Costituzione. Il problema degli incendi fu minimizzato dalla vicepresidente, mentre il governo reagì tardivamente e in forme autoritarie, militarizzando la zona e impedendo a giornalisti e ambientalisti di entrare nella riserva. Sembra che la vicepresidente Murillo detenga un potere superiore a quello del marito: non è molto amata dai nicaraguensi, e proprio per questo è soprannominata la “Chayo”, un’abbreviazione di Rosario, ma anche la “Chamucha”, la fattucchiera. Il personaggio proviene dalle file combattenti sandiniste, ma ora è andata riempiendo la città di Managua con gli “alberi della vita”. Ce ne sono centocinquanta: sono strutture metalliche alte una ventina di metri, opere molto costose che dovrebbero rappresentare la pace e altre cose come l’amore, ma che vengono interpretate soprattutto come il simbolo del potere di Rosario Murillo. È proprio per questo che molti di questi alberi sono stati abbattuti.

Le proteste per gli incendi sono state un antecedente della ribellione in corso, che ha preso slancio soprattutto a causa della riforma che, toccando ogni cittadino, ha aumentato il contributo dei lavoratori e degli impiegati al sistema di sicurezza sociale, riducendo allo stesso tempo l’intero sistema pensionistico. Strana sorte per un sandinista frenare l’enorme deficit finanziario del paese praticando le regole propugnate dal Fondo Monetario Internazionale e spesso imposte in maniera dottrinaria, come fosse l’unica forma attuativa, quelle stesse regole che diedero vita al cosiddetto consenso di Washington, aprendo la successiva “decada de deseperacìon”. Il fatto che Ortega non abbia intavolato nessuna trattativa, né con le imprese né con i sindacati, ha esacerbato la situazione a tal punto che neanche l’immediato ritiro del provvedimento è riuscito a far rientrare la protesta.

Cosa è successo in Nicaragua? Come spiegare questa così sorprendente e partecipata insurrezione di quasi tutti i settori della società, in un paese che sembrava progredire con tranquillità? Sergio Ramirez, scrittore nicaraguense, Premio Cervantes nel 2017 e vicepresidente del primo governo Ortega, oggi all’opposizione, ci ricorda che ci sono decenni in cui non accade nulla, e settimane in cui succede un intero decennio. L’economia, in un paese rimasto sostanzialmente povero, cresceva mediamente da anni a un 4% in cui le disuguaglianze aumentavano; non esistevano quelle pandillas giovanili che sono l’elemento portante della violenza in paesi come il Salvador e l’Honduras, ma soprattutto il Governo collaborava con la DEA (Drug Enforcement Administration) americana per combattere il traffico della droga.

Il Fondo Monetario internazionale applaudiva Ortega perché curava la finanza fiscale e aveva convertito le imprese e quella parte di chiesa cattolica legata al vecchio cardinale Obendo y Bravo nei suoi principali alleati. Curiose alleanze queste, che favorivano gli investimenti e facilitavano gli affari. Forte era anche l’aiuto da parte del governo venezuelano di Chavez prima e Maduro oggi, con forniture di petrolio a prezzi ridotti e programmi sociali. Oggi, la Chiesa è la realtà più credibile in Nicaragua, capace di mediare e difendere la protesta definita da Ortega un “punado de curas” affermando che non riuscirà a fermarlo. Ed è proprio per questo che i suoi seguaci, a viso coperto, invadono chiese e università.

Gli Stati Uniti, che criticavano duramente i venezuelani ma accettavano il socialismo del 21esimo secolo di Ortega, pensavano a un Nicaragua capace di dare qualche stabilità al Centroamerica tamponando l’emigrazione. Ma il potere discrezionale del governo è andato via via rafforzandosi, con un parlamento, un potere giudiziario e autorità elettorali sempre più servili, che hanno reso possibile una riforma costituzionale che assicura ad Ortega una rielezione perpetua. È così che Nicaragua addormentato ha iniziato a risvegliarsi, con un sollevamento popolare quasi comparabile alle eroiche lotte contro il somosismo.

“Los muchachos” in questi giorni stanno protestando a Masaja, capitale del folclore in Nicaragua, ammirata per la sua cultura, costruendo 200 blocchi dentro la città, soprattutto nel “bario” indigeno di Monimbò che neanche Somoza riuscì a piegare, bombarandolo dal cielo. In queste ore stanno resistendo all’intervento di esercito e polizia e le “famigerate tubas”, manipoli di violenti motociclisti, che guidati dallo stesso Ortega vogliono ripulire la città, costi quello che costi, affinché non venga cancellato il 39esimo anniversario della vittoria sandinista sulla “Sangriente” dittatura somosista.

Quelli scesi in campo oggi sono i nipoti della rivoluzione sandinista che non hanno conosciuto, riuscendo lo stesso a determinare una connessione diretta con i loro nonni. Per loro, quel passato sembra oggi moltiplicarsi, ed è impossibile distinguerlo dall’oggi. Ortega lascia sul campo più di 360 morti, quasi 260 scomparsi e più di duemila feriti. In un tentativo di dialogo organizzato dalla Chiesa cattolica, con tutti i presenti compreso Ortega, un giovane 20enne, Lesther Haleman, fissando il Presidente negli occhi a testa alta, ha iniziato il suo intervento dicendo: “questo non è un incontro per dialogare, ma un luogo per negoziare la sua definitiva uscita di scena”. In un mondo dove cresce una destra marcata di autoritarismo, populismo e xenofobia, la sinistra non può lasciare Ortega a gestire a suo nome tale violenza.

 

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