11 Set 2018

Siria, i tanti nodi dell’offensiva su Idlib

Focus

Secondo fonti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, un gruppo di attivisti con sede nel Regno Unito, il regime siriano ha avviato i bombardamenti su Idlib, l’ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad. Le testimonianze raccolte denunciano l’uso di bombe a grappolo – il cui utilizzo è proibito dalla Convenzione di Ginevra – sui villaggi nord-occidentali, vicino al confine con la Turchia. Contemporaneamente, a sostegno dell’offensiva guidata da Damasco, i jet russi avrebbero invece cominciato i bombardamenti sulle città a nord di Hama. La battaglia per la riconquista di Idlib, e soprattutto i nuovi equilibri che verranno a crearsi dopo il suo completamento, potrebbe risultare determinante per le sorti del conflitto siriano, giunto ormai al settimo anno.

La riconquista della città da parte del regime di Assad – con l’aiuto di Russia e Iran – segnerebbe l’eliminazione dell’ultima sacca territoriale nelle mani dell’opposizione armata, lasciando fuori dal controllo di Damasco solo le aree sotto tutela statunitense nel nord-est e nel sud-est del paese, quelle sotto controllo turco nel nord-ovest e quelle controllate dai combattenti dello Stato islamico nell’est del paese, perlopiù desertico. L’obiettivo delle forze di Assad sembra essere quello di non fermarsi fino a che l’autorità del regime non sarà ripristinata sull’intero territorio della Siria. Ma proprio perché Idlib rischia di essere la madre di tutte le battaglie, è qui che si concentrano diversi nodi cruciali.

Perché Idlib è importante?

Come spiegato in questo commentary, nella battaglia per Idlib sembrano convergere molte delle profonde ambiguità createsi in questa lunga fase finale della guerra civile siriana.

Idlib è una delle quattro aree di de-escalation (Homs-Hama, Daraa’, Ghouta, e Idlib) concordate da Russia, Iran e Turchia nel corso del processo negoziale di Astana. È nota per essere la roccaforte del gruppo terrorista Hayat Tahrir al-Sham – legato a al-Qaeda – e di altre forze dell’opposizione, tra le quali formazioni salafite come Ahrar al-Sham ma anche i ribelli dell’Esercito libero siriano appoggiati dalla Turchia. Ma Idlib è soprattutto la città nella quale sono stati ricollocati gli oppositori al regime di Assad, tra cui centinaia di migliaia di civili, mano a mano che il regime completava la riconquista delle altre aree. Proprio per questo, l’offensiva su Idlib potrebbe trasformarsi rapidamente in una catastrofe umanitaria.

Secondo l’inviato speciale dell’Onu per la Siria Staffan de Mistura, a Idlib ci sarebbero 10.000 combattenti di Hayat Tahrir al-Sham – la formazione jihadista controllerebbe infatti circa il 60% della provincia – mescolati a migliaia di altri combattenti di vari gruppi. Secondo gli osservatori, i jihadisti non sarebbero disposti a negoziare la resa: al contrario, dal loro punto di vista un’offensiva particolarmente sanguinaria accrescerebbe la pressione della comunità internazionale su Russia e Siria, costringendole a permettere ai jihadisti di mantenere la loro enclave. Anche il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha affermato di comprendere la portata della minaccia terroristica emanante da Idlib, ma che la lotta ai jihadisti non può avvenire a prezzo di una catastrofe umanitaria. Secondo le stime ONU, a Idlib risiedono circa 3 milioni di civili, circa la metà dei quali sono sfollati interni, ricollocati nella città man mano che il regime completava la riconquista delle altre aree contese. Sempre secondo l’ONU, a rischio ci sarebbero almeno 900.000 persone. Anche per questi motivi dall’avvio dell’offensiva su Idlib ci si attende una massiccia fuga di civili, soprattutto verso la Turchia (nella quale si trovano attualmente oltre 3,5 milioni di siriani).

Perché la Turchia frena?

La zona di de-escalation di Idlib si estende oltre i confini amministrativi della provincia e comprende parti delle province di Hama, Latakia e Aleppo. È direttamente adiacente alle aree su cui la Turchia ha stabilito il proprio controllo: il triangolo al-Bab, Jarablus, Azaz e il cantone di Afrin a seguito rispettivamente delle due operazioni militari Scudo dell'Eufrate (tra l’agosto 2016 e il marzo 2017) e Ramo di ulivo (tra gennaio e marzo 2018). È proprio Ankara a tirare il freno sull’avvio dell’offensiva: pur concordando con Mosca circa il fatto che sia necessario porre fine alla presenza del gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham, la Turchia nutre riserve su due punti principali. In primo luogo, vorrebbe limitare l’entità e l’estensione territoriale dell’operazione, in modo che non si crei un nuovo massiccio afflusso di rifugiati verso i propri confini. In secondo luogo, Ankara preme per l’inviolabilità dell’opposizione “moderata” dell’Esercito libero siriano, sotto il cui controllo spera di lasciare Idlib, rafforzando così la sua zona di influenza nel nord della Siria.

Nel corso del summit di Teheran del 7 settembre scorso, il presidente turco Erdogan non è però riuscito a convincere le proprie controparti russa e iraniana ad acconsentire a un cessate il fuoco, che avrebbe dato più tempo al negoziato con le opposizioni barricate nella città. Nella dichiarazione sottoscritta da Turchia, Russia e Iran a seguito del summit, i leader dei tre paesi ribadiscono il loro impegno al raggiungimento di “una soluzione negoziale al conflitto, che preservi l’integrità territoriale del paese, elimini i terroristi legati ad al-Qaeda e permetta il ritorno sicuro dei milioni di profughi” dislocati nei paesi vicini e in Europa. Al di là di questa comunione di intenti ufficiale, però, la crepa che divide Turchia da Russia e Iran è profonda: mentre la prima chiede più tempo per la diplomazia, o almeno per l’avvio di un’offensiva mirata nelle aree in cui sono presenti i gruppi jihadisti, Russia e Iran (e regime siriano) sembrerebbero propendere per un’offensiva ad ampio raggio che faccia tabula rasa dell’opposizione ad Assad arroccata a Idlib, senza risparmiare i ribelli “moderati” dell’Esercito libero siriano che godono dell’appoggio di Ankara.

Quale ruolo per gli USA?

Il teatro siriano sembra costituire un rebus sempre più complesso anche per gli stessi Stati Uniti: proprio l’amministrazione Trump, dopo aver a lungo evocato un imminente ritiro delle proprie truppe, ha recentemente annunciato l’avvio di una nuova strategia che vedrebbe invece la permanenza in Siria “per un periodo di tempo non definito” dei suoi 2200 soldati, allo scopo di combattere ciò che rimane dello Stato islamico (le stime parlano di circa 14.000 combattenti, che controllano il 5% del paese) e mantenere la pressione sull’Iran affinché non estenda il proprio controllo sul paese. Washington vuole con ogni probabilità evitare uno scenario simile a quello dell’Iraq successivo all’intervento statunitense del 2003, quando l’eliminazione di Saddam e la destabilizzazione del paese hanno aperto le porte a un aumento dell’influenza iraniana su Baghdad.  

Al tempo stesso, al di là delle dichiarazioni più recenti, sembra realistico ipotizzare che Trump ricerchi effettivamente uno smarcamento dal teatro siriano. La via di uscita per Washington passa però inevitabilmente da un accordo con la Russia. Lo scorso 23 agosto si è tenuto a Ginevra il primo round di colloqui tra Washington e Mosca a livello di consiglieri per la sicurezza nazionale, dopo l’incontro Trump-Putin a Helsinki del 16 luglio. Il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense John Bolton ha incontrato il segretario del Consiglio per la sicurezza nazionale russo Nikolay Petrushev. L’esito controverso del summit di Helsinki – in occasione del quale Trump era apparso un po’ troppo “docile” nei confronti di Putin, salvo poi aggiustare il tiro una volta tornato in patria – sembra però aver inciso sulla effettiva riuscita del dialogo: la politica statunitense verso la Russia, anziché essere guidata da un’impostazione pragmatica, appare vittima della diffidenza di vasti settori del sistema politico americano, con il risultato che i tentativi di controbilanciare la politica di Trump nei confronti dello storico avversario russo, percepita da parte dell’amministrazione Usa come troppo docile, portano a misure punitive unilaterali – le sanzioni – e al gelo diplomatico anziché al dialogo che sarebbe invece necessario. In questo contesto, appare oggi improbabile che Mosca possa acconsentire ad aiutare gli Usa a smarcarsi dalla Siria – aiuto che per Washington dovrebbe necessariamente consistere anche nel fare pressione sull’Iran perché riduca la propria presenza militare nel paese.

Tutto passa da Mosca?

La gestione della crisi siriana appare sempre più come un rebus anche per Mosca. A fronte di un ruolo militare innegabile, la trasformazione di quest’ultimo in dividendi politici è apparsa invece meno scontata. Nel suo ruolo di mediatrice anche diplomatica della crisi Mosca si trova ad affrontare tutte le difficoltà derivanti dalla complessità e dalla molteplicità degli interessi dei diversi attori in campo. Nel caso della battaglia per Idlib, Mosca sembra aver agito da freno per diverse settimane alle ambizioni di Damasco, che avrebbe voluto lanciare l’operazione molto tempo fa. La ragione principale della cautela russa sembra essere il desiderio di non rompere con la Turchia, un alleato tattico sempre più importante nell’ottica del confronto con gli Stati Uniti e di evitare per quanto possibile nuove stragi di civili, che secondo il sibillino tweet di Donald Trump potrebbero portare a un maggiore coinvolgimento statunitense. Mosca appare però altrettanto determinata a sconfiggere in maniera definitiva la minaccia terroristica rappresentata da Hayat Tahrir al-Sham e dalle altre formazioni jihadiste presenti a Idlib.

La via di uscita ideale per Mosca sarebbe il raggiungimento di un “accordo di riconciliazione” tra i ribelli e Damasco, come avvenuto nel sud della Siria. L’estrema radicalizzazione dell’opposizione raccoltasi a Idlib, oltre al fatto che i ribelli non avrebbero più dove andare, rende però altamente improbabile questa ipotesi. Nelle scorse settimane Mosca ha dato ad Ankara il tempo di completare il processo di “delimitazione” tra “terroristi” e “opposizione armata”, cioè tra le formazioni jihadiste che rappresentano un comune nemico e i ribelli dell’Esercito libero siriano sostenuti dalla Turchia. A fine luglio, però, il rappresentante speciale di Putin per la Siria Alexander Lavrentiev ha avvertito che la pazienza di Mosca non sarebbe stata eterna. Dopo il sostanziale fallimento del summit di Teheran, Mosca sembra dunque aver dato il via libera all’avvio dell’offensiva.

A questo stadio, il futuro della Siria sembra dunque dipendere da ciò che resterà dell’opposizione dopo la riconquista della regione e dalla sopravvivenza o meno del formato negoziale di Astana. La Turchia ha infatti minacciato di abbandonare i colloqui con Russia e Iran nel caso in cui i due partner negoziali non avessero accettato un compromesso che tenesse conto delle sue richieste. Al tempo stesso, però, il graduale deteriorarsi dei rapporti tra Turchia e Occidente – soprattutto tra Turchia e Stati Uniti – sembra rendere poco credibile la minaccia di Erdogan di creare un reale strappo con la Russia.

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