Il supereroe egiziano di Wahba Street

A Hussein non devo spiegare la legittimità di Israele, né che i palestinesi vengono usati in modo disumano dall'ideologia islamista come strumento contro di noi. Lui lo sa di prima mano

Di Rachel Wahba

Rachel Wahba, autrice di questo articolo

Quando Hussein Mansour inizia a parlare del crescere in Egitto nell’odio verso gli ebrei e Israele, vorrei che mio padre fosse ancora vivo. Ho incontrato Hussein un decennio dopo la morte di mio padre. Mio padre avrebbe amato Hussein tanto quanto me. Riesco a immaginarli che chiacchierano in arabo, ridendo per qualche spiritosaggine egiziana. E mio padre, Moussa Wahba, si sentirebbe sentito riscattato quanto mi sento io.

Sia Hussein che mio padre furono costretti a lasciare la loro terra natale a causa di quello che erano. Mio padre dovette andarsene perché ebreo. Hussein dovette andarsene perché sionista. Non vi è alcuna reale delimitazione fra ebreo e sionista, nella società islamica.

Nato e cresciuto due generazioni dopo che Nasser, nel 1956, iniziò ad espellere gli ebrei dall’Egitto, a Hussein è stato detto che gli ebrei in qualche modo “se ne sono semplicemente andati via”. La mia famiglia era tra quegli 80mila ebrei egiziani espulsi a calci come “stranieri”, con una sola valigia di vestiti a testa. Quando Hussein parla di come è diventato sionista, il senso di riscatto ricostruisce qualcosa dentro di me. Per troppo tempo ho dovuto spiegare e rispiegare infinite volte cosa è significato crescere apolidi, con genitori e famigliari sia paterni che materni che sono dovuti fuggire dai paesi arabi perché erano ebrei. Oggi la maggior parte degli egiziani non ha nemmeno idea che una volta noi ebrei eravamo parte vitale dell’Egitto.

Hussein Mansur durante un intervento in un campus americano

Mio padre non si stancava mai di ricordare a me, e forse a se stesso, come la nostra fosse una famiglia di “veri egiziani” con origini risalenti a oltre duemila anni fa. Raccontava di come una volta c’erano così tanti di noi in una cittadina che la cittadina era localmente nota come “Kfar Wahba”. Il suo orgoglio di essere egiziano mi stupiva. Come poteva sentirsi orgoglioso di un paese che ci ha traditi così malamente? Mi feriva sentire il profondo senso di riconoscenza con cui ricordava quanto suo nonno fosse rispettato dai musulmani, “un grande onore per un ebreo”. Accettare l’ineguaglianza faceva parte integrante dell’essere ebreo sotto l’islam, anche nei periodi migliori. Oggi in Egitto non ci sono più ebrei di cui parlare, ma qualsiasi cristiano egiziano – ce ne sono troppo perché vengano espulsi – capisce molto bene questo status meno che di seconda classe. Essere considerati equamente umani, sotto l’ideologia islamica, è un’esperienza che porta a commuoversi.

La storia di Hussein è a dir poco insolita. Il suo coraggio, dopo aver involontariamente scoperto la verità in una terra di censura, è epico. Non poté smettere e non poté restare in silenzio, una volta che ebbe iniziato a conoscere la verità sugli ebrei, su Israele, sul cristianesimo e sul mondo. Figlio di mezzo in una famiglia musulmana prevalentemente laica, Hussein aveva undici anni quando intraprese un percorso religioso. Cominciò a pregare più volte al giorno, facendosi sempre più devoto. Si ritrovò a pregare per la distruzione degli ebrei e di Israele. Quando era adolescente, ci odiava ormai con la passione di un jihadista in erba pronto a combattere la guerra santa contro i sionisti. Appassionato di supereroi dei fumetti, Hussein incanalò il suo odio in un modo completamente originale: sarebbe diventato un supereroe. Lui, Hussein, avrebbe “imparato tutto sull’arci-nemico, l’Ebreo”, il supremo cattivo dell’universo responsabile di tutto ciò che va male nella civiltà. Si mise a studiare l’ebraico, prima da solo via internet e poi all’università. Bussò alla porta dell’ambasciata israeliana al Cairo e fu accolto come un eroe (non ricevono molte visite). Gli diedero libri e riferimenti, gli si aprì un mondo.

L’attrice egiziana Nadia El Gendy, intervistata lo scorso 13 luglio dalla emittente egiziana ON TV, ha affermato che i social network “sono senza alcun dubbio un’industria ebraica volta a distruggere i paesi” (clicca sulla foto per il video MEMRI con sottotitoli in inglese)

Poi incominciarono ad arrivare a casa sua chiamate minacciose. Venne arrestato per una notte. Venne arrestato anche suo padre. Gli dissero più volte di smetterla di andare all’ambasciata israeliana. Ma lui non prese abbastanza sul serio gli arresti e si rifiutò di smettere di postare sul suo blog le sue nuove idee. La sua consapevolezza continuava ad espandersi. I suoi amici pensavano che le sue nuove idee fossero folli, ma lui continuava a studiare. Ha studiato la storia ebraica e poi quella del cristianesimo. Non c’erano più ebrei in Egitto, ma vedeva che i cristiani egiziani (come gli ebrei) non erano quei luridi subumani vili e puzzolenti che gli era stato insegnato. Leggeva di Israele. E scriveva. Invece di diventare il supereroe che aveva immaginato, finì col rifiutare l’islam. Divenne sionista, un nemico dello stato. Venne arrestato e torturato per due mesi, finché perse la capacità di vedere i colori e di desiderare altro che di morire. Alla fine venne aiutato a uscire dal paese, a fuggire per salvarsi la vita: in America, dove l’ho sentito parlare per la prima volta in un panel con altri dissidenti dal Medio Oriente.

Quando l’ho incontrato per la prima volta, l’ho interrogato sul criticare l’ideologia islamica senza essere zittiti come “islamofobi”. S’è messo a ridere, dicendo che non ci si deve affatto preoccupare di questo. Mi stava già riscattando, perché è così che vengo regolarmente colpevolizzata, anche quando parlo dell’esperienza della mia famiglia. Anche quando racconto la storia della mia madre irachena, che accompagnava suo padre a Bassora per affari e vedeva il mercante sciita lavarsi le mani per purificarsi dopo aver fatto affari con mio nonno, il mercante ebreo. Questa storia viene definita “islamofoba”.

Il riscatto che ho provato con Hussein, e che ogni sionista proverebbe, è una benedizione. Abbiamo un gran bisogno che la nostra storia sia compresa. A Hussein non devo spiegare quanto gli islamisti sono toccati sul vivo dal fatto che, sebbene si siano sbarazzati di noi ebrei nei loro paesi in tutto il Medio Oriente, Israele si è sviluppato e continua a prosperare in mezzo a loro come paese ebraico. Con Hussein non devo spiegare la legittimità di Israele come paese ebraico, né come i palestinesi erano e continuano a essere trattati in modo disumano dall’ideologia politica islamica come uno strumento per sbarazzarsi di noi, dopo il fallimento delle grandi guerre aggressive per distruggere l’unico paese ebraico. Non devo convincerlo che la questione dei “profughi”, che continuano ad aumentare di numero, e le proteste “pacifiche” al confine di Gaza sono una crudele impostura. Lui lo sa.

Lo sa di prima mano, come la mia famiglia, come la maggior parte degli ebrei originari dei paesi arabi, come chiunque si rifiuti di vivere nell’ignoranza di una realtà che bisognerebbe guardare dritta negli occhi se vogliamo che Israele sopravviva. Questa correlazione con lui significa tanto per me.

Wahba è un cognome tipicamente egiziano, condiviso da ebrei, musulmani e cristiani, ma non è un nome comune per una via. Così, quando Hussein ha buttato lì: “fra l’altro, sono cresciuto in Wahba Street al Cairo”, avrei tanto voluto che lo potesse sentire mio padre.

(Da: Times of Israel, 4.7.18)

Il documentario Libia. Come eravamo, sugli ebrei di Libia e il loro esodo forzato dopo il 1967, diretto da Ruggero Gabbai e David Meghnagi, sarà trasmesso su Rai Uno a settembre. E’ stato al Festival di Gerusalemme, a Toronto ed è stato proiettato a Tel Aviv per iniziativa dell’Istituto Italiano di cultura. Clicca sulla foto per il trailer