Fermate con i profughi saltate, coinvolti altri autisti Salvetti si difende: «Preso di mira, non sono razzista»

di Nicola Guarnieri

«Non sono razzista, ho sempre rispettato tutti e ho sempre svolto il mio lavoro con rigore. Mi si vuole incastrare ma su questo caso gonfiato io mi chiamo fuori».

Moreno Salvetti, l’autista di Trentino Trasporti finito sotto i riflettori per aver tirato dritto alla fermata dell’autobus di Marco e non aver fatto salire i profughi, rigetta le accuse. E passare per uno che discrimina i passeggeri in base al colore della pelle non ci sta proprio. Tanto più che, nel polverone sollevato dal caso, si è parlato di un rischio licenziamento. «La questione è stata strumentalizzata. Per fortuna mi arriva tanta solidarietà».

Salvetti, 20 anni di volante, è pure delegato sindacale della Uil. E nel tritacarne ci è finito, per altro, per fatti risalenti a dicembre. «È una roba pazzesca. Non c’entro nulla con il razzismo».

Il 4-5 dicembre, però, non si è fermato.

«Ero convinto che prendessero il tram urbano che arriva subito dopo».

E il ragazzo in mezzo alla strada che ha cercato di fermare il bus?

«Non pensavo fosse quella l’intenzione. Tant’è che al capolinea ho chiamato Carlo Plotegher, referente di zona, e l’ufficio per segnalare una persona in mezzo alla strada che rischiava di farsi prendere sotto».

Nessuna volontà di lasciare a piedi i profughi, dunque?

«Ma quando mai! Anche perché dalla sede mi hanno fatto sapere che i ragazzi del campo vanno caricati perché sono arrivate tante segnalazioni di autobus che non si fermavano e li lasciavano in strada».

Quindi altri autisti hanno tirato dritto, non lei?

«Io non ho mai fatto quel tratto. Quei due giorni, però, avevo bisogno di cambiare turno e per quello ero alla guida. Ho coperto quella tratta solo due volte. Ci tengo a dire che ho sempre fatto il mio dovere».

E le contestazioni?

«Quando sono andato in sede il direttore mi ha contestato di non aver caricato i passeggeri anche le settimane prima. Ho ribadito che io quel tragitto l’ho fatto solo due volte e dai tabulati è emerso proprio questo. Non a caso non ho mai ricevuto lettere di contestazione».

Altri suoi colleghi sono mai stati richiamati per episodi simili?

«So di colleghi che hanno lasciato a piedi gente e hanno preso multe».

È vero che rischia il licenziamento?

«Perché dovrei? Come fa l’azienda a decidere che sono razzista? Ci sarà un giudice per quello».

Insomma, la mancata fermata di Marco non c’entra con i profughi?

«No. Pensavo prendessero l’autobus urbano che arrivava subito dopo la corriera. Non è certo la prima volta che carico profughi o comunque immigrati. E questo indipendentemente dal fatto che abbiano il biglietto».

Quando ci sono gruppi numerosi alla fermata cambia qualcosa?

«Di solito sì. Quando ci sono 20-30 persone devono avvisare l’azienda per bissare la corsa. Anche perché l’extraurbano non può fermarsi alle fermate urbane».

Torniamo agli immigrati che prendono l’autobus.

«Io carico tutti. A febbraio è salito un immigrato ubriaco in stazione e l’ho portato a Marco. C’è anche gente che vomita sulla corriera, che sale senza biglietto; e tu che fai? Se li lasci giù sei razzista, se li fai salire senza biglietto e c’è il controllore prendiamo noi 70 euro di multa».

Questa vicenda in particolare è stata discussa a Trentino Trasporti?

«All’ufficio personale ho chiesto se è arrivata una lettera scritta per quanto successo a dicembre. Mi hanno detto che la questione è partita direttamente dalla segreteria del direttore. È stato tutto nascosto come per colpire senza che nessuno sappia niente».

Sono stati presi provvedimenti?

«No, continuo a lavorare e nessuno mi ha mai chiesto qualcosa. Non hanno nemmeno aspettato la mia risposta».

Cosa le dà più fastidio di quanto successo?

«Passare per razzista e non lo sono. Io faccio l’autista, che questi ragazzi abbiano l’abbonamento o meno non dipende da me, io mi fermo e faccio salire tutti. E infatti tutti parlano bene di me».

La presidente di Trentino Trasporti Monica Baggia ha chiesto scusa ai profughi.

«La Baggia chiede scusa ai profughi e non chiede niente a me. Non mi ha mai chiamato per sentire la mia versione».

Come si sente?

«Sono sereno perché la mia coscienza è pulita. C’è un accanimento contro di me. Sono 20 anni che faccio l’autista e non ho mai preso contestazioni. Ripeto: non sono razzista. E poi c’è scritto chiaro sulle tabelle alle fermate che si deve segnalare bene che autobus si vuole prendere».


 

IN VIAGGIO SULLA LINEA DEI PROFUGHI

«Non è la prima volta che succede», ammettono tre ragazzi ivoriani alla fermata di via Pinera. «Almeno in un paio di occasioni - aggiunge uno di loro, mentre estrae dalla tasca il tesserino magnetico da timbrare - l’autobus non si è fermato, lasciandoci a piedi».

A Marco, a pochi passi dal Campo della Protezione Civile, ora centro di accoglienza per circa 200 richiedenti asilo, i giovani ospiti vanno e vengono con i mezzi pubblici. Gli orari ormai li sanno a memoria. E l’autobus numero 1, quello delle 10.18, non tarda ad arrivare. Saliamo con loro.

«È capitato ancora che gli autisti facessero finta di niente e passassero oltre - raccontano Ousmane e Moussa -. Non capiamo il perché di questo comportamento, non abbiamo fatto nulla di male».
«So che qualcuno ha girato anche un video da mostrare agli operatori del Centro - afferma un ragazzo della Guinea che preferisce non dirci il suo nome -. Non accade spesso, ma è già successo. Quando alla fermata ci sono anche passeggeri bianchi gli autisti si fermano sempre, non è detto che avvenga lo stesso quando ad aspettare il bus c’è solo un gruppetto di ragazzi di colore: questa è discriminazione. Non voglio generalizzare, ci sono tantissime persone che ogni giorno ci aiutano e ci sono vicine, ma anche chi ci tratta con disprezzo». S’illuminano quando chiedo loro dove stiano andando. «A lezione di inglese alla Casa della Pace - rispondono con il loro accento francese - Durante la settimana, invece, perfezioniamo il nostro italiano all’Istituto Don Milani. Sarebbe però più facile apprendere la lingua se la gente ci parlasse». Fuori dal finestrino scorrono le istantanee di una città non loro. Le loro storie, ognuna diversa dall’altra, viaggiano sull’autobus numero 1. Ma i sogni, sempre più sbiaditi, si scontrano con la realtà. È ormai più di un anno e mezzo che sono arrivati a Marco, dopo aver sfidato il deserto, le prigioni libiche e il Mediterraneo. Aspettano la risposta alla richiesta d’asilo.

«Non è assolutamente facile questa situazione. Poi dipende dalle motivazioni di ognuno, a noi basterebbe poco per sentirci utili, siamo giovani e abbiamo voglia di fare», ammettono i tre giovani africani che raggiungono Rovereto quasi tutti i giorni per frequentare i corsi e le altre attività previste dal progetto di accoglienza. Solo che la lontananza da casa, unita alla disillusione per un lavoro che non c’è e alla chiusura della gente nei loro confronti, li sconforta ogni giorno di più. Dietro di loro, seduti nei posti in fondo, un ragazzo nigeriano e uno del Bangladesh, entrambi al cellulare, unico ponte di collegamento con i loro paesi d’origine, le famiglie, gli amici.

«Non ne posso più di mangiare pasta tutti i giorni», si toglie le cuffiette dalle orecchie. Si capisce che non sta scherzando. «Sto andando al supermercato a comprare qualcosa», ci dice mentre i suoi occhi si perdono. Fuori, sferzati dalla pioggia, i manifesti elettorali del 4 marzo cominciano a stracciarsi. «Sono arrivato qui a Marco più di otto mesi fa. Il tempo sembra essersi fermato».

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