Alessandro Leogrande non è morto. Le sue parole, le sue immense, taglienti, acute parole, sono vive oggi più che mai, in tutta la loro straordinaria capacità di affermare un principio di laicità dentro qualunque dibattito intorno alle migrazioni. E sì, perché Alessandro è stato, assieme a pochissimi altri, il primo a comprendere che su migranti, frontiere e industria (Taranto) si sarebbe giocata una battaglia ideologica di portata nazionale ed europea.
Per questo dobbiamo considerarlo a tutti gli effetti un intellettuale continentale, non locale. Non un pugliese, ma un pensatore che ha saputo trarre dalla globalizzazione una lezione centrata sui territori. Se vogliamo, Alessandro era simile a quei filosofi viaggiatori che dalla Magna Grecia hanno portato conoscenza e capacità di analisi nel mondo. Con il libro Uomini e Caporali, ha risposto ad una voglia di verità sulla morte prodotta dal lavoro agricolo e dai sistemi criminali che lo controllano. Non è stato il primo, ma è stato il migliore. Ogni singola riga di quella fatica letteraria insuperabile trasuda umanità. Ogni singola parola di quella narrazione verista porta il segno del sacrificio umano.
Non a caso, perché Alessandro conosceva la sofferenza dei luoghi, che è la sofferenza delle persone. L’ho ritrovato ne La Frontiera, questo patimento corale che mai viene adoperato dalla politica per motivare le proprie vergognose scelte. Da questo patimento non si sfugge. Rileggendolo, Alessandro ci conduce per mano, come Virgilio, nell’inferno di chi brucia le frontiere bruciando se stesso. Lui è riuscito a dare una dimensione umana ai subumani, a quelle non persone che ha incontrato, intervistato, interrogato anche soltanto con gli occhi. Con la pacatezza che lo contraddistingueva e che tanto gli ho invidiato. Sapeva aspettare, Alessandro, perché aveva la pazienza dei forti di cervello e di valori. Perché riusciva a cogliere la longue durée della Storia contemporanea. Ha fatto delle migrazioni il suo tema centrale, adattandosi all’attualità solo nella scelta del punto di vista, mai nell’approccio analitico. Ed infatti il suo contributo più alto sta proprio nell’aver saputo sgomberare il campo della sua inchiesta dall’impressionismo dei fatti. Quando ci si trovava a discutere, spesso per telefono, riusciva in poche battute a ricollocare i fatti migratori dentro un quadro ampio, di causalità e di forza generatrice. In qualche misura sposava l’idea di Schopenhauer della Storia che si fa nei fatti con una forza che è estranea ai fatti stessi. Questo gli consentiva di avvicinare chi soffriva con le pinze dell’indagatore, che non sono mai troppo delicate.
Questo gli ha consentito di consegnarci un racconto impietoso di Taranto, aderente alla complessità della città. Se la politica avesse compreso di avere un fuoriclasse di quella portata, be’, avrebbe potuto spingerlo a prendere il governo di quella città. Avrebbe saputo mediare tra le parti, costruire un senso, una identità elevata e ragionevole. Così non è stato, purtroppo. Ma il segno lasciato dentro i suoi libri, dentro i suoi articoli, si tramuta, nelle letture pubbliche, in un artiglio che graffia il velo della menzogna costruita intorno ai temi della contemporaneità. Lo paragono spesso a Luciano Gallino, un’altra intelligenza di cui sentiamo una mancanza storica insopprimibile. Allora facciamo vivere le parole di Alessandro, perché è ancora quel cervello che scosta la tenda del palcoscenico e ci mostra il duro backstage della realtà.

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