La tragedia del ponte Morandi a Genova ha innescato un dibattito politico che si è proiettato a cascata in varie direzioni. Dapprima, il tema della revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia. «Noi non possiamo attendere i tempi della giustizia penale», ha dichiarato senza esitazioni il Presidente del Consiglio all’indomani del crollo. Affermazione singolare, se si considera che Giuseppe Conte è avvocato e docente universitario di materie giuridiche, perfettamente consapevole che la funzione giurisdizionale è uno dei tre pilastri del nostro ordinamento, come di ogni democrazia liberale. È vero che la giustizia italiana non brilla certo per celerità e che continua a collezionare condanne da parte della CEDU per i suoi tempi irragionevoli, ma dal capo dell’esecutivo (tanto più se giurista) ci si aspetterebbe – al di là della retorica del momento – l’annuncio di interventi tesi a conferire maggiore efficienza a una macchina giudiziaria elefantiaca piuttosto che una frase potenzialmente in grado di delegittimare l’universo giudiziario e lo Stato che egli rappresenta.

Accantonato il profilo della revoca delle concessioni – anche per le difficoltà di ordine tecnico e giuridico, penali ciclopiche comprese, non adeguatamente soppesate “a caldo” – ecco profilarsi il tema delle responsabilità derivanti dall’omessa (o inadeguata) manutenzione, ravvivato da recenti rivelazioni di stampa dalle quali sembra emergere la consapevolezza (da parte del concessionario, ma anche del governo) di una situazione di concreto pericolo già alcuni mesi prima del disastro che, quindi, sarebbe un disastro annunciato. Sarà l’inchiesta condotta con sobrietà e lontano dai riflettori dalla Procura della Repubblica di Genova a stabilire chi ha sbagliato e/o mancato (perché il senso comune porta a dire che errori umani ed omissioni ci sono stati), in tempi ragionevoli ma non dall’oggi al domani, dato che, come ha sottolineato il Procuratore Francesco Cozzi, «una giustizia che decidesse dall’oggi al domani sarebbe inquietante, non sarebbe rigorosa». Andrebbe bene, aggiungiamo noi, per il popolo dei tweet e dei post sui social network, una giustizia rapida e sommaria, con i suoi capri espiatori destinati ad essere archiviati al prossimo giro di web dopo essere stati inondati di like.

Il terzo – e più diffusivo – tema è quello del dilemma shakespeariano “pubblico-privato” in ordine al futuro delle grandi opere. I Cinque Stelle hanno preso la palla al balzo per lanciare una campagna in favore delle nazionalizzazioni. Roba d’altri tempi. Un ritorno al passato? Macché, sarebbe un’altra propaggine del governo di cambiamento – anche se non presente nel famigerato “programma” (e difatti non condiviso dalla Lega) – la cui miccia è stata innescata dall’“uomo-ombra” pentastellato, Alessandro Di Battista e poi alimentata dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. “Pubblico è bello”, dopo decenni spesi a smantellare carrozzoni di Stato in cui proliferavano clientele, corruttele e inefficienze di ogni ordine e sorta. «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!», avrebbe detto il mitico Gino Bartali.

E così assistiamo alla rivincita dello Stato padrone, in danno dello Stato regolatore. Meglio gestire in proprio, insomma, anche se questo può significare – come ha evidenziato il direttore De Tomaso nel suo editoriale dello scorso 21 agosto – far crescere la quantità di supporter e di fedelissimi da piazzare nelle aziende pubbliche e le occasioni di controllo partitocratico. O, peggio, affidare «a mandarini e feudatari vari» l’attuazione del vasto programma di modernizzazione delle infrastrutture italiane.
Certo, non si può negare che il nostro sia uno Stato regolatore anomalo, nel quale la funzione di controllo è relegata nell’angolo. Non si sa mai chi debba fare cosa, chi debba rispondere a chi, chi debba verificare cosa, chi debba riferire a chi, chi sia responsabile di cosa. Una normativa affastellata e ridondante, complice anche l’interferenza tra piani nazionali e regionali, di difficile lettura persino dagli addetti ai lavori, rende arduo – se non impossibile – individuare competenze e responsabilità.
Il ministro per la semplificazione normativa Roberto Calderoli (leghista), alcuni anni fa, mise simbolicamente al rogo circa 400.000 leggi inutili, ma non portò a termine la sua operazione “taglia leggi”. L’Italia è patria del diritto, anche se da un po’ di anni a questa parte sembra spendere in maniera infelice tale eredità. Al Presidente del Consiglio, che prima di essere un politico è un giurista, l’invito a razionalizzare la nostra legislazione rendendola più intelligibile e meno barocca, quantomeno quella regolatrice di settori nevralgici della vita sociale. Non è nel “programma di governo”, ma siamo certi che ne varrebbe la pena. Alla maggioranza e all’opposizione un appello. La sciagura che ha segnato indelebilmente il ferragosto 2018 cessi di essere oggetto di contesa politica, per una volta si pensi all’Italia e non solo al consenso: sul ponte sventoli bandiera bianca.

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