Come un malato in ansia che rinvia un intervento chirurgico per paura di entrare in sala operatoria, il Partito democratico soffre di convulsioni febbrili in attesa di celebrare (finalmente) il suo Congresso nazionale, dopo la disfatta delle ultime elezioni. Prima, è stato il “padre nobile” Walter Veltroni a riesumare le categorie di destra e sinistra, per invocare una contrapposizione al fronte “sovranista” che minaccia la tenuta della democrazia in Italia e in Europa. Poi, è toccato al candidato - per ora, unico - alla segreteria, Nicola Zingaretti, lanciare un altolà a un’eventuale alleanza con il movimento del presidente francese Emmanuel Macron alle prossime europee, avventurandosi sull’ipotesi di cambiare nome al Pd.

Da una parte, quella di Veltroni, si tratta di nostalgie anacronistiche e controproducenti che rischiano di dare una legittimazione politica a un fenomeno di ribellismo diffuso e pericoloso. In una “società liquida”, come l’ha definita il sociologo e filosofo tedesco Zygmunt Bauman, destra e sinistra sono due reperti storici che non corrispondono alle esigenze della post-modernità. Alla base della teoria di Bauman, c’è “la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”. Ma un vero cambiamento non può limitarsi agli aspetti estetici e superficiali, guardando indietro nello specchietto retrovisore del passato piuttosto che avanti verso un futuro da costruire: occorre una “mutazione genetica”.
Dall’altra parte, quella di Zingaretti, sembra riaffiorare la nostalgia per una sinistra che oggi non esiste più in nessun Paese del mondo occidentale, alimentata dal rifiuto di misurarsi nella sfida con il riformismo e la liberal-democrazia. Da qui, come un richiamo della foresta, la tentazione di cambiare ancora una volta nome al partito per rifarsi una verginità attraverso un’operazione di plastica facciale. Sono i richiami di una sinistra ex o post-comunista che sa da dove viene, ma non sa ancora bene dove vuole andare. Eppure, il vecchio Pci è stato già ribattezzato più volte, per chiamarsi Pds, Ds e infine Pd, con l’obiettivo programmatico di superare e integrare le due culture politiche – quella comunista e quella cattolica – da cui è stato generato: tanto da autodefinirsi con orgoglio un partito di centrosinistra, senza trattino.
Ora, per evitare un altro passaggio di trasformismo e illusionismo politico che probabilmente non produrrebbe risultati migliori, si tratta di cambiare l’identità ancor prima del nome. E cioè ridefinire una visione di società, un progetto politico e quindi l’organizzazione interna. È difficile trovare un altro “brand” per un partito che voglia definirsi appunto democratico, progressista, riformatore. Un partito che diventi magari il perno, l’asse portante di uno schieramento più ampio, un’area popolar-democratica o un “fronte repubblicano”, capace di conciliare equità ed efficienza fuori dalla retorica del populismo e della demagogia.
Con la sua “dote” del 18,7%, arrivata al 22,8 con l’apporto del movimento europeista di Emma Bonino e di altre componenti minori, il Partito democratico non può trovare un nome migliore di quello che ha già. Se poi, in vista delle elezioni europee o di quelle politiche anticipate, intenderà dare vita a una coalizione elettorale o a un’alleanza sociale più vasta, quel “marchio di fabbrica” sarà una garanzia per tutta la formazione. E allora la scelta una denominazione collettiva, che comprenda il Pd e i suoi partner, potrà anche diventare una conseguenza fisiologica.
Senza un Pd forte e unito, non si costruisce alcuna valida alternativa al fronte “sovranista”. Un partito forte nelle idee che elabora e professa; unito negli uomini e nelle donne che lo compongono, al di là dei personalismi, delle rivalità e delle invidie reciproche che finora l’hanno penalizzato sul piano dell’affidabilità, anche oltre i suoi errori e demeriti. Se c’è un’eredità da recuperare, forse è lo spirito di quel “centralismo democratico” che consentiva al Partito comunista di discutere all’interno e di essere o apparire compatto all’esterno.
Il nodo, semmai, sta proprio nella capacità di non rappresentare più una vecchia sinistra, né di rimpiangerla o vagheggiarla; bensì di diventare una sinistra nuova, moderna, progressista e liberale. Senza vendere fumo agli elettori, promesse o impegni che non si possono mantenere, perché incompatibili ormai con l’economia del mercato globale. Ma anche senza rinnegare i propri valori fondanti: la giustizia sociale, la libertà, la democrazia. E tutto ciò ben sapendo onestamente che l’uguaglianza assoluta non è realizzabile, mentre si possono e si devono ridurre il più possibile le disuguaglianze, assicurando a tutti la dignità di un lavoro e gli altri diritti di cittadinanza.
Se la situazione politica ed economica non precipiterà prima, quello delle prossime elezioni europee sarà il banco di prova per l’Area Progressista. Un’alleanza d’ispirazione europeista, magari trasversale e transnazionale, per respingere i rigurgiti del nazionalismo che ha già provocato tanti conflitti, dolori e rovine al nostro Continente nel corso della sua storia. Ma anche qui sarà necessario rifondare e rigenerare l’Unione europea, su basi più popolari e democratiche, con programmi condivisi e obiettivi praticabili.

© RIPRODUZIONE RISERVATA