Sono due i fantasmi che si aggirano in Europa: il sovranismo e il populismo. La loro manovra a tenaglia non mira a conquistare solo l’Italia, ma l’intero Vecchio Continente. La Germania, fino a pochi anni addietro, pareva vaccinata contro il virus anti-europeistico e nazionalistico. La locomotiva tedesca dell’Unione procedeva a buona velocità e in pochi, tra gli elettori teutonici, avvertivano il bisogno di cambiare macchinista nella cabina di guida. Ora anche i tedeschi manifestano una certa insoddisfazione verso le tradizionali sigle di governo e si preparano a salire su altri convogli politici. Intendiamoci il binomio populismo-sovranismo, in Germania non ha ancora mietuto gli allori che analoghe forze hanno raccolto altrove, in Europa. Né le formazioni emergenti, nella nazione di Angela Merkel, possono essere tutte associate alla fenomenologia anti-comunitaria e filo-divorzista che dilaga tra molti partner dell’Unione. Ma sorprende, in Germania, una corale tendenza elettorale, sempre più costante e cospicua negli ultimi tempi: l’arretramento bipartisan di democristiani e socialdemocratici.

Democristiani e socialdemocratici hanno rappresentato in Germania la risposta più efficace e confortante alla barbarie del nazismo. Oggi, però, il declino di Cdu e Spd sembra più irreversibile del contagio della Xylella in Puglia. Ma a cosa si deve, tra Berlino e Monaco di Baviera, questa sindrome di rigetto nei confronti di due partiti che non hanno affatto demeritato, anzi hanno condotto la nazione di Kant (1724-1804) a livelli di ricchezza e benessere invidiati da quasi tutto il resto del pianeta?
Non è solo la paura dei migranti a fare breccia tra i ceti impauriti ed egoisti. Né è solo l’aumento delle disuguaglianze, tutte da dimostrare, peraltro, in un Paese dal Welfare assai diffuso ed efficiente.

Probabilmente il distacco elettorale da democristiani e socialdemocratici è strettamente collegato al processo di erosione della memoria sulle terribili vicende del nazismo e della Seconda Guerra mondiale. Più si allontana il ricordo del e dal periodo più tragico del secolo scorso, più si premiano partiti e movimenti del tutto slegati dalle fasi successive alla mattanza bellico-hitleriana. Ma la politica, come accade per le singole persone, non può consentirsi il rischio dell’Alzheimer, ossia della perdita di memoria. Pena il bis di tutte le devastazioni umane vissute in passato.

Eppure, questo rischio viene sottovalutato così come viene sottovalutato un temporale quando si decide di costruire in zone esposte alle inondazioni. Si dimentica la guerra e si dimenticano anche gli artefici della ricostruzione post-bellica. Ma soprattutto si dimenticano le grandi famiglie politico-culturali che hanno reso possibile, in Europa, una fase irenica durata più di 70 anni. Si dimenticano, in particolare nella Penisola, le linee portanti delle dottrine che hanno ispirato i governi nelle decisioni tese a unire, non a dividere l’Europa. e tese innanzitutto a dare un futuro di sviluppo alle nuove generazioni.

Democristiani, socialisti, comunisti, liberali erano e restano divisi su molti punti, non soltanto in Italia. Ma erano accomunati da un obiettivo: la crescita industriale (e post-indutriale). La distinzione ideologica ruotava sugli attori dello sviluppo: le imprese private o le imprese pubbliche? Nessuno, tra gli addetti ai lavori, nutriva dubbi sul traguardo da raggiungere: diffondere la ricchezza presso un numero maggiore di persone. Lo stesso Karl Marx (1818-1883) era un testimonial convinto dell’industrialismo. Per lui, per il padre del comunismo, il male assoluto, in economia, era costituito dal modello asiatico (di allora), cioè da una sorta di feudalesimo giudicato irriformabile e, come tale, incompatibile sia con la rivoluzione borghese sia con la rivoluzione proletaria.
Càpita di leggere in questi giorni riflessioni assai preoccupate sulla rivincita dello statalismo (in realtà mai domo in Italia), sull’ipotesi di piani d’intervento simili al gosplan sovietico e su altre iniziative pianificatorie pubbliche di simile fattura. Sì, ma lo statalismo odierno non può essere paragonato a quello di ieri. Lo statalismo del passato poggiava su progetti e mete ragguardevoli (grandi investimenti per realizzare grandi opere) di cui ora non si trova traccia e volontà. Più che la nostalgia del sovietismo o la rivisitazione del marxismo in salsa populistica, qui si tende, forse involontariamente forse volontariamente chissà, alla riscoperta del modello asiatico di qualche secolo fa, al modello vituperato da Marx, al modello di decrescita (feudale) ritenuto inassimilabile a un modello moderno di sviluppo.
Non è marxismo. Semmai pre-marxismo. Non è keynesismo, semmai pre-keynesismo. Che cosa sia, forse non lo sa nessuno. Il che genera un supplemento di preoccupazioni e richiama la notissima domanda di Totò (1898-1967) e Peppino De Filippo (1903-1980) sperduti a Milano: per andare dove dobbiamo andare dove dobbiamo andare?

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