Oggi, cento anni fa finiva la Guerra mondiale. L’aggettivo si era aggiunto da solo, era stato pronunciato dallo sgomento planetario che aveva pervaso l’umanità nel contemplare i misteri tutti dolorosi che segnavano il rosario delle catastrofi belliche iniziate con i maledetti spari di Sarajevo nell’estate del 1914 per spegnersi, quasi per esaurimento e per il languire devastante dei popoli, in quell’autunno del 1918.
«Si sta, come d’autunno, sugli alberi le foglie» aveva memorabilmente annotato il poeta Ungaretti già del terribile 1917 sul Carso sanguinante. Un anno dopo, sgomenti ed esausti, milioni di uomini in uniforme uscirono dalle trincee e quasi nessuno di quei sopravvissuti ricordava perché quella guerra terrificante fosse cominciata. Come è delle guerre, soprattutto delle più lunghe e terribili. E l’Europa, sgomenta, che già aveva cominciato da tempo a definire mondiale quel conflitto, si rese conto che non per la capitale importanza delle ragioni strategiche che lo avevano infiammato quell’aggettivo era giusto, ma, anche perché, ragioni, prima di tutto geografiche motivavano l’attributo geopolitico. E ci furono quelli che in forza di quel «mondiale» sperarono in una definizione che fosse anche la serratura linguistica di una speranza globale ed espressa dall’immane teatro tragico delle trincee: che fosse l’ultima delle guerre della dolente storia dell’umanità. Quella umanità che, appunto, alla fine delle guerre non ricorda più le ragioni che le hanno fatte scoppiare.

L’Italia, però, aveva un memorandum troppo insistito e ostinato nella stesura degli intellettuali, prima di tutto, dei popoli suoi, e dei cittadini, infine, perché le classi dirigenti, almeno, potessero ignorare che gli interventisti e non solo, ma la maggioranza dei nuovi Italiani aveva creduto di compiere il Risorgimento. Con quella guerra. E questa cultura diffusa, questa sensibilità erano state lungamente coltivate dalla vicenda risorgimentale che, appunto, in molti consideravano andasse chiusa con la definizione geopolitica dei «confini sacri della patria». Così si diceva. Tuttavia, non furono pochi, anzi, furono moltissimi gli Italiani, soprattutto appartenenti alle classi povere, a quella subalternità sociale dei paesi protocapitalisti dell’Ottocento, che non erano affatto motivati da sensibilità patriottiche a segno tale da motivare il volontariato entusiasta e fiammeggiante dei ceti medi. Va ricordato e detto con decisione, però, che nell’Esercito, nelle Forze Armate tutte, prevalse la lealtà nazionale e l’immane sacrificio portò a una vittoria che si può, oggi, a cent’anni di distanza, storicamente accreditare non solo ai soldati, marinai, aviatori d’Italia, che conosciamo come renitenti alla retorica o alle motivazioni politicamente meditate, ma a tutto il popolo italiano. Perché, comunque, la faccenda bellica, soprattutto dopo Caporetto, fu sentita come una questione decisamente nazionale.

Giancarlo Fusco, giornalista e osservatore di costume, mi raccontava di Gaetano, un soldatino siciliano che serviva la Patria nelle trincee della I guerra mondiale. Serviva, proprio. Infatti, benché fante di uno dei magnifici reggimenti mobilitati, con mille artifici, a prudenti prestazioni da retrovie e colpi di fortuna, s’era imboscato come furiere, cuoco, attendente. Era riuscito per tre anni di guerra a non maneggiare mai il fucile. Ai primi botti si rintanava tomo tomo, servendo, curando, spulciando, cucinando. Un giorno gli Austriaci compirono un’energica sortita per occupare la trincea italiana presidiata dal reparto del fante multiuso. I nostri vacillarono paurosamente e nella tempesta di fuoco, un proiettile sfiorò l’elmetto di Gaetano. Fu un attimo: si levò in piedi, si cavò l’elmo ammaccato, constatò la botta e urlò «A mia?» e si avventò come una belva contro gli attaccanti, all’arma bianca. L’esempio infiammò i fanti e il contrattacco fu irresistibile. Al termine del combattimento vittorioso, Gaetano se ne tornò alle marmitte. Giurarono d’averlo sentito completare l’urlo di battaglia con un «A mia non lo dovevano fare». Si favoleggiò che, dopo questo contrattacco, sia cominciata la battaglia di Vittorio Veneto. Ma, forse, questo lo inventò Fusco. Gli Italiani sono fatti così: la difesa del «particulare», l’interesse individuale, l’amor proprio, funzionano, spesso, più che il ragionamento, le idee sociali e il riguardo per il bene collettivo. Chi ha visto il capolavoro cinematografico «La grande guerra» ricorderà il sacrificio dei due protagonisti stupendamente interpretati da Gassman e Sordi che scelgono alla fine del loro tirare a campare pur nel tragico falò del conflitto, la via del sacrifico patriottico e del valore militare senza millantare retoriche marziali, senza esibizionismi roboanti. Da soldati, appunto. A Gaetano, non mancò il coraggio: nella sua analisi un poco plebea dell’interesse civico e nazionale era, evidentemente, mancata la miccia.

Oggi, 4 novembre è la festa delle Forze armate italiane. Non tutti lo ricordano e, in un paese in cui innumerevoli feste e festività, con i più ridicoli pretesti, ferie e vacanze, ponti e «prefestivi», riducono alla metà dei giorni del calendario quelli destinati al lavoro, proprio questa festa è stata abolita. Un errore, secondo me. La memoria storica si anima e si alimenta anche di date e ricordi. E anniversari. I cittadini in armi sono al servizio della patria e difendono la pace. Portano, oggi, la pace. E perché l’Italia sia tra i portatori di pace le sue Forze armate devono essere rispettate. E amate.
Perché non ci sia una «terza» guerra mondiale, visto che quell’aggettivo, «mondiale» ebbe bisogno di un ordinale terribile: seconda. E quella seconda guerra fu, purtroppo, causata da quella pasticciata conclusione della «grande guerra» che, così diventò «prima» nei libri di scuola.
Quei libri di scuola che, oggi, sono svogliati, sono intelligenti, ma non si applicano e non raccontano abbastanza di quel terribile, ma glorioso e indispensabile giorno della vittoria.

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