Non ha torto Matteo Renzi quando, in un Tweet del 7 dicembre, scrive: “Faccio il segretario, mi colpisce il fuoco amico. Mi dimetto e mi chiedono di stare in silenzio. Sto zitto e mi chiedono di parlare. Un giorno devo andarmene, un giorno fare il segretario. Ma possiamo parlare di politica anziché parlare tutti i giorni di me?”. Quali che siano le responsabilità, i limiti, le colpe e gli errori che si possono attribuire all’ex rottamatore, un fatto è chiaro e incontrovertibile: lui c’è anche quando non c’è. La sua presenza sulla scena, quella del Partito democratico e quella nazionale, “pesa” anche quando lui è assente o forse ancora di più.

Al di là della personalità, del temperamento e del carattere, l’ossessione di Renzi che pervade il Partito democratico può trovare verosimilmente una spiegazione nella cattiva coscienza della sinistra italiana nei suoi confronti. Storicamente in bilico fra massimalismo e riformismo, il fronte progressista non ha ancora risolto definitivamente la sua questione identitaria. Lo stesso Pd, costituito per superare e integrare la cultura comunista e quella democratico-cristiana, è rimasto imprigionato nella sua duplice estrazione, senza riuscire a trasformarsi definitivamente in un centrosinistra senza il trattino.
Di fronte alla crisi economica e sociale che ha investito il mondo occidentale, la sinistra europea, e in particolare quella italiana che deriva dalla matrice ideologica del più grande partito comunista dell’Occidente, non ha saputo elaborare una visione comune, un progetto, un modello fondato sulla solidarietà e sull’uguaglianza. L’evoluzione tecnologica del nostro tempo, la più rapida e travolgente nella storia dell’umanità, ha ulteriormente squilibrato il rapporto fra capitale e lavoro, restringendo o distruggendo l’occupazione. E l’ondata immigratoria, immettendo nel circuito produttivo masse di emarginati e diseredati, non ha fatto altro che accelerare e aggravare questa tendenza epocale.

È per l’insieme di tutti questi motivi che le disuguaglianze, piuttosto che ridursi, sono andate invece aumentando, con i ricchi che diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ha ragione perciò il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, uno dei maggiori candidati alla segreteria del Pd, a dire – come ha dichiarato a Bruno Vespa nel libro intitolato “Rivoluzione” - che “si è affievolita l’identità che è alla base dell’esistenza stessa della sinistra e dei democratici: non allargare la forbice tra chi ha e chi non ha”. E poco più avanti, lui stesso avverte: “Quando la politica non risolve i problemi in termini di redistribuzione, nasce l’antipolitica”.

Ma allora, se tutto ciò è vero, vuol dire che il problema del Pd non è Renzi bensì la linea politica e programmatica del partito. Tant’è che lo psicodramma della sinistra italiana era iniziato ben prima dell’avvento dell’ex sindaco di Firenze, con l’appoggio dei “dem” prima al governo Monti e poi al governo Letta, entrambi impegnati sul fronte dell’austerità, del rigore e del risanamento dei conti pubblici. Né si può rimproverare all’ex premier di aver portato il Partito democratico al 18% nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018, trascurando che lui stesso aveva ottenuto il 41% alle ultime europee del 2014. Resta poi nella memoria di tutti noi l’anatema pronunciato da Massimo D’Alema fin dal 2008, appena un anno dopo la costituzione del Pd, quando profetizzò che quello era “un amalgama mal riuscito”. A quei tempi, però, Renzi era ancora presidente della Provincia di Firenze e certamente non gli si possono addebitare responsabilità retroattive nella conduzione e nella gestione della sinistra.
Ora Eugenio Scalfari sostiene che l’ex premier “non ha ancora capito che non si comanda da soli”, contestandogli di essersi fidato soltanto del “giglio magico” composto da pochi fedelissimi. E probabilmente è vero. Ma quante colpe hanno quelli che, dall’interno o dall’esterno del suo partito, l’hanno sottoposto al tiro incrociato delle critiche e delle polemiche? E i dissidenti che sono usciti dal Partito democratico per fondare un gruppuscolo del 3%? E tutti coloro che si sono schierati per il No al referendum costituzionale del dicembre 2016, che in quell’occasione si sono disimpegnati o sono rimasti indifferenti?
In vista del congresso che dovrebbe rifondare e rilanciare il Pd, il dibattito verte adesso sull’eventualità che Zingaretti, se fosse eletto segretario, potrebbe “aprire” a un accordo di governo con i Cinquestelle. Ma sia lui sia l’altro candidato “eccellente”, Maurizio Martina, hanno più volte smentito questa intenzione. E fino a prova contraria, vanno presi in parola. Non c’è dubbio, comunque, che questa sarà la cartina di tornasole per valutare la coerenza e l’affidabilità del “nuovo Pd”.

Del resto, come potrebbe essere altrimenti dopo la “manovra d’azzardo” tentata dal governo giallo-verde, mettendo a rischio la stabilità e la credibilità internazionale dell’Italia? E soprattutto, dopo la svolta anti-europea, populista e nazionalista, sottoscritta dal M5S insieme al Carroccio? Siamo proprio sicuri che governare con la Lega di Salvini non sia peggio che aver governato con Alfano e Verdini?

Quali che siano le dichiarazioni d’intenti rilasciate da Zingaretti e Martina, è chiaro che il futuro segretario del Partito democratico non potrebbe mai firmare un “contratto di governo” con il Movimento 5 Stelle senza un referendum interno e quindi un’autorizzazione preventiva da parte della maggioranza degli iscritti. In caso contrario, la prospettiva del “partito di Renzi” diventerebbe praticamente ineluttabile. Sempre che l’ex premier non abbia un ripensamento in extremis e non decida di ricandidarsi alla guida del “nuovo Pd”.

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