Con il tradizionale messaggio di Capodanno del presidente Mattarella, il contromessaggio di Beppe Grillo travestito da culturista e il videocommento di Matteo Salvini blindato sulla sicurezza, la cosiddetta Terza Repubblica ha messo in scena la rappresentazione mediatica della sua dissociazione psicopolitica. Da una parte il discorso istituzionale del Capo dello Stato, sobrio e responsabile; dall’altra, la farneticante esibizione dell’ex comico fondatore del M5S e il delirante comizio dell’Uomo forte contro i migranti. Tre interventi, tre figure, tre facce di un Paese che ormai assomiglia sempre più al “cubo di Rubik”, il rompicapo scomposto in tre strati di colori diversi che ruotano su se stessi. Un “puzzle” che quest’anno gli italiani saranno chiamati verosimilmente ad affrontare e magari a risolvere.

“La sicurezza c’è se tutti si sentono rispettati”, ha ammonito il Capo dello Stato, contro i rigurgiti di xenofobia e di razzismo che emergono nella nostra società, dalle strade alle piazze fino agli stadi di calcio. “No alle tasse sulla bontà”, ha intimato Mattarella, alludendo alla retromarcia del governo nei confronti del volontariato, quell’esercito della solidarietà che conta cinque milioni di persone – cattolici e laici – e supplisce alle carenze o ai ritardi dello Stato, per assistere malati, persone sole, anziani e immigrati. “La divisa delle Forze dell’ordine è il simbolo delle istituzioni al servizio della comunità”, ha avvertito il presidente della Repubblica, con un’implicita censura all’abuso che ne fa il ministro dell’Interno perfino nelle assemblee del suo partito.


È stato un “discorso dei buoni sentimenti”, contrapposto a quell’odio sociale che dilaga invece nella nostra vita quotidiana, fomentato dalle tensioni politiche e dalla crisi economica. All’indomani dell’approvazione di una manovra economica ritenuta incostituzionale dalle opposizioni, Mattarella non se l’è sentita di richiamare esplicitamente la “centralità del Parlamento”, platealmente scavalcato in questa occasione dai maxi-emendamenti e dai voti di fiducia. Ma non ha rinunciato tuttavia a predicare che “la grande compressione dell’esame parlamentare e la mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali richiedono adesso un’attenta verifica dei contenuti del provvedimento”. E perciò il presidente s’è augurato che “il Parlamento, il governo, i gruppi politici trovino il modo di discutere costruttivamente su quanto avvenuto; e assicurino per il futuro condizioni adeguate di esame e di confronto”. Vedremo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane quale sarà l’efficacia di questo appello, se le sue saranno parole al vento o se produrranno qualche effetto concreto.


Nell’anno delle elezioni europee, in programma a maggio, il Capo dello Stato s’è limitato a ricordare che questa è “la dimensione in cui l’Italia ha scelto di investire e di giocare il proprio futuro”. Ma in realtà si tratterà di un test decisivo, un banco di prova per l’attuale maggioranza giallo-verde. Sulla fedeltà all’Europa, ai suoi valori, ai suoi principi e alle sue regole si verificherà la compattezza dell’alleanza e la stessa tenuta del governo.
Che cosa farà Matteo Salvini da qui a primavera? Deciderà di partecipare alle elezioni insieme al Partito popolare europeo oppure sceglierà il fronte sovranista che comprende i Paesi dell’ex blocco sovietico, come quelli che compongono il Gruppo di Visegrad, cioè Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria? Nel primo caso, la Lega resterà all’interno della “dimensione” invocata da Mattarella; nel secondo, ne uscirà in modo chiaro ed evidente, con tutti i contraccolpi e le conseguenze che si possono ipotizzare per la stabilità della situazione politica nazionale.
All’orizzonte c’è però un’altra scadenza, ancora più immediata e pressante per il nostro Paese. Ed è quella che riguarda la rivendicazione di maggiore autonomia da parte delle regioni a più forte radicamento leghista: la Lombardia, il Veneto e ora anche l’Emilia Romagna. A cui va aggiunto il pericolo di un “effetto domino” che potrebbe coinvolgere la Campania, il Lazio, la Liguria, le Marche, il Piemonte, la Toscana e l’Umbria, tutte regioni che – a parte quelle a statuto speciale e a differenza di Puglia, Basilicata e Calabria – hanno già attivato le procedure per accedere alla “legislazione concorrente” prevista dall’articolo 117 della Costituzione, dopo l’infausta riforma del Titolo V approvata dal centrosinistra nel 2001.


Negli ultimi quindici anni, la Consulta ha dovuto emettere già sessanta sentenze per dirimere i conflitti fra lo Stato e le Regioni, soprattutto in materia di Sanità pubblica. Ma adesso, sotto la spinta nordista rappresentata dalla Lega, si rischia di innescare un processo di disgregazione destinato fatalmente a ripercuotersi sulle condizioni già precarie del Mezzogiorno, aggravando ulteriormente il distacco fra le “due Italie”. Di questa minaccia che incombe sul futuro della nostra collettività, il presidente Mattarella non ha ritenuto di parlare nel suo messaggio di Capodanno, forse per non guastare la festa agli italiani. Ma c’è da ritenere che costituisca senz’altro un motivo di preoccupazione in più per il custode e il garante dell’unità nazionale.

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