Cominciamo con una domanda: si può affrontare il tema dell’immigrazione, mettendosi al riparo dai rischi connessi a episodi diffusi di strumentalizzazione politica? Difficile considerando l’ondata emozionale causata dall’ennesima tragedia nel Mediterraneo, ma un tentativo va fatto per amore di verità e per evitare un gioco al massacro in grado solo di dividere la politica tra buonismo e cattivismo. È un dovere evidenziare la complessità di un fenomeno che invoca approcci multidisciplinari. Analisi, cioè, degli assetti geo-politici e geo-economici, definizione del ruolo dell’Occidente e dell’Europa, implementazione della capacità di riscatto dei Paesi in via di Sviluppo, formulazione di nuove politiche migratorie nazionali e sovranazionali, riflessione sulla funzione formale (e sostanziale) delle Ong, contrasto deciso all’attività criminale dei trafficanti di esseri umani. La stessa polarizzazione “sicurezza-accoglienza” appare incapace di recepire i mille risvolti di un tema che va affrontato con uno sguardo lungo e largo. Lungo perché si deve pensare non all’oggi, ma al domani e al dopodomani. Largo se, almeno in Italia, si vuole evitare di radicalizzare il dibattito solo tra salvinismo e anti-salvinismo. Posizione quest’ultima che, a giudizio di molti commentatori, troverebbe proseliti anche all’interno del partito con il quale la Lega condivide l’esperienza di governo. Diciamo la verità: c’è un’attenzione all’accoglienza da parte di chi professa anzitutto le ragioni della sicurezza, allo stesso modo in cui c’è sensibilità verso i pericoli legati alla percezione di insicurezza anche da parte di chi innalza prima di tutto il vessillo dell’accoglienza. Volendo aderire alla necessità di un nuovo approccio metodologico, conviene perciò evidenziare anzitutto i punti più rilevanti.

Punto primo. La difesa dei confini territoriali, ciò che chiamiamo con un’etichetta ormai di moda “sovranismo”, nasce come risposta alla crisi dell’ideologia del globalismo e come occasione per segnalare i comportamenti contrari agli interessi nazionali e popolari da parte delle diverse élite. Vero è che il globalismo, a sua volta, era nato come reazione alla crisi dello Stato nazionale e del Welfare State, pilastri della ricostruzione politica dell’Occidente. Senza l’immigrazione e le troppe disuguaglianze sociali (quest’ultime agevolate da una cattiva interpretazione della globalizzazione) non avremmo avuto la situazione che molti governanti sono costretti ad affrontare in conseguenza dello spostamento di masse di persone da una parte all’altra del mondo, con problemi enormi in ordine alla sicurezza, all’integrazione sociale e alla gestione dell’occupazione.

Punto secondo. Il problema dell’immigrazione non può essere un problema solo italiano, anche se il nostro Paese per ragioni geografiche si ritrova ad essere l’avamposto dell’Europa. Chi prova ad arrivare in Italia non è detto che voglia restare nel perimetro del nostro territorio nazionale, volendo raggiungere anche altre nazioni del Vecchio Continente. L’emergenza immigrazione deve essere affrontata da parte dell’Europa fattivamente e nell’ambito di una visione sistemica. Speriamo che le istituzioni europee, rinnovate dal voto di maggio, sappiano individuare una strategia comune, ricercando le soluzioni più idonee almeno sulle questioni cardine: il pattugliamento delle coste dei Paesi dai quali gli immigrati provengono; il soccorso in mare e la creazione di una zona realmente Sar (search and rescue); l’identificazione dei veri profughi in fuga da guerre e persecuzioni; la distribuzione di chi ha effettivamente diritto di restare negli Stati membri; l’integrazione all’interno dei tessuti sociali dei Paesi ospitanti o in alternativa il rimpatrio.

Punto terzo. È sbagliata l’equazione “porti aperti-riduzione delle vittime dei viaggi della speranza”. E ciò per due ragioni. La prima è spiegabile attraverso i numeri: negli ultimi cinque anni i morti annegati durante le traversate sono stati più di sedici mila. Un numero enorme, tragico, preoccupante, che non ci può lasciare insensibili. Tuttavia, va sottolineato che già con la gestione Minniti, le vittime erano scese da più di cinquemila a oltre tremila, fino ad arrivare a quasi mille con l’assunzione della responsabilità del Viminale da parte di Matteo Salvini. La seconda ragione è più che altro frutto di buon senso: se nonostante la linea dura del leader della Lega, c’è chi tenta ancora traversate in mare a bordo di gommoni, c’è chi ancora sfida i controlli, figurarsi che cosa accadrebbe se gli immigrati in fuga dai Paesi d’origine avessero la sensazione della presenza di maglie larghe da parte di quelli di destinazione.

Punto quarto. È vero che le Ong non vanno criminalizzate, equiparando le loro responsabilità a quelle delle organizzazioni di delinquenti che gestiscono il traffico (e il business) dei migranti, ma esse non possono certo operare in contrapposizione alla volontà degli Stati aderenti all’Unione, causando loro problemi nella gestione del fenomeno o creando (anche indirettamente) le condizioni per un incremento delle partenze dei migranti verso l’Italia e l’Europa.

Punto quinto. L’immigrazione non va contrastata come se fosse il male assoluto del ventunesimo secolo. Piuttosto, va resa legale. Va governata, definendo anzitutto i flussi da regolamentare sulla base di un preciso programma di selezione di quegli stranieri effettivamente intenzionati a cercare un lavoro nel Paese ospitante, rispettandone le leggi, e di chi vuole associare alla cultura dei diritti anche quella dei doveri, rinunciando ad ogni tentazione di illegalità. Possiamo accogliere persone per bene ed in numero limitato, ma non possiamo aprire le porte a chi vuole delinquere o non intende rispettare gli italiani. Salvini ha ragione.

Punto sesto. Occorre elaborare un piano d’azione che consenta all’Occidente di aiutare le popolazioni in fuga da quei Paesi (Libia in testa) dove si consumano violazioni di diritti umani, dove si registrano episodi di povertà incompatibili con la dignità umana, dove si commettono violenze fisiche e morali. Corridoi umanitari solo per chi fugge dalla guerra e aiuti in loco per i migranti economici. Questo è ciò che serve. Non il trionfo dell’ipocrisia.

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