Anche quest’anno il 25 Aprile sarà un giorno divisivo, che risveglierà gli atavici istinti italici, quelli delle contese tra guelfi e ghibellini. 

Come sempre. Nell’Italia senza bussola dei nostri giorni - tra una crescita economica che non arriva, la Libia che da nostro partner energetico diventa giorno dopo giorno vera polveriera, un esecutivo guidato da Giuseppe Conte sempre più traballante - ritorna il tradizionale refrain delle polemiche sulla giornata simbolo della fine della Seconda guerra mondiale, alimentato dalla freddezza del vicepremier Matteo Salvini per la ricorrenza. «Non sfilerò, sarò a Corleone». Sarà, fa capire, il ministro in prima linea nella lotta alle mafie, non nelle piazze con le ostili bandiere rosse. Una volta comunista padano, Salvini da quando è diventato il «capitano» delle destre sovraniste e patriottiche, ha scelto di non sfidare l’ostilità delle sinistre che da sempre si considerano depositarie della ricorrenza.
Eppure la Seconda Repubblica era iniziata con riconoscimenti reciproci tra le varie culture figlie della guerra e del dopoguerra. Luciano Violante, allora presidente della Camera, nel 1998 aveva invitato a comprendere le ragioni dei vinti «perché è un pezzo di storia d’Italia che può non farci piacere ma che bisogna capire e non rimuovere come se fosse una cosa sgradevole». Si era espresso in questi termini durante la presentazione del volume «C’eravamo tanto odiati» di Rosario Bentivenga, ex partigiano dei Gap, e di Carlo Mazzantini, ex combattente della Repubblica sociale italiana, romanziere e padre della autrice di best-seller Margaret. In quel frangente, per un istante, si era immaginato che le forze politiche uscite indenni dal terremoto di Tangentopoli e gli eredi del Pci e del Msi fossero in grado di rimarginare le ferite della «guerra civile» (formula coniata dallo storico di sinistra Claudio Pavone). Il riconoscimento reciproco dei dolori della guerra fratricida si è rivelato pura utopia nell’Italia avvelenata dalla faziosità cieca, soprattutto quando diventa una formula per ipotizzare dividendi di consenso sotto le elezioni.

E così veniamo alle cronache dei nostri giorni. Forza Italia nel Sud torna antifascista (Berlusconi premier non ha mai tenuto un comizio di piazza ma con il discorso di Onna, nel 2009, tentò uno sforzo pacificatore): a Brindisi rivendica la dizione «già capitale» per il ruolo della città dopo la caduta del regime fascista. Forza Italia nel Nord punta a chi non si riconosce in questa data: il sindaco di Lentate sul Seveso, in Brianza, cancella le celebrazioni del 25 Aprile e le sostituisce con una deposizione di una corona. Apriti cielo. In piazza compare uno striscione minatorio: «Se il partigiano contraddirai, minacce riceverai». Le divisioni divampano. A Colleferro, nel Lazio, il capogruppo del Carroccio attacca un murale sulla resistenza del vignettista del manifesto Mauro Biani: «È uno scarabocchio ed è di cattivo gusto, posizionato vicino alla piazza dedicata ai martiri delle Foibe. Essere costretto a vederlo ogni giorno mi urta i nervi». A Firenze il candidato sindaco del centrodestra, Ubaldo Bocci, annuncia di non partecipare al corteo in città «perché purtroppo, quella che dovrebbe essere una celebrazione condivisa sul momento fondativo dell’Italia democratica da tempo si è trasformata in una liturgia ideologica, divisiva, di cui si è appropriata solo una parte politica (peraltro riducendo a un colore unico un fenomeno complesso e plurale come la Resistenza)». Andrà a un evento promosso da una associazione sul disagio sociale. Sul fronte opposto l’Anpi, e i vari partiti di sinistra stigmatizzeranno la mancata adesione delle destre alla giornata. Tutto prevedibile.
Per chi vuole avvicinarsi alla giornata con un animo differente, il viatico può essere la lettura di due volumi: «Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana» (Einaudi), un grande classico, e il recente saggio di Sergio Tau, regista del funerale di Palmiro Togliatti, «La repubblica dei vinti» (Marsilio). Due libri per riscoprire la pietas e dimenticare i veleni della politica che per un voto in più avvelena i pozzi dell’immaginario nazionale.

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