Il licenziamento del sottosegretario Armando Siri (Lega) da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte potrebbe rivelarsi l’inizio delle pratiche di divorzio tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Probabilmente il capo del governo ha inferto il colpo decisivo sulle speranze di Siri di conservare, almeno sul piano formale, il titolo di sottosegretario alle Infrastrutture (le deleghe gli erano state subito revocate dal ministro Danilo Toninelli) dopo aver percepito che il capitano leghista non avrebbe innalzato le barricate in difesa del suo senatore indagato. Ma, si sa, anche in politica vale la terza legge della dinamica: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Per ora, Salvini, pur reagendo duramente, ha dato l’impressione di aver incassato il colpo, ma alla prima occasione propizia cercherà di restituire - come si usa dire - pan per focaccia.
Nel frattempo si attiveranno le diplomazie parallele di tutte le parti in causa, di maggioranza e opposizioni. Il Pd di Nicola Zingaretti non è il Pd di Matteo Renzi. Infatti cresce tra i «dem» il fronte di quanti vorrebbero staccare i post-grillini dai leghisti. Idem fra i berlusconiani, dove premono perché Salvini rompa con Di Maio e si candidi alla guida di Palazzo Chigi capeggiando la coalizione di centrodestra.
Le due contromanovre non sono di facile realizzazione. La prima perché lo stesso Di Maio solo in poche circostanze ha manifestato propositi ufficiali di rottura a causa della complicata alleanza con Salvini. La seconda perché lo stesso Salvini appare poco convinto del fatto che una ricucitura del centrodestra possa comportare un’automatica addizione di voti tra le forze dell’area moderata.

Ovviamente, molto dipenderà dall’esito del voto europeo del 26 maggio, cui si accompagnerà, in ogni caso, uno scenario, cioè un ostacolo, che più delicato non si potrebbe: la copertura, in due anni, di 53 miliardi di euro di clausole di salvaguardia. E siccome questa copertura può essere assicurata o da tagli o da nuove tasse, non ci vuole molto a capire, in Italia, su quale voce agirebbero i reggitori della cosa pubblica.
Il professor Mario Monti, già presidente del Consiglio, non troverebbe immotivato il varo di una bella patrimoniale, ma non può fare a meno di negarne i rischi: senza una politica di bilancio davvero responsabile (il che è tutt’altro che scontato) il gettito della patrimoniale andrebbe a finanziare nuove spese, non certo a ridurre il debito pubblico. E alla luce dell’irresponsabilità finanziaria che ha caratterizzato gli ultimi decenni è assai probabile che i soldi della patrimoniale serviranno per acquisire altro consenso politico, operazione che, è facile immaginare, verrebbe sostenuta in simbiosi con i proclami sovranisti contro l’Europa.
Finora Di Maio e Salvini si sono distribuiti i compiti nell’affrontare i due problemi-chiave del Paese: l’inclusione e la sicurezza. Di Maio ha cavalcato il reddito di cittadinanza, Salvini ha alzato i muri contro i migranti. La questione dei conti pubblici è stata, per così dire, rinfacciata all’Europa, additata a causa primaria delle turbolenze economiche in casa Italia. La distribuzione dei due loghi comunicativi tra i soci di governo ha prodotto i suoi bravi frutti (per M5S e Lega), visto che, nonostante i litigi infiniti, l’esecutivo gode del consenso del 60% degli italiani. Ma l’economia di solito non fa sconti né è orientata a distribuire pasti gratis. Prima o poi il suo conto arriva, e lo si vedrà con la nuova legge di bilancio.
Già nei prossimi mesi emergerà che la vera inclusione è la creazione di lavoro, non l’elargizione del reddito di cittadinanza, e che la prospettiva (imposta patrimoniale) indicata da Monti, a prescindere dalle conseguenze paventate dall’ex premier, potrebbe sfociare nel paradosso di togliere risorse proprio a coloro che potrebbero o dovrebbero generare occupazione.
Forse il terzo presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson (1743-1826), peccava di estremo pessimismo nel sostenere che «la democrazia smetterà di esistere quando toglierai a coloro che hanno voglia di lavorare e darai a coloro che non ne hanno voglia», ma è indubbio che il rischio di politiche inclusive fondate sul sussidio e sull’assistenza, anziché sul lavoro e sulla crescita, alla fine possa dissestare le fondamenta di una democrazia, a iniziare dal patto fiscale tra Stato e contribuenti. Se l’inclusione sussidiata a oltranza dovesse provocare una corsa ulteriore all’infedeltà tributaria e al mimetismo impositivo, verrebbe giù tutto, crollerebbe il sistema, con tanti saluti alla tanto amata democrazia rappresentativa.

Servirebbero proposte chiare e ben definite per rimettere in moto la macchina Italia. Ma questa prospettiva appare più inverosimile di uno sbarco di Leo Messi nella nazionale azzurra, dal momento che in Italia si fronteggiano quasi sempre versioni di statalismo, sia pure mascherate da vernici di altro colore. Del resto, il desiderio di ripescare le Province cos’altro è se non la nostalgia per una più estesa ramificazione dell’intermediazione politica?
Infatti, l’obiettivo produttività, il cui aumento dovrebbe rappresentare la più efficace polizza assicurativa contro i «cigni neri» che periodicamente irrompono sulla scena economica, è ignorato senza particolari rimorsi o problemi di coscienza. Si crede che l’abbassamento dell’età pensionabile possa fare bene al sistema. Eppure le cifre dimostrano il contrario: le nazioni con un più alto tasso di occupazione si distinguono per un’età pensionabile più elevata. Il contrario delle tesi prevalenti in Italia. E anche l’offensiva culturale contro la robotizzazione del lavoro trascura una verità incontestabile: l’occupazione è più stabile, anzi cresce di più, proprio nei Paesi tecnologicamente più avanzati. Se l’innovazione fosse solo un elemento distruttivo del lavoro e, non già un fattore creativo di nuove mansioni, le nazioni più avanzate come Usa e Germania patirebbero la fame e la disoccupazione di massa mentre quelle arretrate vivrebbero in un sorta di paradiso terrestre, con piena occupazione e previdenza a 40 anni. Invece la piena occupazione si può ricercarla solo nelle nazioni ad alta capacità tecnologica.
In Italia, purtroppo, è sempre più difficile convergere su un’idea condivisa di crescita e di sviluppo. Non a caso, tutti i Paesi industrializzati crescono più di noi.

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