In edicola gratis "Le buone notizie": la cittadella di Rondine va all'Onu

Torna il nostro supplemento in omaggio col giornale: dodici pagine di storie in positivo, dal bond pro-Calcit ai vent'anni delle Officine della cultura

rondine

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Arezzo, 27 ottobre 2018 - «PEGGIO DELLA guerra c’è solo essere abituati alla guerra». Maria è una ragazza armena, passata dai vicoli di Rondine quando aveva 25 anni. Arrivava da una guerra e ad una guerra sapeva che prima o poi sarebbe tornata. Ma non si era rassegnata. E qui, nel borgo adagiato sull’Arno, tra i vicoli della Cittadella, aveva trovato le armi per resistere. Lei, la cittadella della pace. Vent’anni più dieci giorni. Un’avventura partita il 16 ottobre del 1998. O forse molto prima.

Già dagli anni ’50, quando quella frazione aveva cominciato a spopolarsi. La calamita della città, la fuga verso la piana e poi verso Arezzo. Senza immaginare che anni dopo quella strada sarebbe stata risalita al contrario. Senza immaginare che i suoi «abitanti» avrebbero parlato all’Onu in nome della pace. A dicembre Rondine se ne andrà in trasferta nel palazzo di vetro: forte di un appello, passato al vaglio dei capi di stato e che presto sarà presentato al Papa. Un’avventura guidata da uno psicologo e professore di liceo, Franco Vaccari: una vita nel mondo della formazione e in quello della chiesa, a stretto tra La Pira e Don Milani, dalle comunità di don Carapelli a quella fondata insieme alla moglie Anna Paola nel quartiere Giotto. Un’avventura raccolta non dal sussurro di Maria, la ragazza armena, ma di un anziano signore russo, Dimitri Licachev, dagli occhi rimasti azzurri perfino nell’inferno del Gulag, dove era vissuto undici anni. «Chiamate a La Verna le delegazioni dei popoli del Caucaso, faranno la pace». La Verna, una delle tre rocce alla base del monumento di Rondine, costruito da Giuseppe Baracchi: le altre due sono Camaldoli e la pietra dell’Arno.

IN CIMA le rondini che volano in tutte le direzioni. Sulla spinta di Licachev, Vaccari e altri pionieri di questi vent’anni e dieci giorni andarono a trattare una tregua tra russi e ceceni. Era la primavera del 1995. Una tregua di 72 ore, interrotta a colpi di fucile. Ma da lì nacque la telefonata: con il rettore delle «macerie» dell’università di Grozny. «Prendete alcuni ragazzi ceceni». La risposta? «Ci stiamo, ma solo se con loro potremo accogliere ragazzi russi». Pochi mesi e sarebbero atterrati in 5: tre ceceni e due russi. L’inizio della cittadella: o forse il compimento della profezia di La Pira. La pace costruita dalla coabitazione dei nemici.

DA ALLORA la strada verso Rondine, quella dalla quale gli abitanti erano scesi in cerca di fortuna uno a uno fino all’ultimo parroco, sarebbe stata imboccata da centinaia di ragazzi. Tutti provenienti da paesi in guerra, tutti ritrovandosi faccia a faccia il nemico. «»Datemi il mio nemico» ripeteva continuamente Loai, il primo palestinese, preoccupato e insieme ansioso di non vedere arrivare israeliani. Al suo arrivo sarebbe stato il primo ad accoglierlo e il primo a «litigarci», a tavola o sulle rive del’Arno. Un’intuizione, nel tempo diventata un metodo, imparare ad affrontare il conflitto attraverso il confronto quotidiano: che gli studenti apprendono insieme ai rispettivi corsi universitari e che poi è entrato anche nelle scuole.

Attualmente gli studenti sono 27 ma centinaia sono già tornati nei loro Paesi. Le repubbliche di Cecenia, l’Inguscezia e l’Ossezia del Nord, la Georgia e le sue ex regioni Abkhazia e Ossezia del sud, l’Armenia, l’Azerbaigiani, Israele, i territori palestinesi, il Libano, la Serbia, la Bosnia, il Kosovo, la Macedonia, l’India e il Pakistan, la Sierra Leone e il Rwanda. Prima solo uomini, poi dal 2007 l’apertura dello studentato femminile. L’incontro con i potenti del mondo, il Documento per la pace nel Caucaso, presentato al Parlamento Europeo. Fino alla candidatura al Nobel, nel 2015, e ora alla scelta del ministero degli esteri di portare questa unica esperienza italiana all’Onu.

L’esperienza della quale si è innamorata, tra gli altri, Noa, la voce de «La vita è bella», che anche da qui ha lanciato con la canzone il suo invito a «sorridere senza una ragione». E Liliana Segre, la superstite di Auschwitz. «Vidi che il comandante del campo aveva buttato via la pistola: ebbi la tentazione di raccoglierla, di sparargli. Scelsi di non uccidere. Da quel momento sono stata libera». Libera di guardare in faccia la guerra: ma di non abituarcisi mai. Proprio come Maria.