Idy, Sant'Egidio: "Amiamo la nostra città, nessuno spazio alla violenza"

La vicenda del senegalese ucciso ricordata a Firenze e a Livorno al meeting internazionale 'Medì'

Medì

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Firenze, 11 marzo 2018 - Giovedì sera in una chiesa della zona di Oltrarno, San Pietro in Gattolino, si è svolta su iniziativa della Comunità di Sant'Egidio una preghiera in memoria di Idy Diene, il senegalese ucciso lunedì mattina su Ponte Vespucci a Firenze. Vi hanno assistito anche giovani senegalesi musulmani, in gran parte legati alla confraternita dei Muridi, amici di Idy e tante persone venute da ogni parte della città, per farsi vicini a una memoria disarmata, quasi a comporre un'icona della città sensibile al dolore di tutti.

“Avvertiamo sempre – è stato detto - questo bisogno di ritrovarci e di guardare in alto, al cielo, per cercare i segni dell’amore di Dio per gli uomini, i segni della sua alleanza. Oggi sentiamo questo bisogno più forte, perchè un diluvio si è abbattuto vicino a noi, perché abbiamo visto il male colpire duramente proprio in questa nostra città che amiamo, in cui siamo nati o che abbiamo scelto come luogo per vivere o lavorare, provenendo da altri paesi”.

Non c'è un senso nel male, ma c'è l'assurdità un uomo che vede nella violenza una soluzione, che arma la propria mano e versa il sangue del proprio fratello indifeso. La morte violenta di Idy ha lasciato increduli e sgomenti, così come accadde nel 2011 quando furono uccisi nella città del fiore Samb Modou, cugino di Idy, e Diop Mor e feriti altri due senegalesi.

Certe tragedie sono armate da un clima pesante, lo stesso che si è avvertito in non pochi momenti degli ultimi mesi. Vi sono persone, sulla linea di confine di un'inquietudine distruttiva, che sembrano intercettare i peggiori umori e convinzioni e danno ad essi uno sfogo cieco.

Ma in questi casi emergono anche le energie migliori delle città, che lavorano sotto traccia tutto l'anno, che sanno integrare e che hanno cura dei deboli, come è accaduto nei giorni scorsi quando, di fronte al gelo incombente portato da Buran, tanti spazi si sono aperti per accogliere i senza fissa dimora: nel caso della Città del fiore le associazioni, il Comune, i movimenti, le comunità, le parrocchie, tante realtà, hanno rivelato ancora una volta il profilo di città che possono e sanno dissipare il male, la solitudine, il clima di odio che si è respirato nel Paese e che è all'origine di gravi episodi che portano dolore.

L'aggressività, le reazioni scomposte, allargano la separazione gli uni dagli altri, ma non sono mai vincenti. Si fa strada una convinzione forse minoritaria ma argomentata dai fatti: per costruire città sempre più umane e disarmate in questa stagione della storia, bisognerebbe adottare una moratoria sul tema delle migrazioni, sottrarlo alla competizione politica fondata sulla pancia e sulla paura, e affrontarlo come un fatto strutturale determinato dalla povertà e dagli effetti delle guerre (“la terza guerra mondiale” di cui ha parlato più volte Papa Francesco, ma anche le guerre del Golfo e i non pochi conflitti per procura) che spingono tanti a scegliere la strada avventurosa e non di rado fatale del mare.

“Il Mediterraneo è un luogo geopoliticamente fondamentale – ha osservato Mario Giro intervenendo a Livorno a Medì, meeting internazionale delle città mediterranee – Dal mondo arabo in particolare potranno arrivare delle sorprese in positivo”. Serve una nuova cultura per capire il disordine: “Non abbiamo un problema di immigrazione, ma di integrazione che vuol dire fare spazio per far crescere un'economia che crea fiducia, comunicare a chi viene in Italia i diritti e i doveri della democrazia, combattere la paura con la cultura, cogliere le opportunità che non mancano”.

Tante voci creano insieme una cultura. Moussa 'Ndyaje, senegalese, ha ricordato come a Cagliari, dove ora anima il Cosas (Comitato sardo di solidarietà), "fui aggredito e reagii. Ma da una macchina scese una persona che ci separò dicendo: 'Basta, la violenza non serve a nulla'. Da allora vivo per la non violenza".

Diana Tchamitchian, siriana, rivolgendosi alla platea ha inviato tutti a "imparare la lingua prima di tutto. Ci aiuta a mostrare il valore che è dentro ciascuno di noi". Khalifa Abo Khraisse, libico, di Tripoli, guarda il mondo pensando alla sua città: "La speranza non sarebbe possibile senza una grande quantità di coraggio, quando si cammina per le strade di Tripoli oggi. Però abbiamo il coraggio di sorridere e continuiamo a cercare la bellezza, a desiderare la felicità e la pace: sono una forma di resistenza e promessa di di un futuro migliore”. André Ughetto, marsigliese, poeta e regista, rileva come "abbiamo accolto molti migranti nei secoli, con la capacità di guardare avanti quando tutto sembra perso. Le città del Mediterraneo sono porto, porta e ponte".

Sì, il dialogo nelle e tra le città cambierà il mondo dominato dalla paura.