Transizione in stallo

Dimissioni. Nette, inaspettate e irrevocabili. Sono quelle presentate dal ministro dell’Ambiente francese, Nicolas Hulot, lo scorso 28 agosto, prima alla stampa che all’esecutivo stesso, stupendo sia i giornalisti che il governo. «È arrivato il momento della verità – ha detto Hulot durante l’intervista alla radio France Inter e ai due giornalisti, che non si aspettavano un simile scoop – Non riesco a capire perché assistiamo alla gestazione di una tragedia annunciata con una forma di indifferenza. Il pianeta sta diventando una stufa, le nostre risorse naturali si esauriscono, la biodiversità si scioglie come neve al Sole. E ci sforziamo di rianimare un modello economico che è la causa di tutti questi disordini». L’ex ministro della Transizione ecologica e solidale francese – che potrebbe sembrare l’omologo del nostro ministro dell’Ambiente, ma è ben più forte visto che ha la delega all’energia ed è uno dei due ministri che riferisce direttamente al presidente della Repubblica, ossia a Macron – ha lasciato il dicastero perché non è riuscito a imporsi sul nucleare, sulla biodiversità, sul clima, sull’inquinamento. E ha aggiunto: «Non voglio dare l’illusione che la mia presenza nel governo significhi che su questi temi siamo all’altezza. Ho fatto piccoli passi. Ma non bastano, l’ecologia viene sempre relegata agli ultimi posti». Insomma, un atto d’accusa a 360 gradi verso l’inazione sul fronte ambientale che arriva da Parigi, la città dove nel 2015 è stato firmato lo “storico” accordo sul clima, che fissa al 2100 un aumento massimo delle temperature del Pianeta di 2 °C, ma si auspica il limite di 1,5. Le dimissioni di Hulot sono l’ennesimo campanello d’allarme circa il fatto che sul fronte del clima qualcosa non funziona. In realtà non ci voleva molto a capirlo seguendo i lavori di Parigi. La cancellazione delle percentuali di CO2 a due giorni dalla firma e il fatto che gli impegni non fossero vincolanti non era un buon auspicio già allora, ma all’epoca si preferì brindare alla quantità delle firme senza badare alla qualità del documento, mettendo in secondo piano il fatto che i contributi volontari presentati dalle nazioni firmatarie, gli Indcs, portano diritti a 3,7 °C al 2100, confidando così in una riduzione futura e “volontaria”.

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Accordo sciolto

Un accordo, quello di Parigi, che mostra la corda già ora sia sul piano economico, sia su quello politico, mentre sul fronte scientifico non arrivano buone notizie, come racconta anche Domenico D’Alelio nel suo articolo a pag. 16. I climatologi di tutto il mondo sono in forte apprensione. «Il tema non è tanto quello delle temperature che ormai hanno un trend abbastanza chiaro e che risponde a leggi altrettanto note – afferma Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano – Per esempio, sappiamo che è abbastanza normale che dopo un picco terrificante sul fronte delle temperature, come quello del 2016, ora abbiamo un anno come il 2018 relativamente meno caldo, che si chiuderà probabilmente come il terzo o quarto più caldo di sempre». Il vero problema che si stanno ponendo gli scienziati del clima è quello sulla sensibilità delle calotte polari al riscaldamento globale, cosa che potrebbe mettere in luce i limiti dell’Accordo di Parigi che ha come unico target quello della temperatura. Secondo Caserini non esistono alternative. «Nessun piano B. Bisogna ridurre in modo drastico le emissioni più rapidamente possibile e ci si deve attrezzare per sottrarre, tra una ventina d’anni, la CO2 dall’atmosfera. A livello di ricerca e sviluppo dobbiamo muoverci ora per avere tecnologie funzionanti e consolidate tra due decenni». La scienza lancia appelli ma l’economia sembra non raccoglierli. La decarbonizzazione, infatti, sembra in stallo. Nel 2017, la domanda di carbone mondiale è aumentata – non succedeva da quattro anni – e i nuovi investimenti in energie fossili sono stati maggiori di quelli in rinnovabili, mentre nel biennio precedente era successo il contrario. E segnali negativi arrivano anche dalle singole nazioni. L’India, che produce l’80% dell’elettricità dal carbone, non sembra disposta a invertire la rotta, la Germania dopo aver ridotto la propria dipendenza dal carbone per l’elettricità del 10% appare in seria difficoltà nell’aggredire il restante 40% e in Italia diminuiscono le già scarse installazioni di nuove rinnovabili. Nel primo semestre 2018, nel Belpaese, sono stati installati circa 334 MWe, con un calo del 39% rispetto allo stesso periodo del 2017. Il tutto sancito dall’Economist, che a fine agosto in un articolo sui cambiamenti climatici ha scritto: “In realtà stiamo perdendo questa guerra”. Una “sconfitta” a cui stanno dando un contributo decisivo gli Stati Uniti. «Trump sta lavorando ai fianchi i cambiamenti climatici – afferma G.B. Zorzoli, presidente di Free, il coordinamento delle associazioni attive in Italia su fonti rinnovabili ed efficienza energetica – e lo fa con metodo. Stanno arrivando dagli Stati Uniti notizie circa l’abolizione degli standard d’inquinamento per le autovetture della California, i più restrittivi dell’Unione. Si tratterebbe di un duro colpo a tutto il mondo della mobilità sostenibile, perché questi standard sono l’asticella di riferimento per tutta l’industria automobilistica statunitense e il loro abbassamento farebbe aumentare le emissioni del settore». In questo panorama l’Europa sembrerebbe essere un’isola felice, visto che la nuova direttiva in dirittura d’arrivo fissava una percentuale di rinnovabili nei consumi finali al 2030 del 27%, salita al 32% grazie al voto del Parlamento europeo. Ma anche su questo fronte si addensano le nubi. «Dopo le elezioni europee del prossimo maggio, con ogni probabilità a Bruxelles non avremo più la maggioranza composta dai popolari e dai socialdemocratici, che sono stati determinanti per approvare tutto ciò – prosegue Zorzoli – E il Parlamento europeo che ne uscirà potrebbe fare da freno alla limitazione delle emissioni, anziché da stimolo come ha fatto fino a ora». Se l’Europa marciasse sulla linea del 32% al 2030 senza indecisioni, anche in virtù del fatto che le regole dell’Unione Europea sono molto più vincolanti dell’Accordo di Parigi, potrebbe arrivare a fare il 50% di rinnovabili al 2050 e quindi avrebbe la strada in discesa verso il 100%. Un risultato di tutto rispetto anche se riguarda solo il 12% delle emissioni globali, ma che aprirebbe la strada per l’abbattimento della CO2 nelle nazioni industrializzate. Il terzo elemento critico, secondo Zorzoli, è rappresentato dalla Cina, che sul fronte climatico da segni di rallentamento. «A inizio anno il gigante asiatico ha ridotto di molto gli incentivi per le auto elettriche – continua Zorzoli – E il mercato cinese, per le sue dimensioni, era considerato il volano della mobilità elettrica in tutto il mondo».

Soldi&clima

Quello economico è il vero nodo che sta inceppando i negoziati d’avviamento dell’Accordo di Parigi. Dopo l’appuntamento di Bonn nel maggio 2015, durante il quale non si è riusciti a scrivere le linee guida per l’applicazione dell’Accordo, le Nazioni Unite si sono date un altro appuntamento a Bangkok lo scorso mese, ma anche questa volta non si è riusciti a arrivare a una sintesi. «Sono stati compiuti progressi nella maggior parte dei punti in discussione, ma non ne è stato ancora risolto completamente nessuno – ha dichiarato Patricia Espinosa, responsabile Onu per il clima – Altri elementi sono politicamente complessi e a Bangkok sono stati fatti progressi limitati». Le questioni sul tappeto sono parecchie, ma le principali riguardano il fondo da 100 miliardi di dollari l’anno che i Paesi sviluppati dovrebbero versare a quelli in via di sviluppo dal 2020 per adottare tecnologie pulite e il monitoraggio dell’efficacia di questi fondi. Una contrapposizione che vede i Paesi ricchi, Stati Uniti, Giappone, Australia e Unione Europea, contrapposti a quelli più poveri e che si aggiunge allo scenario macroeconomico che sta mettendo seriamente a rischio la road map di tutto l’Accordo, visto che se si dovesse fallire alla Cop 24 di Katowice in programma a dicembre, di sicuro tutto il processo potrebbe essere ritardato per anni, come successe alla Cop 15 di Copenhagen nel 2009, se non fallire definitivamente. E in questo quadro è particolare l’atteggiamento degli Stati Uniti, che anche se hanno detto di essere fuori dall’Accordo, non lo sono nei fatti: continuano a partecipare alle Cop con posizioni ostruzioniste, al punto che a Bangkok alcuni Paesi in via di sviluppo ne hanno chiesto l’allontanamento. «La strada è in salita per una serie di problemi politici che sono rimasti irrisolti e poi non aiuta la posizione della Polonia (che ospiterà la Cop 24 a Katowice, ndr), che è una nazione carbonifera
– afferma Maria Maranò della segreteria nazionale di Legambiente, animatrice della Coalizione clima – però si stanno diffondendo a livello sociale una serie di comportamenti che vanno in direzione della riduzione delle emissioni». Sul fronte nazionale abbiamo come scadenza di fine anno, in coincidenza con la Cop 24 in Polonia, il piano nazionale “Clima ed energia”, che dovrebbe essere varato dal governo entro fine anno. «Abbiamo l’obbligo di accendere i riflettori sulla Cop 24 in Italia attraverso la Coalizione clima (la sigla che raggruppa oltre 200 soggetti interessati a vario titolo alla difesa del clima, ndr) – prosegue Maria Maranò – Contemporaneamente dobbiamo approfondire il significato della giusta transizione verso una società low carbon». La giusta transizione riguarda la salvaguardia dei livelli occupazionali nel passaggio verso le rinnovabili. E non è una cosa da poco. In Sudafrica, per esempio, lo scorso marzo i sindacati hanno bloccato 27 progetti sulle rinnovabili, 4 miliardi d’investimenti, per il rischio di licenziamenti dei lavoratori occupati negli impianti a carbone. A nulla sono valse le affermazioni del ministro dell’Energia sudafricano, Jeff Radebe, che ha calcolato che i progetti del “Reippp”, questo il nome del piano porteranno 61.600 posti di lavoro tutti
per i cittadini sudafricani. Si tratta di un problema relativo per l’Italia, visto che abbiamo poco carbone, ma molto sentito in Polonia e altre nazioni europee e non, come Germania e India. La Cop 24, nel cuore del bacino carbonifero polacco, potrebbe essere un’opportunità o una difficoltà aggiuntiva. Dipenderà dalla direzione che la politica internazionale darà alla discussione sull’Accordo di Parigi, che ora sembra procedere in salita. Ripida. 

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