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Sant'Anna d'Alfaedo

Don Alberto Benedetti, il prete che celebrava la messa nell’«isba»

Don Alberto Benedetti con i suoi libri
Don Alberto Benedetti con i suoi libri
Don Benedetti, il sacerdote di Ceredo

Venticinque anni senza don Alberto Benedetti (1911- 1997): il «prete dei castagnari», «el prete dal Seré», Ceredo, piccola frazione di Sant'Anna d'Alfaedo. Questo gruppetto di case - fra cui la sua, l'«isba» in legno e pietra costruita da solo, a mano, nell'orto di famiglia, senza passare per gli uffici dell'edilizia privata - fu quasi tutto l'universo di don Alberto Benedetti. Ceredo, e naturalmente l'amatissimo altopiano della Lessinia: camminato in lungo e in largo, studiato nei suoi fossili e nei reperti archeologici, che di don Benedetti erano la grande passione. Eppure, nonostante i suoi 86 anni fossero trascorsi in questo microcosmo, salvo poche parentesi a valle da giovane curato, don Benedetti fu di una lungimiranza e di una cultura rare. Vedeva decenni avanti.

È ancora più chiaro oggi, a distanza di un quarto di secolo da quel Ferragosto 1997 in cui morì. La nipote Maria Benedetti, oggi ottantenne, ricorda quello zio spartano, con gli scarponi ai piedi e gli occhiali rotondi: «Era un uomo spartano, ma appassionato. La sua casa era freddissima, stracolma di libri. Tu stavi lì, seduto su una dura panca, a ghiacciarti la schiena, e intanto lui ti parlava, parlava, parlava... Uno spirito libero», riassume. «Non ha mai voluto fare il parroco. Teneva messa nell'isba, con il suo tavolo come altare». Don Benedetti profetizzava, per esempio: «Il nostro sistema economico, per reggersi, ha bisogno di una guerra ogni trent'anni. Dunque preparatevi, perché viene il tempo di una nuova guerra» (ricordo di Alessandro Anderloni).

Credeva nel valore delle radici; si opponeva al fatto che i giovani dovessero abbandonare la propria terra, la montagna, per andare a cercar fortuna perfino «in Merica»: «Aveva fondato con alcuni compaesani una piccola segheria che dava da vivere a sei famiglie, e ci lavorò anche lui», rammenta la nipote Maria, tuttora custode dell'«isba», che apre volentieri a chi la vuole visitare, e vedere la grande biblioteca di don Benedetti, catalogata dalla professoressa Nadia Massella. «Predicava il ritorno a un'economia "vernacolare", dove non serve andare lontano a vendere e a comperare cose», testimonia ancora Anderloni, il regista di Velo, che sulla vita di don Benedetti ha scritto la propria tesi di laurea, diventata il libro «Il prete dei castagnari» (La Grafica, 2001). Appunto.

Don Benedetti insisteva che il miglior investimento per il futuro fosse «piantare castagnari»: gli alberi su cui per secoli si era fatta economia di montagna. Chissà quante volte l'avrebbe ripetuto, se avesse assistito a quest'estate, bruciata dal sole e dalla siccità. E poi, giusto per questi tempi di campagna elettorale: «Al termine dell'eucarestia, che recitava nella sua isba», rievoca ancora Anderloni, «pregava: "Non ti fidare del governo. Di nessun governo"». Aggiungendo: «Abbraccia gli esseri umani: nel rapporto con ciascuno di loro, riponi la tua speranza politica». Esortazioni che don Benedetti aveva tratto dal «Manifesto del contadino impazzito» di Wendell Berry, il profeta dell'America rurale, antesignano dell'ambientalismo. Per questo suo essere oracolo, a volte «apocalittico», oltre che per il carattere «spigoloso come le cime delle montagne», come lo definì un compagno di Seminario, spesso non veniva capito.

«Non capito, e non amato», conferma Anderloni, «soprattutto dai preti, che ben presto lo relegarono al ruolo di "personaggio", anziché ascoltarlo». Per esempio, dalla parentesi giovanile di don Benedetti a Sona, dove fu curato sul finire degli anni Trenta, alle soglie della Seconda guerra mondiale, era emerso il pettegolezzo del «Processo a Mussolini»: l'episodio più eclatante attribuito alla sua già discussa figura. «Il curato ha sparato al quadro del Duce», si vociferava. «Ha "processato" Benito Mussolini, e dopo gli ha sparato...» Poteva sembrare verosimile, visto che il sacerdote «montagnàr» aveva dimestichezza con lo «sciòpo». Anderloni, nel suo libro, ha chiarito anche questo passaggio: «Fu don Alberto stesso a confidare a un suo amico sacerdote: "La storia che io ho sparato a Mussolini l'ha messa in giro il parroco di Sona con altri preti, per prendermi in giro". Non gli fu riconosciuto», sottolinea, «di essere stato, piuttosto, uno dei pochi sacerdoti ad avere il coraggio, poco prima della guerra, di denunciare dal pulpito l'alleanza tra Mussolini e Hitler».

In un'omelia dell'epoca, non apprezzata dalle gerarchie ecclesiastiche, aveva detto: «Cari fratelli, la croce l'abbiamo in testa, vedrete cosa succederà da questa unione. Verranno cose molto gravi, molto dolore. Bisognerebbe che io chiudessi la bocca , ma come faccio? «Non amato neanche dai politici», aggiunge Anderloni, «ai quali non risparmiò mai nulla, dai democristiani "che hanno come simbolo lo scudo dei crociati che nel nome di Dio andarono a compiere massacri" ai comunisti "che in Italia di Comunismo hanno solo il nome"». Già avanti con l'età, rievoca la nipote, don Benedetti ebbe a contestare, con i suoi soliti toni veementi, un amministratore locale. Il quale non la prese bene. Anzi, «gli inviò a casa i carabinieri, con la scusa che mio zio possedeva fucili da caccia, con regolare licenza. Ovviamente dalla perquisizione non emerse nulla di compromettente. Ma mio zio rimase scosso», rivela, «e da allora non fu più lui. Cominciò il declino». «Prima di morire, sul letto dell'Ospedale di Negrar, continuava a ripetere a un'infermiera: "I libri... i libri... i libri...". In quella casa e tra quei libri», conclude Anderloni, «c'è il lascito enorme di un prete che hanno definito in tanti modi, anarchico, eremita, ribelle, ma che dovremmo imparare a chiamare in un solo modo: un uomo libero. O forse, come lui si definiva, salvègo che non significa né selvatico né selvaggio, ma "non addomesticabile". E in questo nostro tempo di addomesticati e anestetizzati, il suo ricordo è prezioso». Ecco perché la nipote Maria, ora, ha un unico obiettivo: un'associazione nel nome di don Alberto Benedetti.

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Lorenza Costantino

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