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Musumeci: «Nei Comuni sciolti per mafia si mandino via anche i vertici burocratici»

Di Nello Musumeci* |

La notizia è di questi giorni: con Mistretta e San Cataldo salgono ormai a dieci i Comuni “sciolti” per mafia in Sicilia. Un dato che suscita seria preoccupazione e che rischia di rendere più profondo il divario tra la piazza e il Palazzo, tra la gente e la politica. E, come sempre, ci si divide tra chi si sente offeso da un provvedimento così drastico che induce a facili generalizzazioni («in questo paese siamo onesti e non mafiosi!») e chi saluta con soddisfazione il pesante intervento dello Stato («hanno fatto bene a mandarli tutti a casa!»).

Al di là delle contrastanti reazioni emotive o strumentali della gente, il crescente fenomeno dei Comuni sciolti per mafia invita ad alcune serene riflessioni. In questo momento 167mila siciliani non sono amministrati da organi elettivi: in dieci Comuni dell’Isola la democrazia, in un certo senso, rimane sospesa per almeno diciotto mesi, ma anche fino a due anni. Il decreto di scioglimento, inutile dirlo, si rivela fortemente invasivo nella vita civile di una comunità, ma siamo di fronte ad una misura dello Stato straordinaria, di natura preventiva e perciò caratterizzata da una certa discrezionalità dell’autorità proponente (la Prefettura). Per sciogliere un Comune, infatti, non è necessario l’accertamento di reati penali, ma è sufficiente che emerga una possibile soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata, anche a prescindere dal fatto che i politici abbiano voluto assecondare le richieste mafiose. Ma se l’applicazione di una norma non sempre porta ai risultati sperati, lo Stato rischia di non essere più in sintonia col comune sentire dei cittadini. Un esempio: decine di Comuni, dopo essere stati sciolti per mafia una prima volta, tornano ad esserlo per la seconda e, in alcuni casi, anche per la terza volta. È capitato anche in Sicilia. Cosa significa? Che la normativa sullo scioglimento dei Comuni, ormai dopo quasi trent’anni, va rivista, anche per alcune incongruenze che rendono il provvedimento spesso inutile se non dannoso. Ne cito due.

Prima incongruenza: perché in un Comune sciolto per mafia, lo Stato allontana solo il ceto politico e lascia al proprio posto i dirigenti della burocrazia comunale? Eppure è risaputo che in uffici a “rischio” il dirigente – volente o nolente – si trova spesso a fungere da “cerniera” tra il consenso del politico e la pressione del mafioso.

Cosa fare, dunque? Estendere gli effetti del provvedimento di scioglimento anche ai vertici burocratici. Il segretario comunale, i dirigenti alla guida di uffici strategici e con un’ampia sfera di autonomia decisionale non dovrebbero rimanere al loro posto. Anche in assenza di indizi, andrebbero destinati ad altro ente (senza dover subire alcun danno economico) per tutta la durata del commissariamento ed essere sostituiti da dirigenti esterni assolutamente estranei all’ambiente sociale e professionale del Comune sciolto.

Seconda incongruenza: perché in un Comune sciolto per mafia, lo Stato manda commissari straordinari già oberati da altri gravosi impegni d’ufficio e senza neppure verificarne la idoneità e l’attitudine al governo di un Ente? Ho conosciuto in questi anni commissari assai competenti ma presenti al Comune solo per uno-due giorni la settimana, perché già assorbiti da altro incarico. Un Comune commissariato non è un “Dopolavoro” da frequentare nel tempo libero: bisogna starci sette giorni su sette. E servono commissari che abbiano propensione al dialogo e al confronto con i cittadini. Sarebbe perciò necessario istituire presso il ministero dell’Interno un apposito Albo di dirigenti pubblici che abbiano tutti i requisiti per essere destinati ad amministrare Comuni sciolti.

Rimane il tema dei “poteri” in deroga da affidare alla gestione commissariale: in condizioni straordinarie servono misure straordinarie, azioni propulsive e di crescita, se si vuole restituire alla comunità un Ente libero da ogni opacità e non più vulnerabile.

Queste riflessioni ho rassegnato nei giorni scorsi al Ministro dell’Interno, proponendo in sede di riforma anche la previsione di una sorta di “diffida” ai Comuni appena afflitti da patologie legate a possibili condizionamenti o infiltrazioni. Una forma, cioè, di tutoraggio dello Stato, affidato alla Prefettura, prima di arrivare alla ineluttabilità dello scioglimento. Che è e resta un evento traumatico ma necessario, quando non è usato come strumento di lotta politica tra opposti schieramenti. Tutto il resto rimane affidato all’etica della responsabilità della politica, dei partiti, dei movimenti locali, delle associazioni civiche. Nulla può prescindere dalla rigorosa selezione del personale militante, dei candidati alle elezioni, delle loro scomode parentele e frequentazioni, della insidiosa e sempre più diffusa “zona grigia”.

Una politica che sappia fare scelte coraggiose ed anche impopolari, che non deleghi sbrigativamente la magistratura ma sappia fare pulizia al proprio interno, prima che arrivi la Procura. È troppo sperarlo?

*Presidente della Regione Siciliana

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