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Aragona, l’incubo dello stupro e la rivolta contro il luna park

Di Mario Barresi |

Aragona. Se fosse un film – ma purtroppo non lo è – la sequenza iniziale sarebbe una dissolvenza incrociata fra due scene madri. Venerdì scorso, entrambe.

Ad Aragona, paesone dell’entroterra agrigentino, noto per i vulcanelli delle Maccalube, dono della natura diventato maledizione dell’uomo dopo la morte di due fratellini nel 2014.

La prima scena è nel salotto buono: dal municipio a piazza Umberto I, una fiaccolata in occasione della “Giornata dei bambini vittime della violenza, dello sfruttamento e della indifferenza contro la pedofilia”. In testa il centro “Aiuto alla vita”, c’è anche il sindaco Giuseppe Pendolino, nel corteo la parte più sana della comunità.

La seconda scena è a poca distanza. Nei pressi di piazza Aldo Moro, proprio davanti alla caserma dei carabinieri. Qui, in uno slargo circondato da case semplici ma dignitose, in attesa del crescendo di festa per la Madonna di Fatima, sono arrivate le “giostrine”. Una carovana silenziosa di camion e furgoni annuncia giornate di svago per grandi e, soprattutto, piccini.

Il deus ex machina, a questo punto, è la pancia del popolo. Anzi: la bocca. Il bisbigliare. Un passaparola che si amplifica. Fino a diventare un urlo. Di protesta, di rivolta.

«Ma quelle sono le giostre della vergogna!».

Definizione che qui usano per additare un fatto scolpito nella memoria collettiva, più che un luogo mobile. Ovvero: il presunto stupro di una ragazzina dodicenne. Quattro anni fa, proprio in quella piazza. Ci sono state indagini della Squadra mobile e della Procura di Agrigento. E adesso c’è una richiesta di rinvio a giudizio. Per quattro persone: Riccardo Fonte, sessantenne nisseno; e tre giovani di origine romena, Vasile Luciano Isache e Constantin Cosmin Babiucu Pavel e Bogdan Petru Corcoz. Sono titolari e lavoratori delle giostre che, nel 2015, furono lo scenario della violenza sessuale aggravata di cui sono accusati. Secondo la tesi del procuratore Luigi Patronaggio e del sostituto Simona Faga, i quattro costrinsero la minore a raggiungere un vicolo isolato e la violentarono a turno ripetutamente. Il gup di Agrigento, Stefano Zammuto, dovrà decidere se processarli; il 4 giugno in tribunale è previsto l’incidente probatorio sulle intercettazioni.

«A poco più di un anno da quell’orrendo evento, mia figlia mi disse di essere stata stuprata», rivela la madre a Grandangolo, che ha ripuntato i riflettori sulle “giostre della vergogna”. Il racconto è struggente: «Dopo l’accaduto, mia figlia non parlò, pensando così di potersi difendere dalle loro pesanti minacce di ritorsione, ma subito dopo, per il forte shock, rimosse il tutto. La sua vita apparentemente continuò, manifestando tuttavia profondi cambiamenti emotivi di cui nessuno riuscì a capire la causa. Sino a quando lei non esplose in crisi di urla, pianti e panico che la riportavano a quel maledetto ricordo della violenza».

Già, «quel maledetto ricordo». Riaffiorato, qualche mese fa, quando l’assessora comunale Stefania Di Giacomo diffuse una lettera aperta («A te, Aragona, teatro delle mie grida ignorate e inascoltate», l’ incipit) scritta proprio dalla ragazza, oggi sedicenne. Il ricordo, atroce: «Io l’ho visto il loro corpo, nudo e troppo potente per la bambina che ero, posseduto dalla morte che tanto timore mi incuteva. Bestie e pedofili quali erano, hanno stroncato la mia infanzia». La denuncia, forte: «Mi rivolgo a chi è stato zitto ed ha inneggiato l’omertà, a chi non mi ha aiutata, a chi non mi ha creduta, a chi mi ha abbandonata, a te che sei il complice del carnefice; tu hai stuprato quel che rimaneva vivo in me e la mia colpa è stato permettertelo». E la coscienza, consapevole: «Loro hanno stuprato ogni mio senso e io, per il rispetto di me stessa, ho cominciato ad amarmi infinite volte più di prima. Che Dio vi perdoni pure…».

Una ferita collettiva dell’anima, mai del tutto rimarginata, che si riapre venerdì. Quando riappaiono le giostre. «Sono le stesse di quella volta», è la voce strozzata di Aragona. E per la madre della minorenne è un incubo che ridiventa realtà. «Giusto oggi che c’era la fiaccolata e arrivano le giostre. C’è la manifestazione contro i pedofili e quelli montano… Un tempismo perfetto». Il caso monta: dalle chat delle mamme la rivolta diventa virale. Essendoci anche degli stranieri (seppure due di loro sono residenti ad Aragona) fra gli accusati, si alza anche il coro contro «quegli zingari mostri». La storia finisce ovunque. Sui social e in piazza, sul web e al bar. E ai carabinieri, oltre che sul tavolo della Procura.

Ma com’è possibile che sia stata concessa un’autorizzazione che di fatto potrebbe essere un ritorno sul luogo del delitto? I giostrai vengono bloccati. La carovana resta in paese, ma non va in piazza Aldo Moro. Fin quando si chiarisce il giallo. «Siamo addolorati per quanto accaduto in questo luogo, che dovrebbe essere di serenità e sano svago per tutte le famiglie. Ma non si può fare di tutta l’erba un fascio… Qui ad Aragona siamo stati visti male, e la nostra immagine, pur essendo completamente estranei ai fatti accaduti, è stata fortemente calpestata, come se c’entrassimo qualcosa con questa brutta storia», dicono – attraverso l’avvocato Ignazio Pullara – i titolari del I gestori del luna park “Spettacolo viaggiante”, «regolarmente autorizzato dal Comune, che ora non ci fa montare». Fra loro, in verità, ci sono anche i familiari di uno degli accusati dello stupro, dal quale però si dissociano: «Noi non abbiamo nulla a che vedere con gli imputati coinvolti nell’inchiesta. Noi siamo venuti ad Aragona solo per lavorare e per fare divertire i bambini e i ragazzi. Vorremmo che la gente lo capisse». E poi lo sfogo: «Non siamo dei mostri, ma solo persone che sono venute per lavorare e guadagnarci il pane».

L’autorizzazione, dunque, è formalmente regolare. Il Comune ha le carte (ma forse non la coscienza) a posto. E, dopo un chiarimento dai carabinieri, alla fine le giostre vengono montate ieri. Ma, fino a tarda sera, disertate dagli aragonesi. Non ci sono bambini, non c’è gioia. C’è soltanto un signore, forse uno dei gestori, che fuma solitario. Seduto proprio sulla “panchina rossa”, inaugurata due mesi fa come «simbolo della lotta contro la violenza sulle donne e contro la pedofilia».

Ci avviciniamo. E, fra le luci fioche di questa strana notte, scorgiamo la scritta che l’associazione “La Rosa Bianca” ha impresso: «La violenza non è la tua condanna, ma il tuo stesso silenzio sarà il tuo stesso tormento». Parole della lettera della ragazzina. Che qui, forse, non le leggerà. Mai.

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