Non lasciarsi tentare dalle «profezie di sciagure», non spendere energie per «contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze», tenere fisso lo sguardo sul bene che «spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine» e non spaventarsi «davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa». Ai 144 vescovi che ha nominato dall’agosto del 2017 allo scorso luglio, in Vaticano in questi giorni per un corso di aggiornamento, il Papa ha raccomandato, in particolare, di «aggiornare i processi di selezione, accompagnamento, valutazione» in seminario, precisando però che queste risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze». Più in generale, i vescovi, ha detto Jorge Mario Bergoglio, devono conservare «il cuore di agnelli che, anche se circondati da lupi, sanno che vinceranno perché contano sull’aiuto del pastore».

 

 

«Vi raccomando una particolare attenzione al clero e ai seminari», ha detto il Papa ai nuovi vescovi. «Non possiamo rispondere alle sfide che abbiamo nei loro confronti senza aggiornare i nostri processi di selezione, accompagnamento, valutazione. Ma le nostre risposte saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato, se non riveleranno perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse. E qui – ha proseguito – ognuno di noi deve umilmente entrare nel profondo di sé e domandarsi che cosa può fare per rendere più santo il volto della Chiesa che governiamo in nome del Supremo Pastore. Non serve – ha affermato – puntare solo il dito sugli altri, fabbricare capri espiatori, stracciarsi le vesti, scavare nella debolezza altrui come amano fare i figli che hanno vissuto in casa come fossero servi. Qui è necessario lavorare insieme e in comunione, certi però che l’autentica santità è quella che Dio compie in noi, quando docili al suo Spirito ritorniamo alla gioia semplice del Vangelo, così che la sua beatitudine si renda carne per gli altri nelle nostre scelte e nelle nostre vite. Vi invito pertanto ad andare avanti gioiosi e non amareggiati, sereni e non angosciati, consolati e non desolati, cercate la consolazione del Signore, conservando il cuore di agnelli che – ha detto il Papa riecheggiando san Giovanni Crisostomo – anche se circondati da lupi, sanno che vinceranno perché contano sull’aiuto del pastore».

 

Nel lungo discorso che ha rivolto ai vescovi, «ancora attraversati dallo stupore di essere stati chiamati a questa missione mai proporzionata e conforme alle nostre forze», il Papa ha formulato una serie di raccomandazioni: «Non siete frutto di uno scrutinio meramente umano, ma di una scelta dall’alto», ha detto loro, «perciò da voi si richiede non una dedizione intermittente, una fedeltà a fasi alterne, una obbedienza selettiva, ma siete chiamati a consumarvi notte e giorno. Restare vigili anche quando sparisce la luce, o quando Dio stesso si cela nella tenebra, quando la tentazione di arretrare si insinua e il maligno, che è sempre in agguato, suggerisce sottilmente che ormai l’alba non verrà più».

 

Più specificamente, «non lasciatevi tentare da racconti di catastrofi o profezie di sciagure», ha detto il Papa ai vescovi di recente nomina, «non spendete le vostre migliori energie per contabilizzare fallimenti e rinfacciare amarezze, lasciandovi rimpiccolire il cuore e rattrappire gli orizzonti». E ancora, «tenete fisso il vostro sguardo solo sul Signore Gesù e, abituandovi alla sua luce, sappiate cercarla incessantemente anche dove essa si rifrange, sia pure attraverso umili bagliori», nelle famiglie, nella certezza dell’amore e del persone, nella «silenziosa dedizione» di tanti consacrati e ministri di Dio, che «perseverano incuranti del fatto che il bene spesso non fa rumore, non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine» e «non si spaventano davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa».

 

«So bene quanto nel nostro tempo imperversano solitudine e abbandono, dilaga l’individualismo e cresce l’indifferenza al destino degli altri», ha detto ancora il Papa, «a noi non è consentito ignorare la carne di Cristo, che ci è stata affidata non soltanto nel Sacramento che spezziamo, ma anche nel Popolo che abbiamo ereditato», e per questo, ha rimarcato il Pontefice argentino ai vescovi, «la vostra santità non sia frutto dell’isolamento, ma fiorisca e fruttifichi nel corpo vivo della Chiesa affidatavi dal Signore». A questo fine, la «santità piccina» che si nutre dell’abbandono nelle mani di Dio «cresce mentre si scopre che Dio non è addomesticabile, non ha bisogno di recinti per difendere la sua libertà, e non si contamina mentre si avvicina, anzi, santifica ciò che tocca». Perciò, ha detto ancora il Papa ai vescovi, «vi raccomando di non vergognarvi della carne delle vostre Chiese. Entrate in dialogo con le loro domande».

 

Prima di ricevere i presuli che partecipano ai corsi di aggiornamento della congregazione dei Vescovi e della congregazione delle Chiese Orientali, il Papa stamane ha ricevuto i partecipanti al Convegno «La teologia della tenerezza in Papa Francesco», che avrà luogo ad Assisi dal 14 al 16 settembre 2018, accompagnati dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. Dopo aver fatto i complimenti a mons. Carlo Rocchetta, animatore della «Casa della tenerezza» («Quando ho visto che era questo il titolo, ho incominciato a studiare, mi avete fatto leggere questo libro per capire qual era “la cosa”. Un bel libro, lo conoscete, quello di Rocchetta. È bravo…»), il Papa ha spiegato: «La teologia non può certamente ridursi a sentimento, ma non può nemmeno ignorare che in molte parti del mondo l’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente», ha notato Bergoglio, e la tenerezza, «lungi dal ridursi a sentimentalismo, è il primo passo per superare il ripiegamento su sé stessi, per uscire dall’egocentrismo che deturpa la libertà umana». Da qui l’auspicio di «una teologia che esca dalle strettoie in cui talvolta si è rinchiusa e con dinamismo si rivolga a Dio, prendendo per mano l’uomo, una teologia non narcisistica, ma protesa al servizio della comunità; una teologia che non si accontenti di ripetere i paradigmi del passato, ma sia Parola incarnata».

I commenti dei lettori