Raccontare la storia di Ismail (Basir Ahang), sfuggito alle persecuzioni in Afghanistan quando era ancora un bambino e, da allora, alla ricerca della madre perduta, è stata, per la regista Costanza Quatriglio, l’occasione per mettere sotto i riflettori del cinema la tragedia del genocidio del popolo Hazara, che oggi conta quasi 8 milioni di persone, e che, in Pakistan come in Afghanistan, è stato ciclicamente colpito da attacchi di gruppi terroristici sunniti: «Il mio è un film che apre domande e che, volutamente, non offre risposte. È nato da un corto, fatto nel 2009, e ho capito quanto fosse giusto girarlo ascoltando i racconti di chi ha vissuto lo strappo dalla propria terra e dalla propria madre».

“Interpretare questo film non è stato facile, ci riportava alla mente tutto quello che abbiamo vissuto”

Le radici della narrazione, spiega Quatriglio, sono nel destino di «un’etnia che forse oggi è tra le più perseguitate al mondo, anche , se di questa gente originariamente buddista e oggi perlopiù di fede sciita, pochi sanno e vogliono sapere. Chi conosce le vicende del “Cacciatore di aquiloni”, il best-seller di Khaled Hosseini, ricorderà, forse, che il piccolo protagonista vittima di ogni forma di odio e di violenza, è di etnia hazara». Gli hazara vivono perlopiù nelle zone centrali dell’Afghanistan dove le due enormi statue di Budda, simbolo della loro cultura, sono state distrutte dai Talebani nel marzo 2001. A causa dei tratti somatici mongoli, si dice che discendano dall’armata di Gengis Khan che invase l’Afghanistan nel tredicesimo secolo, mentre alcuni storici sostengono, invece, che gli Hazara siano il popolo autoctono dell’Afghanistan.

Al centro di «Sembra mio figlio» (dal 20 nei cinema, distribuito da Ascent Film) la vicenda reale di Mohammad Jan Azad, arrivato in Italia dopo aver attraversato il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, e accolto in una struttura per minori non accompagnati: «Da 17 anni non vedo la mia famiglia - spiega Dawood Yousef, nel film Hassan, fratello di Ismail -. Interpretare questo film non è stato facile, ci riportava alla mente tutto quello che abbiamo vissuto. Il genocidio degli Hazara va avanti da tantissimi anni, l’Europa sembra essersene dimenticata, spero che adesso qualcosa cambierà. Ognuno ha il diritto di vivere, essere Hazara non è un crimine, tutti facciamo parte di una stessa famiglia, quella degli uomini».

La realizzazione di «Sembra mio figlio» è stata un’avventura umana e professionale: «Nulla è stato semplice - dice Quatriglio -, al contrario, innumerevoli sono state le sfide da affrontare, nel nome di un film impossibile, ma per questo più entusiasmante». Dalla fase del casting («per trovare i nostri attori abbiamo setacciato il mondo, era importante che avessero ricordi della storia che andavamo a raccontare») a quella delle riprese, spesso portate avanti rinunciando al copione per seguire l’onda delle memorie degli interpreti («a un certo punto Basir dettava e noi scrivevamo»), l’impresa ha riservato sorprese ed emozioni: «Abbiamo girato in Iran, sul set c’erano sempre almeno due interpreti, abbiamo vissuto momenti di gioia e anche di confusione». Il traguardo più grande, confessa ancora la regista, è stato raggiunto nel momento in cui «la signora Ahang, proveniente da Kabul e atterrata una notte all’aeroporto di Teheran, ha rivisto Basir, il nostro protagonista, dopo una lontananza durata tantissimi anni. Era sua madre. Mai come allora, con il cuore in gola, mi è stato così chiaro che vita e cinema possono mescolarsi, e che, quando questo accade, è, per una regista, il dono più raro e prezioso».