«L’obiettivo della Santa Sede è un obiettivo pastorale, cioè aiutare le Chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà». Con queste parole il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano e paziente tessitore delle relazioni con la Cina durante gli ultimi pontificati, ha commentato la notizia della firma dell’accordo avvenuta a Pechino oggi, 21 settembre 2018.

«La firma di un accordo provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi - ha detto il porporato - riveste una grande importanza, specialmente per la vita della Chiesa cattolica in Cina e per il dialogo tra la Santa Sede e le autorità civili di quel Paese, ma anche per il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace, in questo momento in cui stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale».

«L’obiettivo della Santa Sede è un obiettivo pastorale - ha aggiunto Parolin nel commento diffuso da Vatican News - cioè aiutare le Chiese locali affinché godano condizioni di maggiore libertà, autonomia e organizzazione, in modo tale che possano dedicarsi alla missione di annunciare il Vangelo e di contribuire allo sviluppo integrale della persona e della società».

«Per la prima volta dopo tanti decenni - spiega il Segretario di Stato - oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il Vescovo di Roma. Papa Francesco, come i suoi immediati predecessori, guarda e si rivolge con particolare attenzione e con particolare cura al Popolo cinese. C’è bisogno di unità, c’è bisogno di fiducia e di un nuovo slancio; c’è bisogno di avere pastori buoni, che siano riconosciuti dal Successore di Pietro e dalle legittime autorità civili del loro Paese. E l’accordo si pone proprio in questo orizzonte: è uno strumento che speriamo possa aiutare in questo processo, con la collaborazione di tutti».

«Alla comunità cattolica in Cina – ai vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e ai fedeli – il Papa affida in modo particolare l’impegno di vivere un autentico spirito di riconciliazione tra fratelli, ponendo dei gesti concreti che aiutino a superare le incomprensioni del passato, anche del passato recente. In questo modo - conclude il cardinale - i fedeli, i cattolici in Cina, potranno testimoniare la propria fede, vivere un genuino amore di patria e aprirsi anche al dialogo tra tutti i popoli e alla promozione della pace».

Rispondendo ad una domanda che gli avevamo posto sul perché la Santa Sede trattasse con un governo comunista che nega la libertà religiosa, il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin nell’aprile 2018 aveva risposto: «Se il governo non fosse comunista e rispettasse la libertà religiosa, non ci sarebbe bisogno di trattare. Perché avremmo già ciò che vorremmo…». Parole semplici e chiare, che aiutano a comprendere una realtà spesso dimenticata: i concordati o gli accordi come quello - storico - che è stato siglato oggi a Pechino - sono necessari proprio per cercare di risolvere i problemi esistenti. E nell’ottica della fede cristiana, nell’ottica della Chiesa, l’unità e la comunione dei vescovi con il Papa non è un elemento secondario e trascurabile.

Proprio per questo, ogni lettura politica o soltanto geopolitica dell’accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, anche se proposta, suggerita o sbandierata da quanti dentro la Chiesa hanno cercato fino all’ultimo di farlo fallire paventando una “svendita” della Chiesa stessa al potere comunista, non regge di fronte ai fatti. «Il nostro non è uno scopo politico - aveva detto lo scorso aprile Parolin - Ci hanno accusato di volere soltanto le relazioni diplomatiche cercando chissà quale successo. Ma alla Santa Sede, come ha detto più volte il Papa, non interessa alcun successo diplomatico. Ci interessano spazi di libertà per la Chiesa, per far sì che possa vivere una vita normale che è fatta anche di comunione con il Papa. Questa comunione vissuta è fondamentale per la nostra fede».

Proprio questo sguardo cristiano, che ha a cuore l’essenziale della fede, è quanto di più lontano dalle astuzie o le furbizie diplomatiche attribuite da qualche personalità ecclesiastica al Segretario di Stato. Alla vigilia dell’accordo, abbiamo letto le dichiarazioni dell’ottantaseienne cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong: ha detto alla Reuters che Parolin «deve dare le dimissioni. Io non penso che lui abbia fede. Egli è soltanto un buon diplomatico in un senso molto secolare e mondano».

A parte la richiesta di dimissioni, diventata ormai uno sport popolare per ecclesiastici di rango che sembrano aver smarrito il senso dell’appartenenza ecclesiale e fanno pubbliche dichiarazioni assimilabili alle invettive dei talk show politici, colpisce nelle parole di Zen il suo ergersi a giudice della personale fede di Parolin, peraltro noto per aver sempre anteposto il suo essere prete e uomo di fede al suo essere diplomatico. È il segno tangibile, che dagli Stati Uniti all’Asia un certo modo di intendere i rapporti all’interno della Chiesa, una mentalità aziendalista, funzionalista o da agit prop si è insinuata a tutti i livelli ecclesiali. E ormai da qualche anno si accompagna all’uso patologicamente sconsiderato dei nuovi media per fomentare odi e divisioni, e per esercitare indebite pressioni sulla Chiesa stessa.

Ecco quali sono le finalità dell’accordo, la cui utilità andrà vagliata nel corso degli anni a venire, sempre nelle parole del cardinale Segretario di Stato nell’intervista dello scorso aprile: «È fondamentale che la Chiesa sia unita, che la comunità ufficiale, sottoposta al controllo del governo, e quella cosiddetta clandestina – le quali oggi camminano ciascuna sulla propria strada - possano essere unite. Già Benedetto XVI nella sua Lettera ai cattolici cinesi aveva detto che lo scopo di tutto il lavoro in Cina deve essere quello della comunione fra le due comunità e della comunione di tutta la Chiesa cinese con il Papa».

Parolin, in una precedente intervista con Vatican Insider, interamente dedicata al caso cinese, aveva specificato e approfondito ancora meglio lo scopo squisitamente ecclesiale della trattativa. «La finalità principale della Santa Sede nel dialogo in corso - diceva il cardinale - è proprio quella di salvaguardare la comunione nella Chiesa, nel solco della genuina tradizione e della costante disciplina ecclesiastica. In Cina non esistono due Chiese, ma due comunità di fedeli chiamati a compiere un cammino graduale di riconciliazione verso l’unità. Non si tratta, perciò, di mantenere una perenne conflittualità tra principi e strutture contrapposti, ma di trovare soluzioni pastorali realistiche che consentano ai cattolici di vivere la loro fede e di proseguire insieme l’opera di evangelizzazione nello specifico contesto cinese». 

«La Santa Sede - aggiungeva il Segretario di Stato - conosce e condivide le gravi sofferenze patite da molti cattolici in Cina e la loro generosa testimonianza per il Vangelo. Permangono molti problemi per la vita della Chiesa e che questi non possono essere risolti tutti insieme. Ma, in questa cornice, la questione della scelta dei vescovi è cruciale. D’altronde, non possiamo dimenticare che la libertà della Chiesa e la nomina dei vescovi sono sempre stati temi ricorrenti nei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati. Certamente, il cammino avviato con la Cina attraverso gli attuali contatti è graduale ed ancora esposto a tanti imprevisti, così come a nuove possibili emergenze. Nessuno, in coscienza, può dire di avere soluzioni perfette per tutti i problemi. Occorrono tempo e pazienza, perché si possano rimarginare le tante ferite personali inflitte reciprocamente all’interno delle comunità. Purtroppo, è certo che ci saranno ancora incomprensioni, fatiche e sofferenze da affrontare. Ma tutti nutriamo la fiducia che, una volta considerato adeguatamente il punto della nomina dei vescovi, le restanti difficoltà non dovrebbero essere più tali da impedire ai cattolici cinesi di vivere in comunione tra di loro e con il Papa». 

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