Dalla terra martire della Lituania, che ha conosciuto le persecuzioni, i ghetti e le deportazioni in Siberia durante gli anni dei totalitarismi, Francesco ricorda il passato dell’Europa indicando la via evangelica: non inseguire potere e gloria, ma spendersi per i poveri e i piccoli, i dimenticati. C’è un cielo terso e splende il sole a Kaunas, antico villaggio fortificato e oggi seconda città del Paese, situata alla confluenza dei fiumi Neris e Nemunas, testimone lungo i secoli di guerre, invasioni, saccheggi, dominazioni, che dal 1920 al 1939 fu capitale lituana.

 

Nel grande parco Santakos, dove rimangono le rovine delle mura e del fossato dell’antico castello di Kaunas e dove sorge la chiesa di San Giorgio, il Papa celebra la messa domenicale di fronte a migliaia di persone, dopo aver compiuto vari giri con la papamobile tra la folla.

 

Nell’omelia, meditando il Vangelo di Marco e ricordando che più volte Gesù ha prefigurato ai discepoli la sua passione, Bergoglio dice: «La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili. Le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento».

 

Nel Libro della Sapienza si parla del “giusto perseguitato”, che subisce oltraggi e tormenti per il solo fatto di essere buono. «Quanti di voi - afferma il Papa - potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto. Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri; e può dire all’unisono con l’apostolo Giacomo, nel brano della sua Lettera che abbiamo ascoltato: bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra».

 

«Fratelli - ammonisce Francesco, citando l’atteggiamento degli apostoli che mentre seguivano Gesù discutevano chi tra di loro fosse il più grande - il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri».

 

È un atteggiamento, questo, che il Pontefice definisce «sterile e vano, che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Non possiamo essere come quegli “esperti” spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di “quello che si dovrebbe fare”». Di fronte a questo atteggiamento, la risposta di Gesù è un’azione concreta ed emblematica: «Mette un bambino al centro; un ragazzino che di solito si guadagnava gli spiccioli facendo le commissioni che nessuno voleva fare. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica? Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici».

Francesco torna quindi a parlare anche qui della missione. «Di questo si tratta: di essere una Chiesa “in uscita”, di non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali. Ma sapendo che quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada».

Ricordando, con le parole del Concilio, che «non c’è nulla di veramente umano che non abbia risonanza nel cuore dei discepoli di Cristo, e così sentiamo come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti».

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