Cara Karima,

Sento spesso parlare di conflitto nelle seconde generazioni ed è per questo che vorrei condividere la mia esperienza. Sono una giovane ragazza di 25 anni, di origini marocchine. Ricordo ancora il Paese che avevo lasciato a soli 6 anni. In quel periodo non avevo respirato solo l’odore di spezie della mia città, Marrakech, ma mi stavo portando in valigia il peso di una cultura che all’epoca sentivo ancora mia. Ci è voluta l’adolescenza per farmi liberare dei retaggi culturali ma era tutt’altro che facile. Inizialmente, attribuivo la colpa dei miei disagi con la società musulmana all’ignoranza di alcuni. Non mettevo mai in dubbio la religione perché la reputavo “incorruttibile”. Solo dopo capii che lo facevo perché forse era l’unico cordone ombelicale che mi legava alla mia terra di origine. Oggi, con molta sofferenza, ho tagliato quel cordone per sentirmi più libera. Guardando le cose da un’altra prospettiva ho potuto vedere le ingiustizie della mia cultura e religione di provenienza. Perché, la donna nell’Islam che ci viene insegnato, con la scusa della protezione, viene privata di alcuni diritti che creano disuguaglianze di trattamento tra i due sessi. E penso per esempio all’ultima discussione sulla legge dell’eredità che stanno finalmente affrontando in Tunisia ma chissà se mai verrà affrontata nel mio Paese di origine. Ad oggi, se non hai un fratello maschio (che già secondo la legge prenderebbe il doppio in quanto maschio) si rischia di dover dividere i sacrifici dei propri genitori con zii di cui a malapena si ricorda il nome. Ed è il mio caso, dato che siamo una famiglia di sole femmine. Per non parlare della vita sentimentale. Se t’innamori di un uomo non musulmano non puoi sposarti secondo la legge nel tuo Paese di origine. In Italia si parla molto di velo come accessorio; ma molte ragazze musulmane anche se non lo portano fisicamente, li avvolge comunque psicologicamente e violentemente. Io per esempio sentivo la mia cultura di origine addosso come un velo che mi strozzava e non capivo il perché. La verità è che mi avevano messo un hijab stretto stretto con le loro pressioni psicologiche. Perché il velo non è solo un pezzo di stoffa ma un nodo intrecciato alle aspettative di una famiglia e comunità che vuole annullare il tuo io ed essere padrona del tuo spazio di movimento oltre che del tuo stesso corpo. È morta così la mia spiritualità islamica, trovando rifugio e una pace nell’agnosticismo, che ovviamente devo tenere nascosto. Molte volte mi chiedo: e se fossi rimasta in Marocco, avrei vissuto questo violento scontro con la mia famiglia e cultura di origine? Perché la verità è che l’Italia è stata la svolta del mio cambiamento.

Nadia.

Cara Nadia, certamente l’Italia, sia per te che per tante persone con un percorso migratorio è stata ed è una svolta per un cambiamento. Tu, come molte seconde generazioni però, stai affrontando una fase molto critica con la cultura di origine e, insieme, con la tua famiglia. Le ultime notizie di cronaca, che ci raccontano dei maltrattamenti tra le mura di casa che molte adolescenti musulmane sono costrette a vivere, sono un fanalino d’allarme da non sottovalutare, ma da monitorare con molta cautela. Non tutte infatti riescono a rompere quel cordone ombelicale, e non è detto che per tutte valga la regola che romperlo sia la scelta più adeguata per stare meglio. Sono numerose le storie di chi sceglie una strada diversa dalla tua trovando la propria pace interiore e cullandosi pienamente nella cultura di origine. Quello che è importante sottolineare però, è che oggi c’è una presa di posizione molto forte delle giovani musulmane, chi per una strada, chi per l’altra. L’Italia in questo senso, diventa lo spazio e la cornice perfetta per un dibattito sano e una battaglia nuova sull’emancipazione femminile. Una piccola voce che in futuro potrebbe diventare più grande nella conquista dei tanti diritti di cui sino a ora le donne sono state private.