Il conto alla rovescia è iniziato: entro giovedì il governo deve approvare la Nota di aggiornamento e fissare i nuovi paletti in vista della legge di bilancio. Il premier stamattina vola a New York per partecipare all’assemblea dell’Onu e così ieri a palazzo Chigi per tutta la giornata si sono susseguiti gli incontri nel tentativo di trovare un accordo sul livello di deficit da indicare per il 2019.

Prima della riunione del consiglio dei ministri sul decreto sicurezza, iniziato poi con quasi due ore di ritardo, Conte ha incontrato Salvini, Di Maio, Tria, Savona ed il sottosegretario alla presidenza Giorgetti. Quindi a sera nuovo summit: assenti i due vice premier il tavolo è stato allargato ai due viceministri dell’Economia, il leghista Massimo Garavaglia e la grillina Laura Castelli, ed al ministro per i Rapporti col Parlamento Fraccaro. Già col primo giro d’orizzonte, stando a fonti del governo, sarebbero stati fatti «passi in avanti decisivi». Col secondo round sarebbe quindi passata l’idea di alzare l’asticella del deficit ben oltre l’1,6% fino a ieri indicato dal ministro dell’Economia come invalicabile.

Sfidando il giudizio di Bruxelles e delle agenzie di rating, da settimane pronte a declassare l’Italia a fronte di scelte non in linea con gli impegni europei, si punta a salire sino all’1,9%, in modo tale da non infrangere il tabù del 2%, ma sufficiente per disporre almeno di 17 miliardi di euro in più. Con queste risorse, ma la decisione non è ancora ufficiale, si potrebbero innanzitutto sterilizzare gli aumenti dell’Iva (12,4 miliardi) e si riuscirebbe comunque a conservare un discreto margine di manovra di altri 5 miliardi. Per finanziare un assaggio di flat tax come chiede la Lega, l’avvio del reddito di cittadinanza che sta a cuore dei 5 Stelle e la riforma della legge Fornero, ovviamente, servirà molto di più ed inevitabilmente il governo dovrà mettere mano a significativo piano di tagli, dalle spese dei ministeri agli sconti fiscali.

Fiducia al Ragioniere

Tra un vertice e l’altro ieri pomeriggio a palazzo Chigi è stato segnalato anche il Ragionerie generale dello Stato Daniele Franco, che in questi giorni è finito nel mirino dei 5 Stelle che lo hanno accusato di fare resistenza rispetto alla volontà politica di trovare soldi per le riforme da inserire nella legge di Bilancio. Ancora ieri,in una intervista al «Fatto», Di Maio ha detto esplicitamente di parole di non fidarsi del suo operato e di far «controllare ai suoi collaboratori ogni norma». E’ stato Conte a chiamare Franco a palazzo Chigi per mettere fine a tutte le polemiche, «rassicurarlo» e «ribadirgli tutta la fiducia del governo». Il «guardiano» dei conti pubblici si è presentato a piazza Colonna assieme a Tria ed alla squadra di tecnici che in questi frangenti assiste il ministro finiti a loro volta nel gorgo delle polemiche, a partire dal capo di gabinetto Garofoli e dal direttore generale Rivera, «con le tabelle e tutto il materiale» che ogni anno la Ragioneria generale prepara per la Nadef.

Macron «illude» Di Maio

Mentre a Roma andava in scena l’ennesimo tira e molla, da Parigi arrivava la notizia che il governo Macron nel 2019 porterà il suo disavanzo al 2,8 dal 2,6% di quest’anno. Di Maio ha subito colto la palla al balzo chiedendo di fare altrettanto da noi visto che «siamo un Paese sovrano esattamente come la Francia. I soldi ci sono e si possono finalmente spendere a favore dei cittadini. In Italia come in Francia». Poco dopo però ha abbassato le sue pretese, sostenendo che «possiamo fare anche meglio di Macron» e quindi far «meno del 2,8%» andando «fin dove ci serve per finanziarie le misure». In realtà lo «strappo» della Francia, che ieri ha varato un maxi taglio delle imposte da quasi 24,5 miliardi, 6 a favore delle famiglie e 18 destinati alle imprese, è un puro fatto tecnico. Il governo ha infatti deciso di trasformare il Credito di imposta per la competitività ed il lavoro, una sorta di sussidio all’occupazione, in una riduzione definitiva dei contributi, un intervento che tra pagamenti per il 2018 e la decontribuzione prevista per il 2019 vale ben lo 0,9% del Pil. Una tantum però. Senza questa manovra il deficit si sarebbe fermato all’1,9% per toccare poi all’1,4 nel 2020 e veder scendere il debito dal 98,6 al 97,5% e quindi toccare il 92,7% nel 2022. Altri numeri insomma, altra storia.

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