Non capita spesso nella storia della Chiesa che ad essere beatificato sia un gruppo di persone. La canonizzazione che avverrà presso il santuario di Notre-Dame di Santa Cruz a Orano, in Algeria, il prossimo 8 dicembre, vedrà protagonisti 19 martiri, uccisi in vari momenti e luoghi nel corso della sanguinosa guerra civile algerina, ma accomunati da una serie sorprendente di fattori. Erano tutti religiosi (appartenevano a otto diverse Congregazioni), in una terra quasi interamente islamica dove non è possibile operare conversioni testimoniavano nella semplicità vivendo integrati tra la gente e, nel momento in cui la situazione era precipitata e le loro stesse vite erano in serio pericolo, hanno scelto di rimanere in mezzo al loro popolo. Restano un potente simbolo di passione disinteressata per la pace, di comunione e dialogo profondi, di convivenza pacifica. È quindi significativo che assurgano al primo gradino della santificazione raffigurati nell’icona di beatificazione assieme a un musulmano: Mohammed Bouchikhi, il giovane autista algerino di monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, ucciso con lui il 1° agosto 1996. Tra i 19, spiccano le figure dei sete monaci trappisti di Tibhirine, la cui vicenda viene splendidamente narrata nel film “Uomini di Dio”, rapiti nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 e ritrovati morti due mesi dopo. Suor Augusta Tescari, è la monaca trappista che segue da 20 anni per il suo ordine le cause di santificazione come postulatrice generale. 

Suor Augusta, che percorso è stato quello che ha condotto alla beatificazione dei 19 martiri? 

«È stato un cammino tanto complesso quanto meraviglioso che ha fatto emergere volontà di condivisione e comunione profonde. Il 7 maggio del 2000 ci fu al Colosseo una cerimonia di commemorazione dedicata ai martiri del XX secolo. In quell’occasione fu letta una parte del testamento di Christian de Chergé, il priore di Tibhirine. Erano presenti le famiglie e gli amici dei monaci che subito dopo si sono rivolti a monsignor Tessier, all’epoca arcivescovo di Algeri, per suggerirgli di introdurre la causa di beatificazione. Tessier ha subito raccolto l’invito e rivolto una domanda ufficiale a tutte le otto Congregazioni coinvolte (Trappisti, Domenicani, Maristi, Piccole Sorelle dell’Assunzione, Suore Agostiniane Missionarie, Padri Bianchi, Sorelle di Nostra Signora degli Apostoli, Piccole Sorelle del Sacro Cuore, ndr). Nella sua richiesta c’erano delle condizioni ben precise: che si facesse una causa comune per tutti e che si lavorasse in collaborazione. Tutti accettarono e dal 2002 si diede inizio agli incontri con i vari responsabili delle congregazioni. La direzione del processo fu affidata al fratello marista Giovanni Bigotto. Ci incontravamo più volte all’anno e le sessioni erano davvero complesse, non era facile trovare un accordo, non perché ci fossero divergenze, ma perché le difficoltà erano tante: alcune Congregazioni erano e sono presenti ancora in Algeria e temevano ripercussioni, altre avevano paura che le reazioni avrebbero compromesso il buon rapporto con la popolazione, insomma non era per niente facile. Mi preme però sottolineare quanto, alla fine, sia prevalsa una profonda comunione che ci ha permesso di trovare nel 2005 un pieno accordo anche grazie alla grande amicizia che nel frattempo si era sviluppata tra di noi».

Che senso ha per la Chiesa universale, per i cristiani immersi in mondi islamici, per il mondo così diviso questa beatificazione? 

«Intanto ritengo molto significativo il fatto che tutti e 19 fossero religiosi. Studiando per vari anni le biografie di tutti questi martiri, poi, abbiamo compreso quanto condividessero per amore disinteressato l’impegno e come volessero restare in Algeria fino alla fine per non tradire la gente. Io credo che loro siano tutti un simbolo potente che dimostra quanto la nostra fratellanza vada ben al di là di religione, condizione sociale, sesso, siamo fondamentalmente sorelle e fratelli. Il fatto che assieme a quei 19, sia stato ucciso un ventiduenne musulmano, che era perfettamente cosciente dei rischi che correva a essere un assistente del vescovo e che non lo ha mai abbandonato, dimostra ancora più decisamente quanto ho detto sopra. Non vogliamo poi dimenticare che quei 19 sono una piccola parte dei 200mila sterminati da una guerra civile spaventosa che ha fatto strame di bambini, donne, uomini. Speriamo che l’unico Dio che adoriamo abbia accolto i nostri 19 martiri e i poveri 200mila morti innocenti. Per noi la beatificazione ha anche questo significato».

Parlando dei suoi sette confratelli, la beatificazione, prima che alla morte, è un riconoscimento a una vita di comunione….

«Ho conosciuto la vita di tutti e 19 e sono rimasta molto colpita dall’umanità di tutti: splendide persone, umanissime, con difetti e capacità di superarli. Uomini e donne impegnati nel loro apostolato, nella vita contemplativa, ma sempre autentici e appassionati. Vivevano in condizioni dure in Algeria ma ci restavano con amicizia verso il popolo e senso del dovere, sentivano il desiderio di non andarsene nel momento del pericolo. I sette miei confratelli provenivano da diversi monasteri ed erano giunti a Tibihrine perché lì non c’erano più vocazioni. Avevano personalità molto forti che hanno scelto di mettere al servizio di una presenza molto significativa: la popolazione intera li percepiva come amici e difensori nel momento della guerra. Stavano in mezzo, anche fisicamente, alle avanzate dell’esercito o quelle dei ribelli e i civili facevano affidamento a loro per cercare protezione. Condividevano totalmente con gli abitanti della zona il lavoro nei campi e il ricavato in una forma di cooperativismo molto avanzata. C’era l’ambulatorio di Fratel Luke, medico, in cui, come ripeteva lui stesso, “si curava anche il diavolo”, cioè si accoglievano tutti, senza distinzioni. Ho saputo che vivevano anche piccole dispute legate al canto o su altri temi. Ma è meraviglioso che di fronte alla prospettiva della morte, ognuno di loro abbia fatto il percorso di discernimento e accettato di restare insieme sapendo benissimo cosa rischiasse. Quella drammatica attesa li ha talmente uniti da farne un simbolo: la prova che non solo individualmente ma una comunità può diventare martire, e, soprattutto, può raggiungere una pienezza umana, assieme». 

Il monastero di Tibhirine è stato riaperto?

«In realtà non è mai stato chiuso. C’è sempre stato un sacerdote di Algeri che manteneva i locali e gli orti oltre che la memoria dei monaci. La gente del luogo ha chiesto ripetutamente che si ricostituisse una comunità trappista, ma non è possibile: per andare al monastero c’è bisogno di un permesso con una scorta di poliziotti. Al momento, però, vivono nel monastero quattro membri della comunità di Chemin Neuf che perpetuano la memoria dei monaci e mantengono vivo il legame con la popolazione».

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