La piccola comunità cattolica in Mongolia veglia il suo vescovo Wenceslao Padilla, il 68enne prefetto apostolico, di nazionalità filippina, morto di infarto a Ulanbator, e si prepara a cogliere gli insegnamenti di un pioniere della missione che ha dedicato 26 anni a far germogliare pazientemente il seme del Vangelo nella terra di Gengis Khan, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico e il primo governo democratico.

La comunità cattolica mongola, circa 1.300 fedeli divisi in sei parrocchie, è in questi giorni riunita in preghiera nella cattedrale di San Pietro e Paolo, chiesa edificata nel 2003 proprio grazie all’impegno di Padilla, per una novena di preghiera che accompagnerà il defunto fino al funerale che, secondo usi e costumi locali, sarà celebrato domenica 14 ottobre.

Un messaggio ufficiale trasmesso dalla Chiesa in Mongolia, guidata ora dal missionario italiano Ernesto Viscardi, ricorda che «Padilla fino al suo ultimo respiro ha dedicato la sua vita, con tutto il cuore, al servizio del popolo mongolo. La sua allegria e la sua umiltà saranno sempre nei nostri cuori».

Padilla era giunto nella terra di Gengis Khan con altri due confratelli della Congregazione dell’Immacolato Cuore di Maria (Cicm), l’ordine religioso di cui era membro, detto anche dei “Missionari di Scheut” (località del Belgio dove fu fondato nel 1862, ndr). Con loro ha sommessamente avviato le attività pastorali e sociali che hanno pian piano accompagnato la crescita della comunità cattolica in Mongolia, fino al simbolico evento del 2016: l’ordinazione sacerdotale del primo prete nativo, Joseph Enkh.

La rinascita della Chiesa cattolica in Mongolia fu possibile a partire dal 1992, poco dopo che il Governo aveva instaurato rapporti diplomatici con il Vaticano. I missionari iniziarono letteralmente da zero: non c’erano chiese, nè conventi e nessun fedele cattolico nativo, «in una terra di cavalli, nomadi e del cielo azzurro», ricordano. Gli unici cattolici presenti erano una manciata di espatriati impiegati in agenzie internazionali o nelle ambasciate. Iniziò allora un “ministero porta a porta”, celebrando l’Eucaristia in casa e andando avanti con il passaparola tra colleghi amici e poi, finalmente, con alcuni mongoli.

D’altro canto i missionari avviarono una serie di opere sociali che contribuirono a rivelare il volto della Chiesa alla società mongola. Negli anni ’90, notando che molti bambini di strada vagavano nella capitale – la fine dell’Unione sovietica aveva provocato turbolenze economiche – iniziarono ad avvicinarli in maniera amichevole, visitarono le fogne dove passavano le notti (per sopravvivere al rigido inverno), infine li accolsero in una struttura loro dedicata.

Quel servizio del tutto disinteressato generò l’aiuto di alcuni volontari che iniziarono a chiedere informazioni sul cattolicesimo. Col passare del tempo, la Chiesa si è impegnata a offrire istruzione e altri servizi sociali, grazie al contributo di altre Congregazioni religiose giunte in Mongolia.

Venticinque anni dopo, in Mongolia ci sono oltre 70 missionari di circa venti Paesi, in rappresentanza di altrettanti istituti maschili e femminili. Tra loro, le Missionarie della Carità hanno avviato case per anziani, orfani, ammalati e moribonde, mentre le Suore di San Paul de Chartres gestiscono alcuni tra i migliori asili e centri di assistenza sanitaria, in primis a beneficio di quanti non hanno accesso all’istruzione e ai servizi medici di base.

Fermi restando i disagi legati alle rigide temperature e le difficoltà di apprendere la lingua, con i suoi difficili suoni gutturali e l’uso dell’alfabeto cirillico, tra le sfide odierne vi è la povertà che porta con sé una serie di problemi come disoccupazione, alcolismo e abusi domestici. La missione della Chiesa si concentra tuttora sulle comunità più povere e questo la rende ancora dipendente economicamente dal mondo esterno. Padilla non perdeva occasione per riconoscere la generosità delle Chiese nei Paesi sviluppati (in particolare la Chiesa coreana), necessaria per reperire le risorse e sostenere i progetti pastorali e sociali.

Inoltre, a livello di status legale, la Chiesa è riconosciuta come “Ong straniera”, ed è dunque vincolata da regolamenti governativi riguardo alle attività e soprattutto al personale. Ad esempio, una norma impone che, per ogni missionario che entra nel Paese, la Chiesa debba impiegare un certo numero di mongoli locali. Questa regola implica un esborso notevole per mantenere ogni singolo missionario perché, con lui, occorre garantire posti di lavoro destinati a cittadini mongoli.

La celebrazione giubilare è stata per la Chiesa mongola un prezioso momento di consapevolezza. A luglio del 2017, a 25 anni della rinascita del Vangelo in Mongolia e 25 anni dall’allaccio delle relazioni diplomatiche tra Mongolia e Santa Sede, il “Giubileo d’argento” fu celebrato solennemente con una santa Messa nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Ulanbator .

Allora il vescovo Wenceslao Padilla, con commozione esclamò: «A questo punto, posso veramente dire, e voglio gridare al mondo, le parole del profeta Isaia: celebrate il Signore, proclamate che il Suo nome è grande e sia esaltato (Isaia 12,4). Il Dio dei nostri padri è stato veramente ricco di grazia, ha protetto e guidato ogni passo della nostra piccola comunità di credenti in Mongolia». Una comunità gradualmente radicatasi e rafforzatasi, che oggi è in cammino per trovare sempre più «un volto veramente mongolo».

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