Era «ben riconoscibile» già dalla famosa Nota di Pace di Benedetto XV del 1° agosto 1917 quale fosse la visione pontificia di una nuova sistemazione europea durante la Prima Guerra mondiale: «il rispetto della giustizia e dell’equità nei rapporti fra gli Stati e i popoli, la rinuncia alle compensazioni reciproche, il rispetto del naturale principio di nazionalità e delle legittime aspirazioni dei popoli, il giusto accesso ai beni materiali e alle vie di comunicazione a tutti, la riduzione degli armamenti, l’arbitrato come strumento pacifico di risoluzione dei conflitti». A cent’anni dalla fine della Grande Guerra, quella che proprio Papa Giacomo Della Chiesa classificò come «una inutile strage», il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, riflette sulle sfide della diplomazia vaticana dopo la Prima Guerra mondiale e sulle conseguenze dei trattati di pace, tuttora presenti in «realtà dolorose» dello scenario europeo e medio orientale. Siria, Libano, Palestina, Transgiordania, Iraq, giusto per citarne alcuni.

Su questi temi si concentra il convegno “Santa Sede e cattolici nel mondo postbellico (1918-1922)” che, organizzato dal Pontificio Comitato di Scienze storiche, si è aperto oggi pomeriggio alla Pontificia Università Lateranense per poi concludersi, il 16 novembre, presso l’Ambasciata di Ungheria. Nel suo intervento in apertura dei lavori, Parolin ha ricordato ai partecipanti - in gran parte studiosi provenienti da atenei di Italia, Francia, Belgio, Ungheria, Slovacchia, Russia, Polonia e America Latina - quale atteggiamento il Papa allora regnante, «Pontefice di straordinarie doti intellettuali e umane rimasto a torto per decenni all’ombra dei suoi successori più noti e solo negli ultimi anni debitamente riscoperto dagli storici», assunse di fronte a quel conflitto. Il primo conflitto di dimensioni mondiali e di carattere totale, che segnò per l’Europa e per il mondo un decisivo punto di svolta, se non «la fine di un’epoca».

«Significativamente - ha sottolineato il cardinale - il Pontefice preferì, anziché di giustizia, parlare di equità, ossia della giustizia animata dalla carità cristiana, facendo appello al fondamentale precetto evangelico dell’amore del prossimo e del perdono delle offese, ma anche a quello politico dell’impossibilità di realizzare richieste massimaliste che non erano in grado di assicurare la convivenza umana e minacciavano di suscitare, una volta ripresosi l’avversario, reazioni rovinose per la pace e per gli stessi vincitori di ieri».

Il monito di Benedetto XV ai vincitori «perché non abusassero della loro forza del momento indicava anche i limiti entro i quali la Santa Sede avrebbe approvato i trattati di pace: erano benvenuti perché sanzionavano la cessazione delle ostilità e aprivano le possibilità di rinnovata collaborazione tra i popoli, ma accettati con perplessità e critica, quando la pace rimaneva sulla carta anziché nei cuori degli uomini e le esigenze della carità cristiana non erano soddisfatte».

«L’attiva opera di mediazione e di pace svolta dalla diplomazia pontificia durante e dopo il conflitto e l’ampissima azione umanitaria continuata anche dopo l’armistizio in modo talmente generoso da svuotare le casse pontificie fino a costringere i cardinali ad assumersi un credito per poter seppellire dignitosamente il grande Pontefice ligure scomparso, furono espressioni del nuovo ruolo internazionale del Papato come autorità morale, pacificatrice e avvocata non soltanto dei propri credenti, ma dell’uomo in generale e di tutti i valori umani naturali», ha spiegato Parolin.

Un simile dualismo contrassegnò anche la valutazione della neonata Società delle Nazioni. «Il suo carattere universale e il suo scopo di tutelare la pace assomigliavano fin troppo alle proposte dello stesso Benedetto XV (il disarmo, la sicurezza collettiva, l’arbitrato obbligatorio) per non attirare la sua benevolenza, così come il suo carattere liberal-laicista radicato nell’ideologia dell’umanitarismo laico, gli influssi della massoneria internazionale che subiva e l’esclusione del Pontefice da questo organo internazionale, non potevano non suscitare riserve e distanze, non impedendo comunque ai diplomatici papali di sostenere singole iniziative volte a buon fine», ha spiegato Parolin.

Non meno drammatiche furono «le sfide procurate dalla rivoluzione bolscevica in Russia che spazzò via il governo zarista con la sua persecutoria ostilità nei confronti della Chiesa cattolica, sostituendolo, dopo una breve fase di aspettative ottimiste nel Palazzo apostolico, da un regime oppressivo e nemico della legge divina e naturale mai conosciuto prima». Poi, quando il regime sovietico si rivelò «sorprendentemente durevole» e la situazione dei cattolici entro i suoi confini «sempre più drammatica», e quando persino il regime sovietico, mosso dal bisogno di consolidamento, «scoprì i vantaggi politici del riconoscimento diplomatico» del Papa, «la diplomazia vaticana non ebbe il timore nemmeno di entrare in contatto con i rivoluzionari bolscevichi in frac e iniziare delle trattative diplomatiche per assicurare la sopravvivenza al cattolicesimo nell’Unione Sovietica», ha ricordato il cardinale.

Le trattative fallirono, ma «la Santa Sede riuscì almeno a inviare nell’Unione Sovietica un’imponente missione caritativa, contribuendo in tale modo a salvare migliaia di vite umane. Il cristianesimo in Russia e nell’Unione Sovietica rimase comunque una delle preoccupazioni maggiori di tutti i Pontefici del travagliato XX secolo».

Tuttavia, nonostante le difficoltà e la continuazione della «situazione di inferiorità diplomatica legata all’irrisolta Questione Romana (la controversia dibattuta durante il Risorgimento sul ruolo di Roma, sede del potere temporale del Papa ma, al tempo stesso, capitale del Regno d’Italia, ndr)», e nonostante «la guerra e gli sviluppi immediatamente postbellici», aumentarono «il rispetto e il prestigio di cui godeva il Papato e la sua diplomazia e rafforzarono le sue posizioni sullo scacchiere internazionale».

Parolin concretizza le sue parole in termini aritmetici: «Mentre all’inizio del pontificato, nel settembre 1914, la Santa Sede aveva relazioni con solo 17 Stati, prima della morte di Papa Della Chiesa, nel gennaio 1922 il numero dei partner diplomatici salì a 27, tra cui non soltanto i nuovi Stati che sentivano il bisogno del sostegno del sovrano più antico e dell’autorità morale del Papa, ma anche le grandi potenze staccatesi prima della guerra dai rapporti con il Papa come la Francia o la Gran Bretagna, oppure la Repubblica di Weimer, che abbandonò il vecchio sistema in cui gli Stati di Prussia e di Baviera mantenevano propri rappresentanti a Roma e ospitavano i nunzi sul proprio territorio, e allacciò i rapporti diplomatici a livello centrale».

Insomma, ha concluso Parolin, «di nuovo divenne evidente che, nonostante tutte le nubi all’orizzonte, il Signore non cessava di assistere la Sua Chiesa». Vale la pena in tal senso ricordare le parole con cui sempre Benedetto XV rispose al suo amico Valfrè di Bonzo, nunzio a Vienna, spaventato per gli eventi dell’autunno 1918, gli scrisse una lettera piena di ansia: «...gli uomini dicono che tutto dipende dagli avvenimenti, io dico, che siamo nelle mani di Dio: e non vorrà Ella soggiungere che “siamo in buone mani”?».

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