Poche settimane fa si è tenuto un commovente convegno in questa sala, dove la Società Dante Alighieri ha ricordato l’espulsione dei soci ebrei nel 1938, l’ha revocata, ponendo una lapide e dando lo statuto di soci ai loro discendenti. Sono stato molto soddisfatto dell’evento. A ottant’anni dalle leggi razziali, istituzioni e realtà italiane si vanno interrogando su come abbiano vissuto quelle dolorose vicende. Lo scopo del convegno – e ringrazio il cardinale Bassetti per la presenza e le parole - è interrogarsi sulla Chiesa italiana: la Santa Sede che gestiva la leadership del cattolicesimo italiano in assenza di Conferenza episcopale, i vescovi, il popolo cattolico, le associazioni e le parrocchie.

Era un mondo complesso, organico e stratificato, segnato da differenziazioni profonde, immerso nella società. La Chiesa aveva una posizione particolare nell’Italia fascista, nonostante la privazione della libertà e la pressione propagandistica, perché era un corpo autonomo, garantito dai Patti del Laterano e dall’affezione del popolo. Nel corpo autonomo della Chiesa, pur infiltrato da idee e propaganda del fascismo, circolavano convinzioni, presupposti diversi, mentre il papa era il grande riferimento, fuori dall’orizzonte di una nazione fascistizzata. La Chiesa era (relativamente) lo spazio più libero nell’Italia fascista.

Da tanti anni, sulla scia dello studio dei Patti Lateranensi – penso a Pietro Scoppola -, almeno dagli anni Settanta, si è identificata l’aspettativa della Chiesa di una restaurazione dello Stato cattolico, nutrita da Pio XI, che avrebbe messo tra parentesi il divorzio risorgimentale. Tanti hanno notato come la guerra di Etiopia nel 1935-1936 fu il culmine dell’aspettativa, espressa da un vasto consenso episcopale e cattolico, amplificato dalla propaganda. Vorrei solo ricordare la contrarietà di Pio XI all’invasione di uno Stato indipendente, l’Etiopia, membro della Società delle Nazioni, anche impastoiata nella tele di prudenze e relazioni vaticane con il regime.

Non è questo il nostro tema e Lucia Ceci parlerà del razzismo coloniale in Africa. Nel 1937 il decreto Lessona, percepito dalla gran parte della gerarchia come un provvedimento per moralizzare i rapporti tra italiani e africane, poneva le promesse della politica di difesa della “razza italiana” in Africa. Lo aveva percepito, fin dagli anni Sessanta, Luigi Preti, mostrando il legame reale tra il razzismo antiafricano e antisemitismo.

Quel che mi preme sottolineare è la visione dell’Etiopia e del cristianesimo etiopico, consolidatasi anche tra i cattolici identificati nell’impresa “liberatrice” italiana. Mi hanno sempre colpito le parole del cardinale Schuster che, nel 1935, in Duomo, celebrando la «guerra che reca il trionfo della croce di Cristo, spezza le catene, spiana le strade ai missionari del Vangelo… a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla Fede cattolica e alla Civiltà romana». Schuster era stato uno dei grandi sostenitori della cattolicizzazione del fascismo. Ma poteva il dotto cardinale benedettino, che avrebbe ripudiato con forza nel 1938 l’antisemitismo, ignorare che la croce stava da più di un millennio in Etiopia e che la Chiesa etiopica, ricca di spiritualità, aveva resistito all’islam in una condizione d’isolamento?

Il consenso all’impresa oscurò il fatto che buona parte degli etiopi erano cristiani. C’era un insegnamento del disprezzo verso la condizione di eretici e scismatici e la miseria del loro monachesimo. Questo risulta anche dalle corrispondenze dei missionari. Tanto che, nel 1937, quando si abbatté durissima la repressione ad Addis Abeba per l’attentato al viceré Graziani (circa 19mila uccisi), un vero pogrom contro gli etiopi, non ci furono reazioni negative. In realtà, dalla guerra di Etiopia, anche per la propaganda fascista e la forte presenza del partito, si ha una crescita di aggressività nell’attitudine degli italiani specie in Africa.

Un caso è impressionante: la strage nel più grande e sacro monastero etiope, Debre Libanos, a non molti chilometri da Addis Abeba. Scrive Angelo Del Boca: «Mai nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni». Furono uccise dalle truppe coloniali italiane – soprattutto di origine musulmana - ben 2mila persone tra monaci, novizi, diaconi, pellegrini, disabili, sotto la guida del generale Maletti e per ordine di Graziani, che se ne assunse la responsabilità, con una tecnica che ricorda le stragi naziste degli ebrei nell’Est Europa.

I monaci e i cristiani etiopi non erano considerati cristiani, tanto da non meritare commenti dei missionari in loco né indignazione altrove. Una resistenza a ricordare il massacro si è palesata anche per gli ottant’anni, nel 2017, quando il Ministero della Difesa fece cadere la proposta di una ricerca storica. È il tipico processo di disumanizzazione del nemico, operata non solo dall’assenza di senso ecumenico dei cristiani, ma dalla propaganda fascista che in quegli anni raggiunge un apice di violenza. Non c’è certo paragone tra il rapporto piuttosto rispettoso dei soldati dell’Armir nella Seconda Guerra mondiale verso le popolazioni ucraine e la loro religione rispetto a quelli in Etiopia.

Il 1938 è un anno difficile. Per la Chiesa, si registra l’allontanamento del fascismo dal modello di Stato cattolico, mentre si consolida un’altra personalità del regime, totalitaria e statolatrica, come De Felice ha notato anni fa. E il razzismo e l’antisemitismo fanno parte dell’inveramento del regime nella costruzione dell’uomo nuovo. Con la legislazione razzista il fascismo assume un profilo altro dallo Stato cattolico, tanto da resistere alla deroga per gli ebrei convertiti al cattolicesimo. Inizia, nel 1938, in modo tutt’altro che rettilineo, il processo di disaffezione cattolica che, come ho notato tanti anni fa, conosce ritorni, ripensamenti, incertezze, distacchi, in un movimento non rettilineo e non guidato dall’alto. Del resto, con l’accordo di Monaco, nel 1938, il prestigio di Mussolini era alto tra cattolici: «L’Italia è fiera –aveva detto Schuster - che il suo Duce abbia portato a Monaco un contributo decisivo per la pace mondiale». Gli informatori confermano il consenso tra i cattolici al duce per Monaco.

Per provare a rispondere quale fu l’atteggiamento cattolico è più facile soffermarsi sui vertici vaticani e episcopali, che analizzare il mondo dei cattolici. Gli studi non mancano e l’apertura degli archivi vaticani su Pio XI ha fornito qualche elemento in più. Tuttavia resta più difficile cogliere gli orientamenti dell’opinione popolare cattolica. Concordo con Valeria Galimi che, oltre le fasce della popolazione marcate in senso positivo o negativo, ci sono fluttuazioni negli atteggiamenti, disinteresse, condivisione, fastidio, come emerge dalle analisi delle carte delle istituzioni statali o degli informatori. Anche perché gli ebrei erano appena l’uno per mille della popolazione e tanto dell’atteggiamento sulle leggi razziali dipendeva se si aveva un contatto con loro. Ci troviamo – non dimentichiamolo - in un regime che aveva imbavagliato la stampa, tanto che viene impedito ai giornali cattolici di pubblicare le parole del Papa sul razzismo.

In questo quadro, emergono diverse linee di preoccupazione in Vaticano, su cui spicca – ma non s’impone del tutto- quella di Pio XI, che nel tornante finale del pontificato, matura una posizione più “profetica”, per usare un’espressione impropria, che politica. E, per certi aspetti, questa posizione lascia fluttuare le cose in Vaticano. Il papa guarda il quadrante europeo. Il 1938 è un anno terribile per gli ebrei, non solo in Italia, ma per il pogrom in Germania nella notte tra il 9 e il 10 novembre e il diffondersi delle misure antisemite: in Polonia si ritira la cittadinanza agli espatriati da più di cinque anni (in gran parte ebrei), in Romania sono presi provvedimenti antisemiti sotto l’influenza del governo della Guardia di Ferro di Codreanu, come in Ungheria, nonostante il trionfale congresso eucaristico, cui aveva preso parte come legato pontificio il cardinale Pacelli.

Pio XI misura le conseguenze: un problema di vita e di morte per gli ebrei, ma anche una questione grave per la Chiesa. Gli ebrei sentono stringersi una morsa attorno a loro e guardano alla Palestina e agli Stati Uniti. Il presidente Roosevelt nel luglio 1938, per affrontare l’emigrazione ebraica dalla Germania, convoca una conferenza ad Evian. La dirige Myron Taylor, che diviene in breve rappresentante del presidente presso Pio XI e Pio XII. I paesi partecipanti esprimono simpatia per gli ebrei, ma fanno presenti le difficoltà: la Francia si dice piena come la Gran Bretagna, mentre l’Australia dichiara di non avere problemi razziali e di non volerseli creare. Emergere l’isolamento dell’ebraismo europeo, tra contrastanti interessi, che finisce per interpellare la Chiesa, specie con la guerra.

Non ricordo le dichiarazioni contro l’antisemitismo di Pio XI, ma solo una, studiata da molti, tra cui attentamente da Gabriele Rigano. A Castelgandolfo, nel settembre 1938, i cattolici belgi offrono un Messale a Pio XI. Quando lo sfoglia e legge le parole del canone della Messa, in particolare «sacrificium patriarchae nostri Abrahmae», commenta con voce commossa: «Sacrificio di Abele, sacrificio di Abramo, sacrificio di Melchisedek. In tre tratti, in tre linee, in tre passi, tutta la storia religiosa dell’umanità. Sacrificio di Abele: l’epoca adamitica. Sacrificio di Melchidek: l’annuncio della religione e l’epoca cristiana… Sacrificium patrirchai nostri Abrahae. Notate che Abramo è chiamato nostro patriarca, nostro antenato. L’antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi che sono espresse in questo testo. È un movimento antipatico, al quale non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte… Per Cristo e in Cristo, noi siamo discendenza di Abramo. No, non è possibile ai cristiani partecipare all’antisemitismo. Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi, di utilizzare i mezzi per proteggersi contro tutto quanto minaccia i propri interessi legittimi. Ma l’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti».

Non voglio ripercorrere la diffusione di questo testo, ma notare che il «siamo spiritualmente semiti» sancisce il semitismo del cristianesimo. Per Pio XI strappare la fede cattolica dalla radici ebraiche e orientali è farne un’altra cosa, prigioniera della civiltà e dello Stato europeo. Lo aveva colto l’abate Ricciotti, che scriveva: «Ora, che Ebraismo e Cristianesimo siano due tronchi provenienti da uno stesso ceppo, è un fatto storico indiscutibile… Chi scalza il ceppo comune viene insieme ad abbattere i due tronchi, né si può abbattere l’intero Ebraismo senza abbattere una parte anche del Cristianesimo» . Già dal 1926, il Papa aveva affermato, nella condanna dell’Action Française del 1926 e di Maurras, l’inaccettabilità di un cattolicesimo nazionale, non cristiano e non fondato su radici ebraiche.

Nella seconda metà degli anni Trenta, s’impone il mondo tedesco. La strada era stata aperta con il grande studioso tedesco, Harnack, la cui visione del cristianesimo, con il distacco dall’ebraismo e gli studi su Marcione era giudicata non ortodossa da cattolici e protestanti. Ma era cresciuto con il nazismo il movimento di epurazione del cristianesimo dall’eredità biblica, dall’ebreo Paolo, fino alla creazione di Gesù ariano. I fini studi Harnack (un cui figlio fu impiccato dal nazismo nel 1944) s’incrociano con le manipolazioni del nazismo. Del resto lo scontro con il nazismo è duro negli ultimi anni di Pio XI. Lo si vede da L’Osservatore Romano che denuncia le persecuzioni religiose in Germania. La crescente forza della Germania nazista agisce da catalizzatore per i vari processi di radicalizzazione in Europa, mentre l’avvicinamento italotedesco inquieta il Vaticano.

L’Italia fascista è importante per Pio XI, ma lo è anche un quadro europeo: se il cristianesimo si nazionalizza, staccandosi dalle radici semitiche e orientali, diventa un’altra cosa. È quanto vuole il nazismo con i cristiani tedeschi, con il Gesù ariano. Pio XI parla di «vera apostasia». Intanto cresce un’interessante produzione su Gesù ebreo, sia tra cattolici (si pensi solo a Ricciotti), che nel mondo ebraico con Baeck o Zolli.

L’Italia può cedere a una nazionalizzazione del cristianesimo? Una produzione su Gesù ariano fa breccia anche qui con articoli sulla rivista Il Tevere e su La Difesa della Razza di Interlandi. C’è una produzione cattolica e antisemita, sul genere di Cristo e Quirino di Paolo Orano fino all’articolo di Farinacci Dio contro Jahvé, una volgarizzazione estrema. Se Orano non si spinse mai ad affermare che Gesù fosse ariano; ma nel 1937 dichiarò la non ebraicità di Gesù, in quanto «il Divin Fanciullo non è figliolanza di un uomo mortale, dunque non di un ebreo, ma dell’atto divino». Del resto Mussolini aveva detto a Ciano nel 1938: «Basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l’anticlericalismo di questo popolo, il quale ha dovuto faticare non poco a ingurgitare un Dio ebreo». Mi ripete la sua teoria di cattolicesimo-paganizzazione del cristianesimo. «Per questo io sono cattolico e anticristiano». Non si tratta solo di esagerazioni del duce, ma di un pensiero più diffuso tra nazionalisti, che egli aveva espresso già nel discorso per la ratifica dei Patti del Laterano.

La polemica fascista ricorda alla Chiesa il suo antigiudaismo storico e le chiede con quale coerenza si opponga all’antisemitismo. Su questo giocava la propaganda di Farinacci che scriveva: «Se siamo antisemiti lo dobbiamo all’insegnamento della Chiesa». Pio XI non è interessato a ribadire la coerenza con l’antigiudaismo storico. Lo sono altri cattolici, più permeabili all’antisemitismo fascista, almeno per evitare conflitti, come La Civiltà Cattolica (fino alle posizioni estreme di Angelo Brucculeri favorevole al Manifesto sulla razza, non condivise dagli scrittori della rivista). Gli antimodernisti sono antisemiti: nel 1921 monsignor Benigni aveva pubblicato in italiano I Protocolli dei savi di Sion.

Rilevanti sono le posizioni del generale dei gesuiti, Ledóchowski, si rifacevano piuttosto alla posizione maggioritaria dei cattolici polacchi, tendenzialmente antisemita, ferma nell’anticomunismo fino a notare la presenza ebraica nel movimento rivoluzionario. È una sensibilità lontana dal filone filosemita minoritario, che si ritrova nel cardinale Saphiea di Cracovia, maestro di Wojtyla. Il generale dei gesuiti avrebbe avuto un ruolo nel bloccare l’enciclica Humani generis unitas, chiesta da Pio XI direttamente al gesuita americano LaFarge, esperto di segregazionismo e poi divenuto amico di Martin Luther King. Al di là dei miti della “enciclica scomparsa”, resta il problema di perché il testo non sia stato pubblicato.

L’Università Cattolica di Milano, con padre Gemelli, è in una linea conciliante con il regime. È interessante il successo del libro dello scrittore inglese Belloc, Gli Ebrei, pubblicato dall’ateneo cattolico, che prevedeva – a difesa della società - quasi uno sviluppo separato della “razza” ebraica: «È inevitabile che i suoi scopi – scrive - vengano a trovarsi in maggior o minor contrasto con quelli sacri ai suoi ospiti…”. È la tesi della legittima difesa dell’interesse nazionale dagli ebrei, accettata in vari settori cattolici. Il cardinale Piazza di Venezia, pur condannando il razzismo, giustificò la difesa della purezza della razza. Monsignor Cazzani di Cremona fu l’unico vescovo a fare una pastorale sulla questione ebraica, condannando il razzismo tedesco, difendendo l’antigiudaismo cattolico e le leggi razziste italiane. Farinacci attribuisce il testo alle sue pressioni. Don Mazzolari così scriveva al suo vescovo di Cremona (che poi lo avrebbe anche difeso presso il Sant’Offizio): “…nel vostro magistrale discorso vi siano parole e toni un po’ crudi nei riguardi degli ebrei e dei loro torti… Il popolo messianico ha un suo mistero e ogni tentativo d’interpretazione oltre che molto soggettivo, rischia, in tempi come i nostri, di riuscire pericoloso e alquanto inumano… Domani faremo la storia, oggi facciamo la carità e la giustizia. Il Papa, senza giudicare, ha dichiarato ai jocisti del Belgio ch’egli “si sente spiritualmente semita”. Sono posizioni eccessive, lo riconosco, ma la carità è sempre un po’ eccessiva”».

Si vedono le sensibilità, legate all’eredità dell’antigiudaismo cattolico, legato all’accusa di deicidio, al mito della maledizione dell’ebreo errante, alla teologia della sostituzione e altro. Circolano tra il clero e il popolo, ma altre preoccupazioni finiscono per secondarizzarle, anche se mai del tutto. Non mi occupo del tessuto diplomatico tra Vaticano e Palazzo Venezia nel 1938, in cui con i gerarchi fascisti, si affolla chi cerca di salvare il salvabile, come i Patti del Laterano: il gesuita Tacchi Venturi, il nunzio Borgongini Duca, Ciano e altri. Si passa tra crisi, modus vivendi, smentite, di cui vari hanno fatto l’analisi. La realtà è che siamo fuori dal sogno del fascismo come regime cattolico, ma ormai si lotta per sopravvivere e evitare un fascismo anticristiano. Se Mussolini “tira dritto” sull’antisemitismo come aveva detto, è capace di attenuazioni come quando, poco dopo il discorso antisemita di Trieste del 18 settembre, dice al vescovo Santin sulla porta di San Giusto di non aver di mira il Papa, che si colloca su di un piano religioso, ripetendo la commedia tra Chiesa e Mussolini durata quasi un ventennio.

Papa Ratti non è estraneo al lavorio diplomatico tra Vaticano e Palazzo Venezia, a rinunce e difese: sono anni che studiamo questi interessanti passaggi, rivelatori anche di come in Curia non si fosse capita la portata sradicatrice dell’antisemitismo. Pio XI, pur non rinunciano al governo, mi sembra guardare a un grand dessein al di là del quotidiano e dell’Italia, convinto che la partita è appena all’inizio tra quello che chiama il “nazionalismo eccessivo”, con il suo seguito di razzismo, odio e antisemitismo, e la visione dell’unità del genere umano che il cattolicesimo propone («Una sola grande famiglia universale umana», diceva).

È la smentita del nazionalcattolicesimo: il primato della nazione sul cattolicesimo e l’universalismo. C’erano rischi in questo senso nell’Ungheria del reggente Horthy e del primate cardinale Séredi (che aveva votato alla Camera alta le leggi antisemite, ma avrebbe accolto gli ebrei polacchi e si sarebbe misurato con i nazisti); o nel neocattolicesimo fascista in Italia; o nella Spagna di Franco o nel Portogallo di Salazar o nella Slovacchia di monsignor Tiso; o in Polonia, specie dopo la morte del maresciallo Pilsuski, amico degli ebrei, e alla presenza di un primate abbastanza antisemita come il cardinale Hlond (che ebbe espressioni severe verso gli ebrei anche dopo la seconda guerra mondiale). C’erano poi i cattolici tradizionali francesi, gli eredi dell’Action Française…

Siamo troppo convinti che la Chiesa sia una realtà piramidale e coesa, in cui le mediazioni degli episcopati, i sentimenti dei popoli, le stratificazioni di mentalità o di formazione non abbiano un valore frenante o di opposizione o talvolta trainante. Un’immagine della Chiesa monolite ha oscurato una realtà complessa e diversificata che lo storico scopre, anche se il monolite è comodo a una storiografia superficiale, giustiziera o apologetica.

Un Papa autorevole, definito autoritario, come Pio XI, si trova di fronte un panorama in cui i segmenti del cattolicesimo conoscono l’attrazione dei processi nazionali. La sua scelta, negli ultimi anni Trenta, è un messaggio forte sul nazionalismo e l’antisemitismo, definiti nuovi idoli della modernità con il comunismo, tesa a bloccare la fascinazione di queste dottrine sui cattolici. Il problema è evitare il conflitto, non isolare gli ebrei, scongiurare il fatto che le Chiese cattoliche assumano atteggiamenti che egli considera un vulnus alla loro identità. Quello che lo angoscia gli ultimi mesi di vita, la sua ultima battaglia com’è stata definita, non è tanto il vulnus al concordato, ma all’identità cattolica, che si voleva desemitizzare, trasformandola in un culto dai tratti nazionali, teutonico in Germania, latino imperiale in Italia. Qui anche l’affermazione del primato della romanità cattolico su quella fascista.

In questo quadro, come spesso nella storia del papato, l’Italia, “giardino della Chiesa”, ha un’importanza strategica. Pio XI non parla però solo per l’Italia. L’Osservatore Romano, che arrivò a 150mila copie, come ha evidenziato De Cesaris, fu essenziale – nonostante le limitazioni imposte dal regime - per comunicare all’opinione mondiale il pensiero del Papa. Un caso analogo, in una situazione molto diversa, avvenne con la guerra del Golfo, quando il messaggio di pace di Giovanni Paolo II fu talmente interpretato da essere mutilato. Ebbene, L’Osservatore di Agnes fece da comunicatore senza riduzioni.

Significativi sono gli interventi dei cardinali europei che non lasciano solo il Papa. A Milano, Schuster, che aveva appoggiato la cattolicizzazione del fascismo (ma da uomo di grande cultura aveva sostenuto anche gli Amici di Israele), da vero cattolico romano, sa che il punto decisivo non è difendere la coerenza di una politica, ma stare con il Papa. Nel 1938, solennemente e più volte, condanna l’«insorgente eresia – anticristiana e antiromana - del mito nordico razziale». Utilizza la chiave della romanità, codice ideologico dell’inveramento cattolico del fascismo, per criticare il mito germanico razzista. Continua con chiarezza nel gennaio 1939 al sinodo minore ambrosiano. Con la locuzione «razzismo» si condannano il nazionalismo e l’antisemitismo, ma anche il bellicismo degli Stati europei.

È significativa la geografia di chi rilancia il messaggio di Pio XI. Il cardinale Cerejera, patriarca di Lisbona, intimo del dittatore Salazar, condanna «il mito della razza», mettendo sullo stesso piano il comunismo ateo e il nazismo più insidioso che fa della nazione una religione. Questo caveat del primate portoghese è importante in un paese retto da un regime di un dittatore. Non ci sono simili interventi nella Spagna di Franco, che consolida il suo potere nell’aprile 1939 con l’aiuto italiano e tedesco. Il primate del Belgio, cardinale Van Roey, ostile al movimento rexista di Degrelle, una specie di fascismo cattolico, e il cardinale Verdier, arcivescovo di Parigi parlano nello stesso senso. I loro interventi sono rilanciati da L’Osservatore Romano. Dice Verdier: «L’umanità sarebbe dunque una jungla dove solo i più forti hanno diritto di sopravvivere?».

La Chiesa cattolica si era misurata con il nazionalismo ottonovecentesco, pur tra aspri conflitti, ma qui – a partire dalla razza - si concretizza l’«eresia» della nazione, capace di inglobare e ridurre il cattolicesimo a religione di servizio. La preoccupazione è sulla fragilità dei cattolici di fronte alla propaganda razzista e nazionalista. In una nota della Segreteria di Stato s’insiste perché sia data istruzione ai vescovi di impedire al clero l’abbonamento a La Difesa della Razza, come era avvenuto da parte del cappellano maggiore della Real Casa.

Bisogna che i vescovi insistano con il clero, «con la dovuta prudenza», «sui danni e le conseguenze del nazionalismo esagerato». Il clero, «non sempre alla dovuta altezza in quanto a formazione culturale e dottrinale», deve evitare di assorbire «inconsciamente quel cumulo di errori e di eresie che spesso si trovano sui quotidiani fascisti…». Si corre il rischio che i preti, in mezzo al popolo, «insulsamente» si schierino con la propaganda. Questa è la coscienza che si ha in Vaticano della capacità di tenuta d’una parte del clero di fronte alle passioni nazionaliste e al razzismo. Le otto tesi condannate dalla Congregazione dei seminari (tra cui: « Religio legi stirpis eique aptanda est; fons primus et summa regula universi ordinis iuridici est instinctus stirpis…») e comunicate alle università e facoltà cattoliche nell’aprile 1938 mostrano come si voglia fare muro culturale contro la nazionalizzazione delle coscienze, negativa in sé e lesiva per la Chiesa. Il testo è chiesto a monsignor Ruffini della Congregazione dei seminari dal cardinale Sbarretti, del Sant’Offizio, perché si respingano le idee tedesche, tramite l’insegnamento, i libri e le conferenze. Pio XI e Pacelli approvano.

Monsignor Tardini, che si occupava delle questioni internazionali, conferma che gli ultimi mesi di Pio XI sono, in larga parte, assorbiti dai problemi del nazionalismo e del razzismo. Tanti interventi del papa avrebbero avuto la necessità di essere rilanciati organicamente da un’enciclica: Pio XI l’aveva chiesta a LaFarge. Nel testo redatto non mancava, pur in un quadro di tradizionale antigiudaismo, la condanna della persecuzione antisemita, della segregazione degli afroamericani, del nazionalismo e del razzismo. Ma il Papa morì senza poterlo nemmeno vedere, il 10 febbraio 1939, perché Ledóchowski lo tratteneva.

In realtà, la battaglia sull’antisemitismo e il razzismo nel 1938 –nonostante la crescente chiarezza di Pio XI - rivela le complessità del mondo cattolico e talvolta lo scarso allarme su questi problemi. Ma, nel volgere di qualche mese, non sono più questioni così centrali, bensì si profila sull’orizzonte il dramma della Guerra mondiale. Mi sembra che a questa realtà sia puntata l’attenzione del successore di Pio XI. La mia sensazione è che, nell’incontro con gli ebrei perseguitati, in molti paesi europei –come in Italia- si cominciano a sciogliere l’antigiudaismo o l’indifferenza, proprio nell’impatto con un grande dramma. Ma questa è altra storia, già discussa e che merita ancora di essere discussa.

* Storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio

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