«La nostra vita cominciava qui, dove finiva l’asfalto». Sono passati 45 anni dall’abbattimento delle ultime baracche dell’Acquedotto Felice e in un pomeriggio carico di pioggia Angelo, Emidio e Maurizio, ripercorrono i sentieri dell’infanzia cercando tra le antiche volte la geografia di una Roma che non c’e più. Erano gli invisibili dell’Italia del boom, antenati ideali dei fantasmi accampati oggi sotto le tende del Baobab. Abitavano con le famiglie emigrate dalle campagne, soprattutto abruzzesi, dentro dimore di fortuna addossate all’architrave dell’ingegneria idraulica medievale. Guardavano i cantieri edili dove i padri tiravano su le prime palazzine di questa periferia est della Capitale ma fino alla comparsa di don Roberto credevano, per sapere ancestrale, che sarebbero stati per sempre così vicini e così lontani da lì.

Don Roberto Sardelli, il più avanguardista dei preti di strada a cui il dipartimento di Scienze della formazione di Roma tre ha appena conferito la Laurea honoris causa in pedagogia, è l’anima di questa storia con tanti attori tutti protagonisti. Fu lui che nel 1969, sull’esempio di Barbiana, si trasferì tra gli ultimi per aprire una scuola, la baracca 725: pochi metri quadri dove insegnare a fare i compiti ma soprattutto a studiare, leggere il giornale, mettere piede nel grande mondo così estraneo a queste 600 famiglie contadine. Fu lui a coordinare la famosa lettera all’allora sindaco democristiano Santini con cui i suoi ragazzi portarono in Campidoglio la voce afona dei «baraccati».

«Noi speravamo, oggi si dispera» ammette, don Roberto che vede il quartiere da lui emancipato richiudersi dietro nuovi muri e la città aperta di un tempo precipitare in fondo alle classifiche della vivibilità. Nei giorni scorsi, a due isolati da qui, è stata sgomberata una delle villette abusive dei Casamonica che, espropriati, sono ancora in giro a affermare la loro priorità d’italiani sugli extracomunitari e a rivendicare il potere clanico sulla comunità atomizzata.

Il passato aleggia sulle ciclabili e i pini piantati intorno alle rovine piranesiane, dove i rari insediamenti homeless sono demoliti nel giro di una notte.

«Ci portavamo dentro la nostra diversità e fuori te la facevano sentire, anche se non avevamo l’acqua né l’elettricità la mia casa mi sembrava bellissima ma alla scuola di Stato me ne vergognavo» racconta Emidio Bianchi, classe 1964, maestro per professione e fotografo appassionato. Angelo Celidonio, nato qui nel 1961 in una baracca comprata dal padre per 180 mila lire e diventato direttore di supermercato, ricorda quando scendeva dall’autobus T2 alla fermata sbagliata per depistare le compagne.

Gli ex ragazzi non si vedevano dal 2007, quando il regista Fabio Grimaldi lì riunì per girare il documentario «Non tacere». Disegnano con le mani il paesaggio della memoria: le baracche arrivavano fino alla torre chiudendo tutti gli archi tranne due, da un lato i numeri pari e quelli dispari dall’altro, verso San Policarpo; qui c’era la cantina, lì «il nonnetto delle caramelle», laggiù, oltre la scuola di don Roberto, abitavano Claretta e Pietro, i «travestiti» che al tramonto tiravano fuori rossetto e tacchi alti per il mercato della notte. Il prato, in cui erano disseminati i buchi neri che fungevano da bagno, è lo stesso. Maurizio Marinozzi, baracca 765, una delle primissime, cerca un ceppo d’edera: «Da queste parti sorgeva la cappelletta di don Roberto, quella con l’affresco della Madonna vietnamita in mezzo al napalm».

Tornare all’Acquedotto Felice è un viaggio nel tempo, non solo per i suoi protagonisti. Don Roberto piange una società avanzata economicamente ma «inerte». Se i suoi 83 anni suonati glielo permettessero andrebbe tra i migranti, dice, i baraccati del 2018: «Noto in giro troppe braccia penzoloni e altre pronte a rattoppare guasti isolati. Meglio i rattoppi che nulla, d’accordo. Ma se anche noi allora ci fossimo rassegnati non potremmo raccontare adesso la portata del nostro impegno». C’è stato un tempo in cui l’Italia credeva nella redenzione possibile. Alla scuola 725 andavano a sporcarsi le mani gli intellettuali, Scoppola, De Mauro, il regista De Seta, occhi su un neorealismo oltre Peppone e don Camillo. Pasolini no, lo conoscevano attraverso la televisione che ricaricavano dall’elettrauto ma non lo videro mai, «le sue borgate erano una forma di autocompiacimento».

Roma non ha tenuto il passo. «I baraccati di ieri erano distanti dalla città ma meno di quanto siano gli emarginati di oggi, le diseguaglianze sono aumentate ed è diverso il contesto sociale, i migranti delle tendopoli contemporanee si sentono in transito e non investono emotivamente nel territorio, adesso è più difficile creare comunità nei contesti marginali» osserva Grazia Napoletano, ex preside e prima, per una vita, braccio destro della 725. Don Roberto insiste che bisognerebbe ripartire dalla scuola, i banchi in cui, ricorda l’insegnante e volontaria Carla Camilli, «i bambini chiedevano il senso delle parole sconosciute e le cercavano insieme sul vocabolario».

Il sipario ha il colore della nostalgia, un passato mitico e forse idealizzato, la politica prima dei social network, l’ecumenismo solitario di Papa Francesco. Gli ex ragazzi tornano a casa con l’urgenza di testimoniare: si rivedranno giurano, dove ancora finisce l’asfalto.

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