“Sulle sue spalle” (riprendendo il titolo del documentario a lei dedicato), Nadia Murad, ventunenne yazida attivista suo malgrado dei diritti umani, insignita il 5 ottobre scorso del premio Nobel per la Pace, porta cicatrici indelebili: stupri, violenze, torture, prigionia, il genocidio del suo popolo e l’uccisione della sua famiglia, e anche la paura pari alla tristezza per un nipote di 11 anni che, radicalizzato e arruolato dall’Isis, ha minacciato di ucciderla.

Oggi è una donna libera, sposata, come ambasciatrice delle Nazioni Unite si batte per denunciare gli orrendi crimini contro l’umanità che lei stessa, in parte, ha subito e per cui chiede giustizia. Giustizia non vendetta, perché i colpevoli compaiano di fronte alla Corte penale internazionale dell’Aia e vengano giudicati e condannati.

Accompagnata dal marito Abid Shamdeen, questa mattina Nadia è stata ricevuta in Vaticano in udienza da Papa Francesco. Insieme hanno colloquiato a lungo, così a lungo che l’udienza ai ragazzi dell’Azione Cattolicaprevista subito dopo per le 11.30 è slittata di circa mezz’ora.

Non era la prima volta che Murad e Francesco si incontravano: già il 3 maggio 2017 la ragazza si era presentata con il velo in testa in piazza San Pietro, al termine di una udienza generale del mercoledì, e aveva stretto la mano al Pontefice accennandogli alla sua storia e a quella del suo popolo. Un desiderio, questo, espresso un anno prima quando – già candidata al Nobel per la Pace – aveva chiesto tramite le telecamere di Tv2000 un incontro con il Papa «per raccontargli la tragedia del popolo yazida, la mia storia personale da vittima della barbarie dell’Isis e quella di migliaia di altri giovani yazidi».

Oggi, capelli sciolti, un elegante tailleur spezzato, è stata accolta nel Palazzo Apostolico, esattamente nella Sala della Biblioteca solitamente riservata a capi di stato e premier. Appena ricevuta da Bergoglio, Nadia si è inchinata per salutarlo. Poi gli ha consegnato “L’ultima ragazza”, il suo libro (edito in Italia da Mondadori) che ripercorre l’abisso che è stata la sua vita dall’agosto 2014, quando i miliziani del neonato e autoproclamatosi Stato Islamico hanno sconvolto il suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, incendiando case, radunando circa 600 uomini in una piazza e uccidendoli a colpi di kalashnikov, rapendo donne per renderle sabaya. Cioè schiave, o forse ancora meno: merce da vendere e scambiare, oggetti per soddisfare ogni voglia sessuale. La colpa di tutti era di appartenere ad una minoranza che non professa la religione islamica.

Nadia Murad Basee Taha all’epoca non era neppure maggiorenne. Il primo shock fu rivedere morire la madre e sei fratelli. Con altre due sorelle fu trasportata a Mosul, roccaforte dei jihadisti, insieme a centinaia di altre ragazze separate dalle madri e dalle sorelle sposate, destinate ad un calvario senza fine. Lì la giovane ha subito ogni sorta di soprusi - stupri selvaggi, torture psicologiche – ed è stata venduta e comprata più volte come schiava. Dopo tre mesi è riuscita però a fuggire miracolosamente.

È da allora che Nadia Murad denuncia coraggiosamente le atrocità e le umiliazioni perpetrate contro la sua gente. «Una volta fuggita, ho sentito che era mio dovere raccontare al mondo le brutalità dello Stato islamico. Le donne yazide speravano che raccontare le nostre esperienze di omicidi di massa, stupri e schiavitù avrebbe attirato l’attenzione sul genocidio dei yazidi. Abbiamo ricevuto affetto e solidarietà da tutto il mondo, ma ora abbiamo davvero bisogno di azioni concrete per ottenere giustizia e permettere alla nostra comunità di tornare in patria», ha detto nel 2016 in un toccante discorso al Parlamento Europeo.

Forte anche del riconoscimento condiviso con il medico congolese Denis Mukwege, il Nobel per la Pace, è considerata oggi la portavoce di una comunità perseguitata come quella dei yazidi che in più di un’occasione lo stesso Papa Francesco ha pubblicamente difeso, esortando la comunità internazionale a rompere il silenzio perché - ha detto - è «inaccettabile che esseri umani vengano perseguitati e uccisi a motivo della loro appartenenza religiosa».

Lo stesso pensiero la Murad non si stanca di ripeterlo, implorando anche la sua gente a non perdere la propria identità, nonostante i tentativi fatti in passato per distruggerla, e ad essere fiera delle proprie radici. La sua battaglia oggi, come scrive e come ha detto stamane al Papa, è che «nessuna persona subisca simili violenze e venga trattata come una bestia».

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