Si possono individuare strategie, cambiare le strutture e i sistemi, ma senza una conversione personale degli uomini di Chiesa che riveda anche il modo di gestire il potere e il denaro, di vivere l’autorità e le relazioni, difficilmente una piaga come quella degli abusi potrà essere debellata. Perché la Chiesa non è un’azienda né un’agenzia di marketing, e un dramma del genere che compromette per sempre la vita di esseri umani «non si risolve con decreti volontaristici o stabilendo semplicemente nuove commissioni o migliorando gli organigrammi di lavoro come se fossimo capi di un’agenzia di risorse umane». 

Papa Francesco scrive di suo pugno una lettera di una decina di pagine ai vescovi statunitensi che da ieri, 2 gennaio, fino a martedì 8 sono riuniti nel seminario Mundelein di Chicago per un ritiro spirituale di riflessione e preghiera sulla crisi generata dagli episodi di pedofilia del clero verificatisi in questi tutte le diocesi nordamericane. Una iniziativa, questa del ritiro, sollecitata dallo stesso Francesco durante l’incontro con i vescovi Usa del 13 settembre 2018 che proponeva una settimana di preghiera e discernimento per «affrontare e rispondere evangelicamente alla crisi di credibilità che attraversate come Chiesa», come scrive lo stesso Pontefice nella missiva pubblicata alle 16, ora italiana, sul sito della Usccb in inglese e in spagnolo.

Francesco avrebbe voluto partecipare personalmente al ritiro. Si scusa infatti con i vescovi perché «nonostante gli sforzi compiuti, per problemi logistici», non potrà essere lì presente e accompagnarli di persona, ma sarà comunque vicino a loro spiritualmente grazie alla presenza del frate cappuccino padre Raniero Cantalamessa - da lui «gentilmente offerto» - che guiderà le meditazioni sul tema “Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare” (Mc 3,14). 

Nelle pagine della lettera Papa Bergoglio entra nel vivo della tempesta attraversata dalla Chiesa del nord America, «scossa» negli ultimi tempi «da molteplici scandali che toccano nell’intimo la sua credibilità», specie a causa delle coperture. Ma, con un episcopato profondamente diviso, insiste a lungo sul tema della comunione e della collegialità ribadendo che sono proprio le divisioni interne alla Chiesa, i personalismi e i muscolarismi i primi ostacoli per una lotta efficace contro drammi come quello degli abusi.

Francesco non manca di rivolgere lo sguardo ai tempi «tormentati» attraversati da tante vittime che - scrive - «hanno subito nella loro carne l’abuso di potere, di coscienza e sessuale da parte di ministri ordinati, consacrati, consacrate e fedeli laici», e ai tempi «di croce» subito anche dalle famiglie di queste vittime e da tutto il Popolo di Dio. La credibilità della Chiesa è stata «fortemente messa in discussione e debilitata da questi peccati e crimini, ma specialmente dalla volontà di volerli dissimulare e nascondere, cosa che ha generato una maggiore sensazione di insicurezza, di sfiducia e di mancanza di protezione nei fedeli», afferma. In particolare. «l’atteggiamento di occultamento, lungi dall’aiutare a risolvere i conflitti, ha permesso a questi stessi di perpetuarsi e di ferire più profondamente la trama di rapporti che oggi siamo chiamati a curare e ricomporre». 

Il Pontefice usa il “noi” per dire che «siamo consapevoli che i peccati e i crimini commessi e tutte le loro ripercussioni a livello ecclesiale, sociale e culturale hanno creato un’impronta e una ferita profonda nel cuore del popolo fedele», riempiendolo di «perplessità, sconcerto e confusione», offuscando e screditando «la vita offerta da tanti cristiani» nel mondo per il Vangelo.

Tutte queste ferite, evidenzia Papa Francesco, segnano anche al suo interno la comunione episcopale, «generando non esattamente il sano e necessario confronto e le tensioni proprie di un organismo vivo, bensì la divisione e la dispersione». «La lotta contro la cultura dell’abuso, la ferita nella credibilità», come pure «lo sconcerto, la confusione e il discredito nella missione» esigono invece da parte di tutti «un atteggiamento nuovo e deciso per risolvere il conflitto». 

In sostanza, ciò che chiede il Papa è una conversione personale poiché la questione abusi «non si risolve con decreti volontaristici o stabilendo semplicemente nuove commissioni o migliorando gli organigrammi di lavoro come se fossimo capi di un’agenzia di risorse umane. Una simile visione - sottolinea Francesco - finisce col ridurre la missione del pastore della Chiesa a un mero compito amministrativo/organizzativo nella “impresa dell’evangelizzazione”». 

Sì è vero che certe cose sono «necessarie», ma «non sono sufficienti» poiché «non riescono ad assumere e affrontare la realtà nella sua complessità e corrono il rischio di finire col ridurre tutto a problemi organizzativi», andando anche ad inficiare «a livello neurologico» i «nostri modi di relazionarci». «Possiamo constatare che esiste un tessuto vitale che si è visto danneggiato e siamo chiamati a ricostruire, come artigiani», afferma il Papa. Ciò implica «la capacità di convocare per risvegliare e infondere fiducia nella costruzione di un progetto comune, ampio, umile, sicuro, sobrio e trasparente».

 

Perciò oltre ad una nuova organizzazione, ciò che è urgente e necessario è «la conversione della nostra mente (metanoia), del nostro modo di pregare, di gestire il potere e il denaro, di vivere l’autorità e anche di come ci relazioniamo tra noi e con il mondo». In modo che «la dimensione pragmatica» delle azioni sia sempre accompagnata dalla «dimensione paradigmatica che mostra lo spirito e il senso di ciò che si fa». Senza questa focalizzazione, rimarca il Pontefice, ogni iniziativa, ogni gesto, ogni progetto corre il rischio di tingersi di «autoreferenzialità, autopreservazione e autodifesa» e, pertanto, cadere nel vuoto.

«Sarà forse un corpo ben strutturato e organizzato, ma senza forza evangelica, poiché non aiuterà a essere una Chiesa più credibile e testimoniale», ammonisce Francesco. La credibilità, inoltre, «nasce dalla fiducia« che a sua volta «nasce dal servizio sincero e quotidiano, umile e gratuito verso tutti». «Un servizio che non intende essere un’operazione di marketing o una mera strategia per recuperare il posto perso o il riconoscimento vano nel tessuto sociale», chiarisce il Papa-

Che richiama i vescovi al dovere di trovare «un modo collegialmente paterno di assumere la situazione presente che protegga, soprattutto, dalla disperazione e dalla orfanità spirituale il popolo che ci è stato affidato».

Poi, insistendo ancora sulla questione delle divisioni interne, nei successivi paragrafi della lettera afferma che la credibilità della Chiesa non si radicherà in discorsi e meriti, e neppure nelle forze e nelle abilità personali, ma «sarà frutto di un corpo unito che, riconoscendosi peccatore e limitato, è capace di proclamare il bisogno di conversione», per «testimoniare come anche nei momenti più oscuri della nostra storia, il Signore è presente, apre cammini e unge la fede scoraggiata, la speranza ferita e la carità addormentata». 

Non solo, aggiunge il Papa, una coscienza con tale impronta «collegiale» da parte di «uomini peccatori in stato di permanente conversione, ma sempre sconcertati e afflitti da tutto l’accaduto», permetterà di «entrare in comunione affettiva con il nostro popolo e ci libererà dal cercare falsi, rapidi e vani trionfalismi che pretendono di assicurare spazi piuttosto che iniziare e risvegliare processi». 

Tale atteggiamento chiede «la decisione di abbandonare come modus operandi il discredito e la delegittimazione, la vittimizzazione e il rimprovero nel modo di relazionarsi». «Tutti gli sforzi che faremo per rompere il circolo vizioso del rimprovero, della delegittimazione e del discredito, evitando la mormorazione e la calunnia, in vista di un cammino di accettazione orante e vergognosa dei nostri limiti e peccati e stimolando il dialogo, il confronto e il discernimento, tutto ciò ci disporrà a trovare cammini evangelici che suscitino e promuovano la riconciliazione e la credibilità che il nostro popolo e la missione esigono da noi», assicura il Papa. «Faremo questo se saremo capaci di smettere di proiettare sugli altri le nostre confusioni e insoddisfazioni, che costituiscono ostacoli per l’unità e se oseremo metterci insieme in ginocchio dinanzi al Signore lasciandoci interpellare dalle sue piaghe, nelle quali potremo vedere le piaghe del mondo».       

Con il ritiro di Chicago, su invito del cardinale arcivescovo Blaise Cupich, l’episcopato Usa ha deciso di prepararsi al grande summit che Jorge Mario Bergoglio ha organizzato in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019 con i presidenti di tutte le Conferenze episcopali del mondo per confrontarsi e studiare strategie sulla crisi degli abusi, formulando linee guida valide poi per la Chiesa universale. 

Il cardinale Daniel DiNardo, presidente della Usccb, ringraziando il Papa «per aver invitato i vescovi e me a fare un passo indietro ed entrare in questo tempo di ascolto di Dio», ha domandato «preghiere per i miei fratelli vescovi e per me, mentre ci uniamo nella solidarietà per cercare la sapienza e la guida dello Spirito Santo» e «anche per i sopravvissuti agli abusi sessuali, affinché la loro sofferenza possa servire a rafforzare tutti noi per il difficile compito di estirpare un male terribile dalla nostra Chiesa e dalla nostra società, in modo che tale sofferenza non si ripeta più».

Il ritiro spirituale ha registrato l’adesione di 250 vescovi della Conferenza episcopale sui 271 ancora attivi, dall’invito erano esclusi infatti i presuli in pensione che sono 185 (i membri in totale sono 456).

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