È stato definito uno dei più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo fra cristianesimo e islam: oggi si parlerebbe di dialogo interreligioso, termine sconosciuto all’epoca medievale, esattamente 800 anni fa. Siamo nel mese di giugno del 1219, in piena Quinta Crociata, quando Francesco d’Assisi lascia la sua città per recarsi dai musulmani, dopo alcuni tentativi falliti. Su una barca di militari e mercanti raggiunge con alcuni frati il porto di Saint-Jean-d'Acre, nel nord della Palestina (l’attuale cittadina israeliana di Akka) con l’obiettivo di abbandonare il campo cristiano e far visita al sultano d’Egitto, Melek-el-Kamel.

L’incontro avvenne qualche mese dopo, forse nella tregua d’armi a settembre, nel porto di Damietta, sul delta del Nilo a circa 200 km a nord de Il Cairo, dove il nipote del Saladino accolse i frati (probabilmente Francesco e fra Illuminato) con grande cortesia, nonostante la contrarietà del resto della corte, e offrì loro pure dei doni che il Poverello però, come si poteva immaginare, rifiutò.

Sono diverse le fonti cristiane che raccontano di questo episodio: a partire dalla Vita Prima di Tommaso da Celano al cap. 20 (FF 422), la Leggenda maggiore di san Bonaventura al cap. 9 (FF 1172-1174), la Leggenda minore al cap. 3 (FF 1356), i Fioretti al cap. 24 (FF 1855) e poi le Lettere di Jacques de Vitry (FF 2226-2228), la Cronaca di Ernoul (2231-2234), per citarne alcune (più “storiche” e attendibili le ultime due perché prive di intento agiografico: «Non ebbe timore di portarsi in mezzo all’esercito dei nostri nemici e per alcuni giorni predicò ai saraceni la parola di Dio, ma con poco profitto», scrive Jacques de Vitry). 

Tutto il contrario, invece, in campo islamico, dove «nessuno storiografo, contemporaneo o posteriore a san Francesco e al sultano al-Malik al-Kāmil, ci ha lasciato descrizione compiuta o almeno un semplice accenno a questo incontro» come sottolinea a Vatican Insider Bartolomeo Pirone, studioso di storiografia islamica e membro del Centro Francescano di Studi Orientali a Il Cairo: «In qualche storico musulmano tardivo ricorre una singolare espressione che recita, a proposito di un consigliere del Sultano di nome Fakhr al-Fārisī: “Le sue belle qualità o virtù sono ben note a tutti e ben nota è altresì la sua storia con al-Malik al-Kāmil e ciò che gli capitò a causa del rāhib”. Nell’anno 1924 un archeologo egiziano, percorrendo i sepolcri e i mausolei disseminati nell’imponente cimitero del Cairo detto al-Qarāfah, si sofferma presso la tomba di questo personaggio, nota una colonna funeraria ad essa contigua e ne decifra l’iscrizione, pubblicandola successivamente. Nel testo della colonna, però, non si fa cenno alcuno al sultano e nemmeno al rāhib o religioso o frate. Purtroppo tempo addietro, a cominciare dagli anni ‘50 del secolo scorso, si credette di aver trovato conferma all’incontro tra san Francesco e il Sultano portando a testimonianza archeologica proprio il testo inciso nella colonna. Si è trattato però di un grosso equivoco».

Eppure lungo i secoli nel mondo occidentale questo incontro ha sollecitato la fantasia di molti anche nel campo della letteratura, dell’arte pittorica e, più di recente, del cinema e persino della musica (Angelo Branduardi vi ha dedicato una canzone nel suo album monografico “L’infinitamente piccolo” del 2000). Su tutti spiccano i versi di Dante nell’XI Canto del Paradiso e l’affresco attribuito alla Scuola di Giotto che si può ammirare ad Assisi nella Basilica Superiore dove è raffigurata l’ordalia o “prova del fuoco” narrata da san Bonaventura secondo la quale Francesco avrebbe proposto la prova al sultano per stabilire quale fosse la vera fede. Un particolare oggi ritenuto altamente improbabile, come del resto altri raccontati da fonti con intento dichiaratamente agiografico, sia dalla storica Chiara Frugoni che da diversi altri studiosi che lo considerano decisamente assai lontano dalla personalità di Francesco.

Ma è dalle parole stesse di Francesco che possiamo conoscere le sue intenzioni se andiamo a leggere quanto scrive nella Regola non bollata che dedica alla questione il cap. XVI intitolato Di coloro che vanno tra i saraceni e gli altri infedeli: «Dice il Signore: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe”Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che sono idonei ad essere mandati; infatti sarà tenuto a rendere ragione al Signore, se in questo caso come in altre cose avrà proceduto senza discrezione».

«I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio». Il testo prosegue con alcune citazioni evangeliche allo scopo di esortare i frati a rendere una testimonianza coraggiosa della propria fede, soffrendo anche la persecuzione, fino all’accettazione del martirio dal momento che «hanno donato se stessi e abbandonato i loro corpi al Signore». 

La successiva Regola bollata (uno scritto canonico), vi dedica invece solo poche righe al cap. XII. Secondo il francescano Gwénolé Jeusset ofm, componente della Fraternità internazionale di Istanbul per il dialogo interreligioso e presidente della Commissione internazionale francescana per le relazioni con i musulmani (autore di diversi testi sul tema, fra i quali “Francesco e il sultano” Jaca Book, 2008) che rinvia spesso nei suoi interventi alla dichiarazione conciliare Nostra Aetate – il documento del Vaticano II sulle religioni non- cristiane - ci vollero sette secoli prima che Charles de Foucauld riscoprisse questo metodo di presenza e condivisione fraterna seminando pace e giustizia, una modalità che oggi sappiamo aver testimoniato fino a dare la vita dai monaci di Tibhirine in Algeria, beatificati di recente.
 
In merito alle celebrazioni dell’anniversario (che ha già avuto un prologo a Il Cairo nell’ottobre 2017) e all’autentico spirito di Francesco d’Assisi abbiamo interpellato fra Francesco Patton, custode di Terra Santa, impegnato quotidianamente nel dialogo interreligioso come tutti i suoi predecessori, testimoni di una presenza di pace nei Luoghi d’inizio della fede cristiana.

Voi frati avete appena celebrato gli 800 anni di presenza in Terra Santa e ora nel 2019 ricorreranno gli 800 anni dall'incontro di Francesco col Sultano: come intendete ricordarlo?

«Ci saranno ovviamente delle vere e proprie celebrazioni, corredate di eventi culturali e di studio, sia in Italia, sia qui a Gerusalemme, sia in Egitto e quasi certamente ci sarà una mostra dedicata a questo evento anche al Meeting di Rimini. Credo però che il modo più significativo di celebrare questo evento storico sarà di continuare a coltivare tutte quelle iniziative di dialogo, di incontro e di amicizia che già stiamo coltivando e che vanno nella direzione opposta della cultura dello scontro di civiltà. Qui abbiamo la possibilità fare questo nella vita di tutti i giorni, attraverso incontri di conoscenza reciproca e di condivisione che stanno ormai diventando regolari sia con realtà musulmane come con realtà ebraiche. Per me poi il grande luogo dell’incontro sono le nostre scuole di Terra Santa, dove cerchiamo di offrire anche un’educazione che soltivi lo “spirito di Damietta” cioè dell’incontro vissuto in modo così profondo e reciproco da san Francesco e dal Sultano Malek El Kamel, otto secoli fa, in piena Quinta Crociata. Personalmente poi ritengo che il “sognatore” Francesco, abbia dimostrato molta più lungimiranza, senso pratico ed efficacia di tutti coloro che preferivano lo scontro al dialogo. Il risultato sta proprio nel fatto che a distanza di otto secoli noi francescani siamo ancora in Terra Santa vivi e attivi».

 

Terra santa, una terra che è stata terreno di scontro tra religioni, ma anche luogo di dialogo e convivenza: qual è il messaggio francescano che può giungere da qui al resto del mondo, soprattutto occidentale dove il rifiuto dell'islam (che molti collegano al terrorismo) e spesso anche i rigurgiti antisemiti assumono talvolta dei risvolti inquietanti?

«Per me il cuore della nostra esperienza sta nel fatto che siamo chiamati a osare di entrare in relazione con le persone. Noi non incontriamo “i musulmani” o “gli ebrei”, noi incontriamo persone che vivono la loro fede musulmana o ebraica, e oggigiorno anche persone che non vivono dentro l’orizzonte della fede, ma sono appunto persone con le quali è possibile entrare in relazione, fare un tratto di strada assieme e perfino cooperare. Faccio qualche esempio: la nostra scuola di musica, che non a caso si chiama Magnificat ed è affiliata al Conservatorio di Vicenza, ha al proprio interno docenti e studenti che sono ebrei, musulmani e cristiani e l’esperienza del suonare assieme è una scuola straordinaria di convivenza e anche di amicizia. Tra i nostri collaboratori non ci sono solo cristiani, ma anche ebrei e musulmani, che collaborando con noi si trovano a collaborare anche tra di loro e lo fanno per una istituzione cristiana com’è la Custodia di Terra Santa. Gli studenti musulmani delle nostre scuole e le loro famiglie, partecipano e collaborano e si identificano nelle nostre istituzioni. Nel mio ufficio ho un presepe fatto a mano dalle ragazze musulmane del Mosaic Center, che me lo hanno portato come segno di riconoscenza per l’opportunità di crescita che la Custodia ha dato a loro. E potrei proseguire con molti altri esempi. 

Se noi abbiamo il coraggio di incontrare le persone e anche quello di collaborare con istituzioni musulmane che lavorano nel campo della cultura e dell’educazione potremo certamente contribuire a ridurre tra gli stessi musulmani forme di interpretazione fondamentalista del Corano che portano poi anche a una deriva di tipo terrorista. Per quel che riguarda il mondo ebraico è esso stesso un mondo con molte differenziazioni interne. In questi ultimi anni abbiamo intrapreso un percorso di collaborazione e di amicizia con la comunità ebraica di Ain Karem, ma non solo. Anche in questo caso la cultura è un terreno di incontro molto importante, ma lo è anche la spiritualità. È poi fondamentale la conoscenza della storia per evitare di ripetere errori che nel passato hanno portato a vere e proprie tragedie, come quella della Shoah nel ‘900».

 

Nel Messaggio di Natale ha affermato che anche oggi abbiamo tutti bisogno di essere illuminati dalla nascita di un bambino a Betlemme: quali sono secondo lei i compiti prioritari per un cristiano oggi che intenda esserne testimone?

«So di dire una cosa che può sembrare banale, ma secondo me il compito prioritario di un cristiano che vuole testimoniare è quello di testimoniare con la vita. È il metodo che ci suggerisce il Vangelo e che san Francesco ha sintetizzato nell’invito a non fare liti o dispute con nessuno, mettersi a servizio di tutti per amore di Dio e mantenere un’identità cristiana chiara. Solo dopo arrivano le parole, e solo quando si vede che in chi ci sta di fronte c’è un qualche interesse per il messaggio del Vangelo, che realmente dà senso alla nostra vita. Da francescano mi viene da dire che la testimonianza efficace ha sempre una connotazione di “minorità” è cioè un entrare nella vita degli altri in punta di piedi, senza pretese, con apertura di cuore e disponibilità. Se non c’è questa premessa le nostre parole, che pure sono molto importanti e devono essere un’eco della Parola, risuoneranno a vuoto o come un tentativo di persuasione che non sa rispettare l’azione dello Spirito nella coscienza del fratello».

                  

 

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