Le hanno chiamate «suffragette». E i commentatori indiani più acuti e acculturati, per spiegare la pacifica e civile protesta delle donne indiane in Kerala, hanno perfino scomodato Giovannino Guareschi, richiamando gli alterchi tra Peppone e Don Camillo. Il tutto per dimostrare che, nella vicenda che agita lo stato nel Sudovest dell’India – salito alla ribalta per la catena umana di cinque milioni di donne che hanno voluto ribadire il diritto all’uguaglianza e alla preghiera in un tempio indù – l’elemento centrale è proprio il rapporto tra politica e religione, tra leggi statali e precetti di fede. 

Il tutto in un contesto come quello indiano, dove l’intreccio e la strumentalizzazione di questioni legate alla religione ha pesato non poco, negli ultimi vent’anni, per le fortune elettorali del Baratiya Janata Party (BJP), il partito nazionalista della destra indù oggi al governo dell’Unione con il primo ministro Narendra Modi.

 

Non ultimo, oltre alla necessaria visione complessiva sulla relazione tra fede e politica, sulla laicità dello stato e su come le garanzie e i diritti costituzionali possano e debbano essere rispettati, vi è il fattore-chiave delle imminenti elezioni generali, che si terranno in India a maggio del 2019: ineludibile prisma attraverso cui guardare l’episodio che ha riguardato il tempio indù di Sabarimala. 

Per la prima volta nella storia, due donne 40enni (e altre le seguiranno) hanno varcato il muro di cinta e hanno pregato nel sancta sanctorum del tempio che, per antica prescrizione induista, era riservato solo agli uomini. Per fare un voto alla divinità di Ayyappa, venerata in quel luogo, i pellegrini seguono, infatti, un previo rituale di purificazione di 41 giorni. Questa pratica di per sè esclude le donne in età fertile (tra i 10 e i 50 anni): la presenza delle mestruazioni, secondo antiche e millenarie credenze, trasversali, fra l’altro, a molte religioni, è una fase della vita in cui la donna è considerata impura.

 

Con un approccio decisamente più moderno e legittimamente laico, la Corte Suprema dell’India nell'aprile 2018 ha scritto: «Le mestruazioni sono forse uno strumento per misurare la purezza delle donne? Come si misura, allora, la purezza degli uomini?». Applicando il dettato Costituzionale, secondo la Carta del 1950, che garantisce parità e uguaglianza di genere nella democrazia indiana, il supremo tribunale nel settembre scorso ha sancito l’incostituzionalità del bando che per centinaia di anni ha impedito alle donne l’accesso al tempio. 

La semplice, perfino prevedibile applicazione della legge ha scatenato proteste diffuse, istigate da leader e gruppi fondamentalisti indù, che sono arrivati dinanzi al Parlamento dello stato del Kerala (l’unico in India, tra l’altro ad applicare prontamente la sentenza), contestando il capo del governo Pinarayi Vijayan e innescando una violenza di strada che ha paralizzato per due giorni diverse città, portando all’arresto di 700 manifestanti. 

La vicenda del Kerala, tuttora al centro del dibattito nazionale, riporta al centro della scena il confronto, a tratti aspro e animoso, che ha caratterizzato come un filo rosso i cinque anni del governo di Narendra Modi: quello tra quanti promuovono una speciale posizione di rilevo per l’induismo e per le pratiche indù nella società indiana, e quanti auspicano la supremazia del Costituzione per regolare la vita civile, tutelando il carattere laico e pluralista della nazione.

 

Gli analisti più attenti non mancano di rimarcare che questa linea di frattura fra tradizione e modernità nel subcontinente precede di molto l’avvento del governo del BJP. Tuttavia la spaccatura, mitigata durante i decenni di governo del Partito del Congresso, con l’irresistibile ascesa dei nazionalisti e la loro naturale tendenza a compiacere un’ideologia di stampo identitario, l’hindutva (ovvero «induità», che predica «l’India agli indù»), si è andata allargando ed è parsa a tratti insanabile.

 

Va notato che di recente, dopo anni di inesorabile declino, il glorioso partito del Congresso – guidato dagli eredi Gandhi, oggi dall’ultimo rampollo Rahul – è riuscito nella disperata impresa di strappare al BJP il governo di tre Stati nel cuore della nazione, Chhattisgarh, Rajasthan e Madhya Pradesh, rinverdendo le speranze di competere per le elezioni generali.

 

In un clima politico e sociale decisamente acceso, i cristiani indiani, presenti e attivi soprattutto nel Kerala, dove costituiscono il 20% della popolazione rispetto ad una percentuale che tocca il 2,5% su base nazionale, hanno sempre rifiutato le manovre e le politiche tese a polarizzare la società su base religiosa (il cosiddetto «comunitarismo»), ben utilizzato dai nazionalisti per aumentare il consenso politico. I fedeli indiani hanno confidato, pur in una stagione segnata da crescenti violenze e intimidazioni, «nella maggioranza silenziosa del popolo indiano» che, secondo Abraham Shariff, anziano giornalista, «darà una lezione a chi fa politica utilizzando la fede per calcoli egoistici o giocando con i sentimenti religiosi della gente». 

«Alcuni leader nazionalisti hanno creduto di essere stati eletti per sempre. Il nostro è un Paese democratico. Abbiamo elezioni ogni cinque anni. La gente non può essere ingannata troppo a lungo», chiosa A. C. Michel, laico cristiano e attivista per i diritti umani. La campagna elettorale è iniziata.

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