A confermarlo ci sono pagine diaristiche, lettere, appunti. Il lavoro di tanti storici e biografi. E le parole raccolte dagli ultimi testimoni. Giovanni XXIII, più che in familiarità con la storia della Chiesa, conosceva bene l’importanza del Concilio. E sui benefici recati da questo strumento lungo i secoli si era intrattenuto più volte con parecchie persone negli anni della delegazione di Istanbul, della nunziatura parigina, del patriarcato veneziano. Non solo. La convocazione di un Concilio era stata già considerata almeno due volte nel ’900: con Pio XI (che poi lasciò cadere tutto aspettando di veder risolta la «questione romana»), e con Pio XII (al quale i cardinali Ernesto Ruffini ed Alfredo Ottaviani avevano affidato un memorandum con le ragioni per una convocazione: due abbozzi tenuti a lungo segreti, per il secondo dei quali era stato nominato responsabile della preparazione monsignor Francesco Borgongini Duca, amico sin dalla giovinezza di Angelo Giuseppe Roncalli, che potrebbe avergliene parlato prima del 1954, anno in cui morì). 

Non è tutto. A sostenere da tempo come «convenienza» o «auspicio» un Concilio erano stati anche altri prelati e scrittori. Due esempi: il dossier redatto da monsignor Celso Costantini, titolato sotto la data 15 febbraio 1939 “Sulla convenienza di convocare un Concilio Ecumenico” con i vantaggi annessi; gli articoli con cui nello stesso periodo Giovanni Papini si augurava «una ripresa del Concilio», destinata ad essere «accolta con grandissima gioia dai cattolici di tutto il mondo». 

 

Detto questo, quando, una volta eletto Pontefice, Angelo Giuseppe Roncalli tornò a pensare al Concilio? Con quali persone toccò il tema? Di chi l’ispirazione? E come si svolse quel 25 gennaio 1959, quando il Papa annunciò la sua decisione ormai sedimentata? Con quali reazioni considerando che metteva tutti innanzi ad una scelta sorprendente e irrevocabile? Proviamo a rispondere. I sessant’anni che ci separano da quel «gesto di tranquilla audacia» (così titolò La Croix pochi giorni dopo) forse non sono ancora così tanti da farcelo dimenticare. Del resto non sono pochi gli studiosi che alle assemblee conciliari hanno dedicato lavori monumentali e sino all’arrivo di Papa Francesco il dibattito sull’ermeneutica del Vaticano II è stato costante. 

Oggi sappiamo che dell’idea conciliare Giovanni, XXIII, uscito dal conclave come «Papa di transizione» a settantasette anni, aveva parlato già all’indomani dell’elezione con il segretario don Loris Francesco Capovilla (futuro cardinale centenario, mancato nel 2016): «Me la confidò per la prima volta il 30 ottobre 1958, nemmeno quarantotto ore dopo l’elezione. Non era una decisione, ma nemmeno un’idea buttata lì. Il primo appunto scritto reca la data del 2 novembre. Giovanni XXIII accennava ai suoi collaboratori più intimi all’eventualità dell’universale collocazione, quasi en passant». Così Capovilla a chi scrive, in più di un’intervista, dove, dato conto del suo iniziale disagio e di quel che il Papa gli aveva detto («Finché uno non mette il suo io sotto le scarpe non sarà mai un uomo libero»), indicava le prime persone con cui Roncalli ne aveva parlato (il confessore monsignor Alfredo Cavagna, monsignor Angelo Dell’Acqua, il sostituto della Segreteria di Stato…), non dimenticando di segnalare pure una prima nota documentale, il foglio delle udienze, che registra un colloquio con il cardinale Ernesto Ruffini il 2 novembre 1958 e dove tra i temi esaminati figura il «Concilio».

 

Come confermato dagli interessati, sempre in novembre l’argomento viene toccato in conversazioni con il cardinale Giovanni Urbani, suo successore a Venezia, e monsignor Girolamo Bortignon, vescovo di Padova; in dicembre in un’udienza concessa il 12 al cardinale Gregorio Agagianian; all’inizio del gennaio ’59 in un incontro del papa con l’amico don Giovanni Rossi, che allude al Concilio - senza nominarlo - in un articolo uscito a metà gennaio, rivelando che il Papa fra «tante cose tutte belle» gliene ha confidato «come un gran segreto, una sua», commentando «sarà nel nostro tempo uno dei più gloriosi fasti della Chiesa e il più memorabile del suo pontificato». Nel piccolo elenco appena abbozzato manca però, sino ad ora, il principale collaboratore di Giovanni XXIII: il segretario di Stato Domenico Tardini. Il Papa tiene al suo parere, ma si spinge a chiederglielo -come un conforto in più - solo quando è certo che la sua non è «fantasia peregrina», ma «una ispirazione che lo obblighi a sottomettersi, come sempre, alla volontà di Dio». 

Come avrebbe dichiarato più tardi, l’idea del Concilio non era maturata in lui «come il frutto di una prolungata meditazione, ma come il fiore spontaneo di una primavera insperata». «Per l’annuncio del Concilio ecumenico noi abbiamo ascoltato una ispirazione; noi ne abbiamo considerato la spontaneità, nell’umiltà della nostra anima», dirà in un messaggio al clero veneziano. «Ho considerato come ispirazione celeste anche quest’idea del Concilio…», spiegherà agli osservatori acattolici invitati all’assise il 13 ottobre 1962. E il mese prima, l’11 settembre - in un appunto - scriverà di «una grazia dell’Altissimo», che gli ha fatto «apparire come semplici ed immediate di esecuzione alcune idee per nulla complesse, anzi semplicissime, ma di vasta portata e responsabilità in faccia all’avvenire, e con immediato successo…», aggiungendo di aver pronunciato «in un primo colloquio col mio segretario di Stato il 20 gennaio 1959, la parola di Concilio ecumenico, di Sinodo diocesano e di ricomposizione del Codice di Diritto Canonico, senza aver mai pensato, e contrariamente ad ogni mia supposizione o immaginazione su questo punto». «Il primo ad essere sorpreso di questa mia proposta fui io stesso, senza che alcuno mai me ne desse indicazione. E dire poi che tutto mi parve così naturale nel suo immediato e continuo svolgimento», conclude qui Roncalli.  

 

Ufficialmente, Giovanni XXIII parlò dunque con Tardini del Concilio («tutta iniziativa ed in capite giurisdizione sua») – ma anche del sinodo per Roma e dell’aggiornamento del codice (idee queste meno «sue») – il 20 gennaio 1959, in udienza, dopo aver già accennato alla cosa in un colloquio precedente di alcuni giorni. Ma riapriamo il diario del vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale: «Nel colloquio con Tardini segretario di Stato volli assaggiare il suo spirito circa l’idea che mi venne di proporre ai membri del S. Collegio che converranno a San Paolo il 25 corrente per la chiusura dell’ottavario di preghiere, il progetto di un Consiglio [sic] Ecumenico da radunarsi omnibus perpensis a tempo debito coll'intervento di tutti i vescovi cattolici di ogni rito e regione del mondo. Ero assai titubante ed incerto. La risposta immediata fu la sorpresa più esultante che mi potessi aspettare. “Oh! Ma questa è un’idea, una luminosa e santa idea. Essa viene proprio dal cielo, Padre Santo, bisogna coltivarla, elaborarla e diffonderla. Sarà una grande benedizione per il mondo intero”. Non mi occorse di più. Ero felice. Ringraziai il Signore di questo disegno che riceveva il primo sigillo che potessi attendermi quaggiù a pregustamento di quello celeste che umilmente confido non mi vorrà mancare. Ave mundi spes Mari: ave mitis, ave pia». 

È con queste parole - della sequenza mariana di Innocenzo III - che Giovanni XXIII chiude la sua nota del 15 gennaio 1959: la prima con un riferimento esplicito al Concilio. Due giorni dopo il diario segna una «giornata carica di udienze importanti» e, in basso, sotto uno spazio vuoto, riporta: «A sera mgr. Dell’Acqua mi parla di una possibilità di celebrare prima ancora di un altro disegno di carattere universale, un Sinodo per la diocesi di Roma».Un secondo rimando al Concilio e il primo riferimento al sinodo.

 

Il 20 gennaio, martedì, altra nota diaristica papale che pare dimenticare quella di cinque giorni prima: «Giornata albo signanda lapillo. Nella udienza col Segret[ario] di Stato Tardini, per la prima volta, e direi, come a caso mi accade di pronunciare il nome di Concilio, come a dir che cosa il nuovo Papa potrebbe proporre come invito ad un movimento vasto di spiritualità per la Chiesa e per il mondo intero. Temevo proprio una smorfia sorridente e sconfortante come risposta. Invece al semplice tocco, il cardinale - bianco in viso, e smorto - scattò con una esclamazione indimenticabile ed un lampo di entusiasmo: “Oh! Oh? questa è un’idea, questa è una grande idea”. Devo dire che viscera mea exultaverunt in Deo (Salmi, 84, 3): e tutto fu chiaro e semplice nel mio spirito: e non credetti di dover aggiungere parola. Come se l’idea di un Concilio mi sorgesse in cuore con la naturalezza delle riflessioni più spontanee e più sicure. Veramente a Deo factum est istud et est mirabile oculis meis (Matteo, 21, 42)». 


Lette queste righe sorge un piccolo interrogativo, Roncalli parlò del Concilio a Tardini il 15 o il 20 gennaio? «Sono propenso a credere il 20. La nota del 15 diverrebbe in tal caso una ripetizione, aggiunta in un momento di riflessione gaudiosa dimentico (forse) della nota già redatta alla data del 20», ci spiegò più volte Capovilla. Probabilmente andò così. E non a caso è datato 20 gennaio il brano del diario di Tardini che con il suo assenso spazzò via ogni residua esitazione del Papa. Vi si legge: «Udienza importante. Sua Santità ieri pomeriggio ha riflettuto e meditato sul programma del suo pontificato. Ha ideato tre cose: Sinodo romano, Concilio ecumenico, aggiornamento del Codice di diritto canonico. Vuole annunciare questi tre punti domenica prossima ai signori cardinali, dopo la cerimonia in San Paolo. Dico al Santo Padre che mi interroga: “a me piacciono le cose belle e nuove. Ora questi tre punti sono bellissimi e il modo di darne il primo annuncio ai cardinali è nuovo (ma si riallaccia alle antiche tradizioni papali) ed è opportunissimo». 

Potrebbe essere interessante scoprire se lo stesso Tardini avesse intuito di trovarsi innanzi a un fatto compiuto per regolarsi di conseguenza (il suo biografo Giulio Nicolini scriveva di avere motivi per credere che avesse aggiunto altre pagine sepolte negli archivi), ma questa è un’altra storia. Piuttosto occorre intendersi sul significato immaginato da Giovanni XXIII per il «suo» Concilio: qualcosa non ancora definito, ma probabilmente più pastorale che dogmatico (e pastorale non in senso riduttivo, ma con una concezione della pastoralità come dimensione costitutiva della dottrina.). Ci sarebbe stato tempo comunque per valutare tutto. Del resto Roncalli - come ha testimoniato Dell’Acqua- «mai pensò di aprire e chiudere il Concilio ecumenico […]. Ripetute volte mi disse: “quello che importa è cominciare: il resto lasciamolo al Signore”; in quante altre circostanze un Papa cominciò un Concilio concluso da un altro Papa. Non era quindi nelle sue intenzioni affrettare le cose» 

 

Ed arriviamo a quel 25 gennaio 1959, chiusura dell’ottavario per l’unità dei cristiani (anelito che Roncalli viveva con intensità almeno sin dai tempi in cui era in Bulgaria), una tappa avvicinata dal Papa nella lettura di tanti volumi sulla storia dei concili (alcuni dei quali inviatagli dall’amico umanista don Giuseppe De Luca), nella preghiera, nella preparazione del discorso da pronunciare ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le Mura. Alzatosi all’alba, recitato l’Angelus, celebrata la messa nella sua cappella, dopo aver assistito a quella del segretario ed aver lavorato un po’ alla scrivania, eccolo in macchina verso San Paolo. Qui presiede la messa celebrata dall’abate e tiene l’omelia. Concluso il rito – prolungatosi più del previsto – il Papa chiede di trattenere i cardinali nel monastero attiguo alla basilica. Quando il Papa entra nell’aula capitolare insieme ai non molti cardinali presenti è già passato mezzogiorno: l’ora in cui cessa l’embargo per la diffusione della notizia. Così la novità del Concilio prima ancor d’essere annunciata dal pontefice è già arrivata dalla Segreteria di Stato in Sala Stampa e, battuta dalle agenzie, sta già facendo il giro del mondo. Sobria l’allocuzione papale. Con tre parole che iniziano il discorso: «Questa festiva ricorrenza», segnando l’annuncio ufficiale dell’avventura conciliare apertasi l’11 ottobre 1962, pietra miliare di un pontificato che non potrà più essere «di transizione».

 

Il Pontefice, infatti, indica le ragioni che hanno suggerito alcune attività straordinarie nel suo ministero: la prospettiva del bene delle anime e la necessità di corrispondere alle esigenze dell’ora presente. Allarga la sua diagnosi da Roma alla Chiesa universale, riconosce il valore di certe «forme antiche di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina», quindi annuncia «tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito il nome e la proposta della duplice celebrazione del Sinodo Diocesano per l’Urbe e di un Concilio generale per la Chiesa Universale».

La revisione del Codice di diritto canonico, promulgato nel 1917 e bisognoso di aggiornamento, sarà conseguenza naturale delle due decisioni appena annunciate (e tuttavia attenderà un tempo lunghissimo: venticinque anni). Il testo del messaggio papale, sobrio ma decisamente programmatico, comunicato anche ai cardinali assenti, attenderà a lungo parole di disponibilità e non verrà subito divulgato dalla stampa cattolica (neppure da L’Osservatore Romano dove appare uno scarno comunicato). Inoltre, pur raggiunti dall’invito di pregare per «un buon inizio, continuazione e felice successo di questi propositi di forte lavoro, a lume, a edificazione e letizia di tutto il popolo cristiano, ad amabile e rinnovato invito per i nostri fratelli delle Chiese separate a partecipare con noi a questo convito di grazia e di fraternità» (la citazione e dal manoscritto papale, mentre nella versione ufficiale si legge di un «rinnovato invito ai fedeli delle comunità a seguirci anch’esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia»), i porporati non parlano. E al Papa queste prime disorientate reazioni non sfuggono: «Umanamente si poteva ritenere che i Cardinali, dopo aver ascoltata l’Allocuzione, si stringessero attorno a Noi per esprimere approvazioni ed auguri. Vi fu invece un impressionante devoto silenzio» annoterà più tardi cercando di scusarli: nessun porporato ha trovato «parole adatte per manifestare il giubilo». Non era esattamente così.

 

Innegabile invece che la versione ufficiale dell'annuncio si prestasse un po’ ad equivoci generando confusione ad esempio nell’area tedesca o anglo sassone: infatti mentre Giovanni XXIII con le parole «Concilio ecumenico» si riferiva ad un «Concilio universale» (il primo termine appare nella redazione ufficiale, il secondo è quello della versione autografa papale), l’espressione da non pochi fu intesa come l’esclusivo tentativo di promuovere l'unità dei cristiani. Innegabile poi un silenzio quasi totale per alcuni giorni, anche nei rapporti diplomatici da Roma, mentre è la stampa a prefigurare le conseguenze dell’annuncio. Troppo presto però per immaginare se il Concilio di Papa Giovanni sarebbe stato il completamento di quello interrotto nel 1870, o se ne sarebbe distanziato (come avrebbe rivelato la sua reazione di Giovanni XXIIII dopo un confronto con lettura della Bolla di indizione del Vaticano I, non trovandola «né per la sostanza, né per la forma» corrispondente «alle condizioni attuali»). 

Ma restiamo a quel 25 gennaio definito da Giovanni XXIII sul diario una «Giornata felice e indimenticabile», nella quale «punto più importante» fu la «comunicazione segreta per i soli cardinali, del triplice disegno» del suo pontificato. «Tutto ben riuscito». E ancora: «Io mantenni la mia continua comunicazione con Dio. Nel ritorno, la festa dei Romani a San Paolo a San Pietro indimenticabile…». Ricordo di aver chiesto più volte a Capovilla di fermarsi su un’immagine di quel giorno. Sempre uguale la sua risposta: «Il ritorno in Vaticano […]. In macchina a me che gli chiedevo “Santo Padre come vi sentite?”, rispose, “Come vuoi che mi senta... È il Signore che fa. Così come non si deprimeva, neppure mai si esaltava. Era uno dei suoi doni: il suo grande equilibrio».

Equilibrio, aggiungiamo, che avrebbe contraddistinto, da quel momento, tanti suoi incontri e discorsi, svelando la sua idea di concilio come avvenimento di libertà e di fede. All’avvio dei complessi lavori delle commissioni preparatorie, nel novembre 1960, avrebbe affermato che «più che di un punto o dell’altro di dottrina o di disciplina», si trattava di «rimettere in valore e splendore la sostanza del pensare e del vivere umano e cristiano, di cui la chiesa è depositaria e maestra nei secoli»

 

 

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