Il Nicaragua non è come il Venezuela o la Bolivia. Ha due guerre civili nel suo passato recente, e – Dio non voglia – una terza in avvicinamento. La «crisi più grave della storia del Nicaragua», come la qualifica uno dei suoi figli illustri, lo scrittore Sergio Ramírez, a suo tempo compagno di squadra del presidente Daniel Ortega, fa nuovi passi verso scenari tragici. 

Rafael Solís Cerda non è un nome qualunque. Sino a martedì 8 gennaio era un alto magistrato della Corte suprema di giustizia del Nicaragua e una personalità importante nell’organigramma sandinista, oltreché una figura storica di primo piano del movimento nella sua epoca insurrezionale. La sua storia politica era insomma tutta all’interno del sandinismo e della lealtà quarantennale al suo leader, Daniel Ortega. Fino a pochi giorni fa, quando tutto questo Rafael Solís Cerda l’ha gettato alle spalle, presentando le dimissioni irrevocabili con una lettera che ha avuto un forte impatto in Nicaragua, almeno sui pochi media non ancora soppressi o controllati dal governo di Ortega e dalla sua attiva consorte, prima dama e vicepresidente, donna Rosario Murillo. Paradosso dei paradossi, l’alto magistrato dimissionario, Solís, è stato uno degli artefici delle riforme costituzionali che hanno permesso ad Ortega di perpetuarsi nel potere oltre i limiti consentiti dalla costituzione.

Nella lettera con cui ha rinnegato il sandinismo in versione orteghiana, Rafael Solís Cerda ha detto tre cose che non gli saranno perdonate, proprio perché vengono dall’interno del sistema di governo che lui stesso ha contribuito a costruire. Per la prima volta un ex-dirigente sandinista dei massimi livelli ha ventilato una guerra civile nel Paese centroamericano come una possibilità «più vicina che mai». «Non voglio una guerra civile per il Nicaragua» ha scritto rivolto ai compagni di un tempo, «ma è chiaro che andate per questa strada, e davanti a un esercito che per qualche ragione non ha disarmato i gruppi armati, è anche logico aspettarsi che i gruppi di opposizione cercheranno il modo di armarsi e il paese andrà indietro di quarant'anni, per tornare di nuovo, se già non siamo a questo punto, a quei cicli di violenza così caratteristici in tutta la nostra storia». 

La seconda cosa imperdonabile scritta da Solís, che tra l’altro è stato testimone di nozze di Ortega-Murillo, è aver apertamente equiparato Ortega a Somoza. «Ho già vissuto questa situazione molti anni fa, quando ho lottato contro una dittatura e non avrei mai pensato che la storia si sarebbe ripetuta proprio per colpa di chi l‘ha combattuta come me», ha scritto nella lettera di dimissioni, «ma adesso mi è chiaro che le cose vanno proprio in questa direzione e io non voglio partecipare in coscienza e per principio ad un governo che non ha dalla sua parte né le ragioni, né il diritto e neppure il sostegno della maggioranza del popolo e si regge esclusivamente sull'uso della forza per restare al potere». La terza cosa affermata da Solís, anch’essa imperdonabile, è che con Ortega al comando il dialogo nazionale tentato all’indomani della sollevazione di fine aprile è morto e sepolto: «Non vedo sinceramente la minima possibilità che nel 2019 si riprenda un vero e nuovo dialogo nazionale per raggiungere la pace, la giustizia e la riconciliazione nel nostro Paese».

 

Ma la Chiesa del Nicaragua, a differenza dell’alto magistrato che ha rumorosamente preso le distanze dal governo che ha servito per lungo tempo, vede nelle sue parole non un de profundis definitivo ma una opportunità perché il governo sandinista accetti di riprendere con serietà quel dialogo sospeso dal mese di luglio dopo poche sessioni. Lo ha ripetuto il vescovo ausiliare di Managua Silvio Báez, in prima linea dal momento in cui la crisi si è acutizzata, commentando le parole dell’ex-magistrato della suprema corte di giustizia. «Le cose che ha rivelato nella lettera di dimissioni sono un'altra occasione propizia che il governo ha di rettificare, aprire e cercare strade di dialogo». A suo giudizio sia Ortega che Rosario Murillo hanno una ulteriore opportunità per «presentarsi con una nuova volontà politica», per «trovare, attraverso il dialogo, una soluzione pacifica al conflitto che continua a dissanguare il Nicaragua». Il cardinale nicaraguense Leopoldo Brenes ha confermato la disposizione della Chiesa del Nicaragua a continuare come mediatrice e testimone del dialogo nazionale qualora venisse convocata: «Non vogliamo essere di troppo, ma siamo disponibili ad esserci se c’è volontà vera (...) Come succede quando una famiglia ha dei conflitti; noi non ci intromettiamo, ma quando veniamo chiamati offriamo il nostro servizio».

La Chiesa non si stanca di riproporre il dialogo anche davanti al rifiuto del governo di considerarlo come una strada percorribile per la soluzione della grave crisi che vive il Nicaragua e che per la prima volta fa ventilare la possibilità di una guerra civile. Lo ha fatto il Papa in diverse occasioni, prima e dopo le festività natalizie. Gli ha fatto eco il suo rappresentante in Nicaragua Stanislaw Waldemar Sommertag, che in un messaggio alla popolazione in occasione del nuovo anno ha invocato il dialogo come unica strada per uscire dalla crisi. «Dicono che il dialogo è un’arte, ma prima di tutto è un vero bisogno umano, un bisogno nella vita di ognuno di noi senza il quale vivere è impossibile», si legge nel testo del delegato apostolico rilanciato da Vatican News

Intanto la rappresaglia di Ortega è arrivata alle università del Nicaragua, l’epicentro dell’eruzione vulcanica di aprile, il punto fermo di quella protesta liquida che sembrava aver messo alle corde un governo che lascia bruciare decine di migliaia di ettari di foresta vergine, decurta le pensioni agli anziani e li malmena quando protestano, fa demolire barricate e sparare sui manifestanti, universitari nella loro maggior parte. All’Università cattolica di Managua retta dai Gesuiti è stato riservato il trattamento più duro. L’assegnazione annuale all’ateneo, stabilita con una norma costituzionale, verrà ridotta sostanzialmente di un 26,7 per cento rispetto al 2018. Un decurtamento sostanziale di cui faranno le spese 2.500 studenti con borse di studio e seicento baccellieri di scarso reddito che hanno sollecitato il beneficio economico per continuare le ricerche. «È chiaramente una ritorsione per la posizione che l'Uca ha avuto da aprile in poi, e in particolare il suo rettore, il gesuita José Alberto Idiáquez, per sostenere la ribellione civica e gli studenti che sono scesi nelle strade» spiega un docente dell’Università. L'anonimato è d'obbligo in tempi in cui per una opinione si può finire in carcere. 

Vita dura anche per i mass media. Restano appena due mesi di vita per La Prensa, lo storico quotidiano fondato da Pedro Joaquín Chamorro, la cui morte per mano della guardia nazionale di Somoza fece detonare l’insurrezione sandinista nel lontano 1979. Stessa sorte per El Nuevo Diario, un giornale nato sulle ceneri del quotidiano sandinista Barricada che è poi passato a posizioni critiche rispetto al governo di Ortega. Carta e inchiostro sono fermi da mesi nei magazzini della dogana di Managua, e si sa che senza l’uno e l’altra un giornale non arriva nelle mani dei lettori. Per prolungare la propria vita con le scorte a disposizione La Prensa ha deciso di passare dalle tradizionali 16 pagine a 14 e di ridurre il colore nel 30 per cento di esse.

Gli ostacoli all’importazione di materie prime si aggiungono all’istigamento verso i giornalisti, agli attacchi informatici alle piattaforme digitali dei media indipendenti, alla sospensione o blocco delle frequenze di radio e televisioni nazionali.

Non occorre alzare lo sguardo. Il logo di 100%Noticias scende a cascata sulla facciata dell’edificio che ne ospita la redazione e spiove sulla testa di chi oltrepassa l’ingresso del più battagliero canale televisivo del Nicaragua. Il segnale è stato spento un paio di settimane fa, i locali perquisiti dalla polizia nazionale, il direttore arrestato con l’accusa di «cospirazione» e «terrorismo» dopo che la stessa sorte l’avevano subita un paio di suoi giornalisti. Tutti rischiano il carcere per aver in qualche modo dato voce alla protesta, prima, alla repressione, poi, e ai vari tentativi di dialogo nazionale schiantatisi contro l’intransigenza del presidente Ortega e donna Murillo. Con una aggravante, che Miguel Mora, il direttore di 100%Noticias, prima dei giorni fatidici della rivolta non era un oppositore del regime. «Lo consideravano uno di loro nonostante la sua mancanza di "disciplina"», scrive l’opinionista e scrittore Guillemo Cortés Dominguez che lo conosce bene, «perché riportava anche fatti che, dal punto di vista di Rosario Murillo, solo i media "contaminati" facevano». Il distanziamento di 100%Noticias dal sandinismo arriva con la rivolta di aprile, l’aggressione a una troupe del canale e il furto di una preziosa telecamera. 

«Nel mese di dicembre il governo è intervenuto contro nove organizzazioni della società civile, tra cui la più prestigiosa, il Centro nicaraguense per i diritti umani, li ha privati della figura giuridica necessaria per operare, ha congelato i loro conti bancari, sequestrato le sedi e tutto il loro patrimonio. Quello stesso giorno hanno anche attaccato i media scritti, televisivi e digitali di Carlos Fernando Chamorro: ConfidencialEsta SemanaEsta NocheNiú. Oggi – commenta la fonte - ci sono due popolari giornalisti in carcere e una cinquantina di giornalisti in esilio». 

I commenti dei lettori