«Servono subito un piano Ue per i richiedenti asilo come quello che in Canada ricolloca 30mila persone all’anno e corridoi umanitari condivisi tra gli Stati del vecchio Continente. E i visti devono concederli le ambasciate come previsto fin dal 2009 dal Trattato di Schengen ma mai realizzato in concreto». Don Mussie Zerai, coordinatore europeo e cappellano della comunità cattolica eritrea, presiede l’agenzia Habeshia per la cooperazione allo sviluppo. 

 

Celebrando i 60 anni dalla morte del fondatore del Partito Popolare don Luigi Sturzo, il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha richiamato i valori della solidarietà e dell’accoglienza mettendo in guardia dall’«oscuramento dei valori della dignità umana e del progresso civile». L’impegno della Chiesa italiana, impegnata in prima linea nel soccorso all’immigrazione, può essere un modello per gli altri episcopati europei?

«Sì, e la concreta e quotidiana testimonianza del cattolicesimo italiano è un esempio anche per gli Stati europei, oltreché per le comunità religiose e le associazioni di volontariato che operano nel territorio dell’Ue. La condivisione tra i Paesi europei è la principale esigenza in questo delicatissimo momento storico per impedire, come ha detto Papa Francesco ricevendo il Premio Carlo Magno, che il peso dell’accoglienza ricada esclusivamente su alcuni Paesi del sud Europa, quelli che hanno l’Africa e il Medio Oriente di fronte alle loro coste. La questione può essere affrontata e risolta solo collegialmente tra tutti i Paesi Ue».

 

Finora questo, però, non è accaduto…

«Non si possono affrontare i flussi migratori solo con i numeri necessariamente insufficienti che il terzo settore e le chiese nazionali possono fronteggiare in Spagna, Italia, Malta e Grecia. C’è bisogno dell’intera Europa per realizzare un programma vasto e condiviso di corridoi umanitari. Solo così si può risolvere il problema togliendo le persone dalle mani dei trafficanti di esseri umani e impedendo i viaggi pericolosi e costosi dei disperarti che partono da Africa e Asia con l’obiettivo di approdare nel vecchio Continente».

 

Quali sono le specifiche lacune dell’Unione Europea?

«In assenza di una soluzione collegiale da parte dell’Ue, come associazioni cattoliche chiediamo un piano di reinsediamento gestito dagli Stati europei. L’impegno delle Chiese nazionali e del volontariato è un modello per le nazioni e un segno di speranza, ma i corridoi umanitari su larga scala e con grandi numeri possono farli solo gli Stati, perciò le nazioni europee devono organizzarsi per fare come il Canada che ogni anno pianifica gli ingressi e accoglie 30mila persone che hanno diritto alla protezione internazionale. Finora, invece, in Europa gli unici corridoi umanitari ad essere stati attivati sono quelli meritoriamente creati e sostenuti dalla Cei, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Chiesa Valdese. Esempi importanti e lodevoli che dimostrano come le cose si possano fare quando c’è la volontà politica di affrontare i problemi invece di strumentalizzarli ideologicamente a fini di convenienza politica interna agli Stati. Invece di passi avanti, se ne fanno indietro».

 

A cosa si riferisce?

«Già dal 2009, nell’ambito delle norme previste dal Trattato di Schengen, era stato stabilito che i visti umanitari potessero essere concessi a chi fuggiva da calamità naturali, dittature e guerre direttamente dalle ambasciate presenti nei Paesi da cui provengono i flussi migratori. Era tutto previsto dal 2009, ma di fatto è rimasto sulla carta. Soltanto la Svizzera ha utilizzato questo strumento legale, ma solo fino al 2012, poi il referendum sull’immigrazione ha bloccato questo canale. Eppure la soluzione più valida resta quella di favorire il percorso che inizia dalla richiesta alle ambasciate africane e asiatiche di visti per motivi umanitari e per l’asilo politico, sotto la supervisione e in collaborazione con l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Effettuata la verifica sulla fondatezza dei motivi della richiesta, è l’ambasciata che può rilasciare il visto sul posto, consentendo la partenza verso l’Europa».

 

Oltre alla Cei anche il Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (Ccee) ha chiesto un mese fa agli Stati di coordinare le politiche di accoglienza a livello comunitario. Quale può essere il giusto modo di procedere?

«Spetta in primo luogo agli Stati occuparsi di gestire l’accoglienza. Non si può scaricare una responsabilità così rilevante e gravosa sulle Chiese nazionali e su quel terzo settore che spesso in Italia viene criminalizzato proprio per il suo impegno in prima linea nell’accoglienza. Salvare vite e proteggere persone sono compiti dello Stato. Ciò fa parte dei doveri delle democrazie. L’Italia, all’articolo 10 della sua Costituzione, garantisce il diritto di chiedere asilo a chi si vede negati in patria tutta una serie di diritti umani e civili, a partire dalla libertà di professare la propria fede. E le richieste di asilo vengono rivolte allo Stato, non alle Chiese o alle associazioni di volontariato».

 

Rispetto agli Stati membri cosa dovrebbe fare l’Ue?

«Innanzi tutto è dovere dell’Unione Europea rispettare la Carta di cui si è dotata per tutelare i diritti delle persone. L’Ue deve pretendere che gli Stati membri rispettino gli impegni sottoscritti sui richiedenti asilo senza scaricarne il peso su Chiese e associazioni che possono dare aiuto e supporto ma non possono sostituirsi allo Stato. Solo le nazioni hanno i mezzi e le possibilità operative per realizzare corridoi umanitari per grandi numeri. Il modello, oltre al Canada, sono gli Stati Uniti prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Purtroppo oggi negli Usa è saltato il sistema di reinsediamento per i richiedenti asilo, mentre resiste solo quello per i lavoratori che ottengono la green card per trovare occupazione».

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