Il suono ha un solo muro, quello dei 1200 chilometri orari. Gli altri li abbatte da sempre, ogni volta che il suono si fa musica e come musica si scopre capace di avvicinare gli uni agli «Altri», ridefinendo le differenze. Quelle che spaventano ogni giorno di più, al posto di diventare possibilità. Possibilità di contaminazione e arricchimento verso ciò che è diverso, come ci ricorderanno i brani del concerto di mercoledì prossimo al teatro Regio in occasione della settimana che porterà a domenica, il Giorno della Memoria. Come quelli di Gustav Mahler (1860-1911), definito dai nazisti «musicista degenerato» anche dopo la morte, quando furono abbattuti dal regime tutti i monumenti a lui dedicati. O quelli di Béla Bartók (1881-1945), uno dei fondatori dell’etnomusicologia, che si fece portavoce delle contaminazioni artistiche al punto di farne un vanto anche in periodo di persecuzioni. E quelli del nostro Arturo Toscanini (1867-1957), che dall’esilio volontario negli Stati Uniti si oppose duramente al nazifascismo europeo. Queste e altre musiche trasporteranno i giovani dentro un percorso nella Memoria fatta di storie personali, per non dimenticare. Aiutati dalle parole di Carlo Sini, filosofo e accademico italiano di fama internazionale, che guiderà all’ascolto delle opere con due interventi sul diverso non solo negli «Altri», ma anche su quello che è dentro di noi.

La musica è capace di aiutare l’uomo nella comprensione di ciò che è diverso. Ma qual è il suo segreto nel suo ruolo come narrazione?

«La musica ha una forte natura educativa, perché è il luogo nel quale bisogna ascoltare gli altri. L’elemento di partenza non sono le parole, ma l’ascolto. È fondamentale che tutti gli esecutori siano in armonia tra di loro, e quindi trovino un punto d’incontro. Si fa con le note e si può riflettere nella società. Così diventa evidente che sia necessario innanzitutto accogliere l’“Altro” dentro di sé e poi capire che il diverso, di fatto, è esso stesso “sé”, che siamo il risultato di simbiosi. Sono concetti preziosi da trasmettere ai giovani che ascolteranno il concerto».

E tra un brano e l’altro, i suoi interventi. Come si lega il pensiero di un filosofo durante un concerto?

«È una scelta originale che non ho mai affrontato prima. Dovrò trovare metafore e sistemi figurativi che permettano di esplicitare quello che la musica avrà già detto, ma sotto forma di note. Quindi più difficili da decifrare. Sarò d’aiuto ai più giovani per trasmettere quello che rappresenta il Giorno della Memoria e il ricordo di qualche cosa che va continuamente recuperato tra i pensieri, a distanza di uno o 74 anni. Il ricordo è l’emblema della nostra cultura».

Affronterà il tema del diverso che è in noi. Come?

«Gli esseri umani sono l’incarnazione della storia. Ognuno di noi è un simbionte e ospita tante vite, come dimostra il nostro Dna. Questo vale per la biologia come per la storia culturale e noi italiani ne siamo l’esempio più calzante. L’estraneo è la sostanza di cui siamo fatti: è bene ricordarlo soprattutto qui, in un periodo così aggressivo nei confronti del diverso».

Allargando gli orizzonti, qual è il ruolo del filosofo in una società così complessa e tecnica?

«Viviamo un mondo di specialismo esasperato, che ha naturalmente i suoi meriti. Significa massimizzare l’efficacia e la conoscenza analitica. Ma ogni specialismo è lo specialismo di un essere umano: qual è la sua cultura di base? La filosofia, come le altre materie umanistiche, fa riferimento alla storia che abbiamo in comune e non a quella che abbiamo come singoli. In parole povere è questo il ruolo di un filosofo oggi, che non si può affidare a un ingegnere o un matematico: ricordarsi quello che siamo. È un compito apparentemente fuori moda, ma la filosofia deve essere custode di un sapere globale».

La Giornata della Memoria, se parliamo di filosofia, porta al centro della discussione Martin Heidegger: il dibattito sul suo appoggio al nazismo è ancora aperto e controverso. Come si gestisce l’eredità di un filosofo quando è così ambigua?

«Ogni personaggio ha vicende e storie che lo rendono ambiguo. Quella di Heidegger è forse una delle più dolorose. Tra capitalismo e comunismo, che avevano in comune la violenza sulle culture particolari, pensava che il nazismo fosse il sistema giusto per salvare la cultura europea dalla sua crisi. Ma non è mai stato razzista, come dimostra la sua vicinanza col suo maestro Edmond Husserl, di origine ebraica. Certe domande sulla crisi generale della civiltà europea sono ancora attuali, e dai maestri bisogna sempre e solo imparare».

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