Le organizzazioni di stampo mafioso ricoprono un ruolo primario nella tratta di esseri umani, soprattutto nei traffici a livello internazionale; sul piano locale però non va dimenticato che spesso il traffico si sviluppa all’interno di comunità e di famiglie molto povere nei Paesi del sud del mondo. È quanto hanno spiegato in Vaticano padre Michael Czerny, sottosegretario della Sezione “Migranti e Rifugiati” del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, e suor Gabriella Bottani, comboniana, coordinatrice di Talitha Kum, la rete internazionale delle religiose contro la tratta. Il prossimo 8 febbraio, infatti, si celebra la giornata mondiale di preghiera contro la tratta promossa dall’Unione internazionali delle superiore e dei superiori generali; la ricorrenza cade nel giorno di santa Giuseppina Bakhita, la religiosa canossiana vissuta a cavallo fra Otto e Novecento che fu fatta schiava poi venne liberata e si convertì al cristianesimo. 

Un tema, il contrasto al traffico di esseri umani, particolarmente caro a Papa Francesco che ha voluto dedicare il suo video mensile proprio a questo fenomeno feroce drammatico, come ha spiegato padre Frederic Fornos, direttore internazionale della Rete mondiale di Preghiera del Papa. 

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Rispondendo alle domande dei giornalisti, poi, padre Czerny ha spiegato che la «situazione si sofferenza che vivono molti profughi in Libia, è uno dei motivi di questa giornata di preghiera». Da parte sua suor Bottani ha ribadito che «in Libia siamo di fronte a casi di tortura, sfruttamento per fini lavorativi, uccisioni» dei migranti che vengono trattenuti nel Paese contro la loro volontà.

 

Suor Gabriella, voi denunciate una corruzione che favorisce la tratta e coinvolge anche organismi preposti in realtà alla tutela delle persone. Che significa in concreto?

«Spesso la polizia locale in determinati Paesi è corrotta, analoga situazione si può verificare lungo frontiere che magari sono chiuse e allora si permette il passaggio di qualcuno solo dietro pagamenti in denaro, questo quando non ci sono delle connivenze specifiche nel reclutamento o nello sfruttamento delle persone. Lo possiamo vedere in diversi Paesi del mondo. Abbiamo dei report su questo fenomeno lungo diverse frontiere, anche negli Stati Uniti, in Nigeria e via dicendo. Io lavoravo in Brasile e dovevamo stare molti attenti quando c’erano dei casi di sfruttamento minorile; sapevamo che erano coinvolti degli organismi governativi, dei giudici, ma anche politici. C’è stato un caso eclatante in cui membri del governo di uno stato amazzonico erano coinvolte in questo schema di sfruttamento sessuale di minori».

 

Spesso si parla del ruolo importante che ricoprono nel fenomeno le organizzazioni criminali e mafiose, ma voi denunciate pure una forma si sfruttamento della tratta che riguarda le famiglie, le comunità locali…

«Posso parlare per esempio dei casi del Brasile, ma la stessa cosa la ritroviamo nelle Filippine o in certi Paesi africani, dove le più giovani sono invitate da membri della famiglia, parenti, amici dello zio o della zia, a trasferirsi dalle campagne in città per studiare; dicono alle famiglie: “Dammi una di queste tue figlie che la faccio studiare in città”, ma una volta che arrivano a destinazione le ragazze vengono tenute in situazioni di servitù domestica, per cui la bambina non viene mandata a scuola ma deve rimanere in casa a servire la famiglia che l’ha invitata e in alcuni casi soffre anche diverse forme di abuso fra cui quello sessuale. La ragazza non viene pagata, gli vengono tolti i dritti fondamentali, la possibilità di ritornare - viene minacciata -, si configura così il reato di tratta perché esiste l’inganno, c’è un trasporto, esiste lo sfruttamento. In questo caso però non ci confrontiamo con una forma di sfruttamento messa in atto da organizzazioni criminali, si tratta di uno sfruttamento che nasce dall’idea che “da noi è normale”, quindi dalla normalizzazione dello sfruttamento».

 

All’origine di questo tipo di tratta quasi familiare, c’è la povertà estrema o vanno ricercate anche altre ragioni?

«Io ho imparato a non giudicare a livello morale, perché ho vissuto nelle favelas del Brasile, in situazioni di estrema povertà e so che non possiamo giudicare con troppa leggerezza a partire dalla nostra mentalità e dai nostri criteri. Spesso le famiglie cercano di offrire ai figli qualcosa di meglio quando si trovano in situazioni di estrema indigenza per cui non possiamo parlare di vendita dei bambini da parte della famiglia, magari loro ci guadagnano qualcosa ma sognano di dare una vita migliore ai figli. Ciò che questo comporta è un movimento di sfruttamento dove oltre all’estrema povertà entra in gioco la relazione di potere per cui famiglie di uno strato sociale più ricco, appartenenti a una certa etnìa, si sentono quasi nel diritto di prendere le bambine delle popolazioni native, cosa che è abbastanza diffusa, o delle popolazioni afro-discendenti; quindi esiste una disuguaglianza di tipo razziale, oppure di genere, perché “tanto sono bambine”. Per questo ci confrontiamo ancora una volta con una situazione in cui i diritti della donna o della bambina non vengono riconosciuti e di un patriarcato che quasi giustifica questo atteggiamento. Oltre alla povertà credo che fra le cause aggiungerei il patriarcato con la discriminazione delle donne e l’asimmetria razziale».

 

Che tipo di responsabilità hanno invece nel diffondersi della tratta le grandi industrie, le multinazionali, il sistema economico in generale?

«Tutti siamo responsabili, certo ognuno a livelli diversi. In questo caso parliamo soprattutto della tratta per sfruttamento lavorativo che avviene nelle aree dove c’è un maggiore sfruttamento delle risorse naturali di un dato territorio; estrazione di minerali, miniere di oro, di coltan; per altro tutto questo indirettamente è legato allo sfruttamento sessuale che in simili realtà è dei peggiori e dei più violenti. Certo le responsabilità ci sono nel momento in cui non vengono fatte delle politiche aziendali che prevedano e che garantiscano l’approvvigionamento delle materie prime senza che vi sia sfruttamento indiscriminato, né umano né della natura».

 

Che giudizio dà delle politiche restrittive sulle migrazioni promosse dal governo italiano volte ad arginare i trafficanti?

«Punire indiscriminatamente le persone dicendo che si vogliono punire i trafficanti non è una strada, di fatto di queste politiche tutti ne pagano le conseguenze; anche rispetto al decreto sicurezza le comunità delle suore legate a Talitha Kum stanno denunciando maggiori vulnerabiltà, cioè persone che si trovano senza accoglienza, cui non viene rinnovato il visto per motivi umanitari; tutto questo rende difficile anche il nostro impegno nella protezione e nell’accompagnamento, nel reinserimento sociale e nel riscatto di chi ha vissuto la tratta».

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