È una tipa tosta Bridget (il nome è di fantasia). A vederla, in Vaticano, ad una conferenza stampa sulle iniziative della Chiesa contro «il flagello» - come lo ha definito Papa Francesco - della tratta umana, non si direbbe che è la stessa persona che una ventina di anni fa è stata ingannata in Nigeria con la promessa di un impiego in un ristorante, poi buttata per strada a prostituirsi appena arrivata in Italia, picchiata quotidianamente davanti ad ogni rifiuto.

Fuggita da quest’incubo e accolta in una comunità di suore a Catania, oggi è una bella signora sulla quarantina, sposata e madre di tre figli, curata e con un taglio di capelli alla moda. Parla italiano fluentemente: «Sono in Italia dal ’97» racconta, si sente ben accolta e integrata nel nostro Paese nonostante gli episodi di razzismo che ha subito in più di un’occasione. «Meglio quello che la povertà del mio Paese, quella è brutta davvero. Meglio essere insultati che essere svegliati la mattina con delle bastonate in testa». 

Da «straniera» ed ex vittima della tratta dice che «fa male» sentir parlare di porti chiusi e gente respinta o lasciata in mare. Tuttavia usa toni sorprendentemente concilianti verso il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: «Capisco che lui ha le sue ragioni, che ci sono difficoltà qui per gli italiani, soprattutto per i giovani, che non trovano lavoro e via dicendo. Però non si può dimenticare che siamo esseri umani, che veniamo da sofferenze profonde. Ci dobbiamo aiutare l’un l’altro».

E se lo incontrasse Salvini, cosa gli direbbe? «Se lui mi abbracciasse, io lo abbraccerei pure. Lui ha le sue motivazioni, dobbiamo rispettarlo. Però anche lui deve un po’ rispettare noi, anche se siamo “stranieri” (ride)». 

Bridget è così. È una persona schietta e coraggiosa, che non si fa problemi a litigare al telefono con le madame che conducono le giovani donne sulle nostre coste per intrappolarle nella «gabbia» della prostituzione. «Ormai mi dedico completamente a loro, ci sto vicino dalla mattina alla sera, a volte dimentico di tornare a casa nonostante abbia figli piccoli… Però so che fine farebbero e non posso permetterlo».

La donna collabora con l’Istituto San Giuseppe di Catania come educatrice e mediatrice culturale e la sua missione è supervisionare i porti dove arrivano le navi cariche di migranti: appena vede giovani ragazze arrivare, la maggior parte delle quali minorenni, le bracca e le prende con sé, mettendole subito in guardia dai pericoli. «Non andate in nessun posto. Non rispondete al telefono, gli dico. E se le chiamate continuano, rispondo io. Ho discusso tanto con le loro madame perché nel momento in cui mettono piede in Italia iniziano ad assillarle al telefonino. La mia missione è liberarle». 

Bridget accompagna queste giovani nella sua comunità dove ricevono cure e supporto psicologico: «Arrivano spesso piene di malattie, sporche, con i pidocchi. Senza una dignità! Soprattutto quelle che vengono dalla Libia. Vedere esseri umani trattati così… piangere non basta. Noi cerchiamo di farle rivivere, le puliamo, buttiamo i loro vestiti. Mi ricordo di una ragazza che ho accompagnato sotto la doccia e ha iniziato a piangere dicendo: “Dio ti ringrazio”».

Nella comunità alle ragazze viene anche insegnato un mestiere artigianale attraverso corsi e laboratori: «Lavorano la ceramica, fanno il pane, i dolci, la pizza, cuciono, sono bravissime! È un sistema che abbiamo elaborato con la superiora anche perché quando poi diventano maggiorenni cosa fanno queste ragazze? Se non le indirizziamo verso qualcosa, siamo punto e a capo. Molte altre comunità ci hanno preso a modello». 

Una volta messe al sicuro, c’è però un altro ostacolo da superare: «Quando arrivano e vengono accolte, chiedono: “Posso telefonare a mia mamma, alla mia famiglia per dire che siamo arrivati?”. Noi gli diamo il telefono della comunità e lì inizia il nostro incubo…».

In che senso? «Molto spesso sono i genitori i primi complici di questo giro. Sono così poveri da essere costretti a vendere le figlie, anche se sanno che finiranno per prostituirsi. Una volta una mamma ha iniziato a urlare contro sua figlia al telefono: “Perché devi stare in comunità? Vai a lavorare!”. Ho preso il telefono e le ho detto: “Tu sei davvero una madre? Tu non sei una mamma, perché altrimenti dovresti proteggere tua figlia, vai tu a prostituirti non lei”. A volte siamo costretti a bloccare queste telefonate, perché dopo aver sentito le loro famiglie queste ragazze fanno fatica a riprendersi, piangono tutto il giorno, non vogliono mangiare, non si alzano più dal letto. Alcune hanno anche allucinazioni».

Scene ai limiti dell’assurdo, ma c’è da dire che molti genitori sono ingannati: «Pensano che qui in Italia tutti abbiano lavoro, grandi macchine, belle case e sperano che possa essere questo il destino pure per i loro figli». Ma possibile che dopo tanti anni che questo fenomeno della tratta si ripete con numeri spaventosi che crescono di anno in anno, in Africa non ci sia una informazione adeguata? «Sì, ma c’è la povertà, non c’è da mangiare. E c’è gente che viene a raccontare bugie a queste povere famiglie. Promettono lavoro, danno soldi in anticipo. Molti fanno anche riti vodoo perché le figlie giungano a destinazione e guadagnino. Una sorta di contratto… Promettono che restituiranno i soldi ricevuti in prestito e finiscono per essere ricattati e minacciati. Per questo poi si arrabbiano se le figlie non si danno da fare». 

«È successo anche a me con una signora che mi prometteva un posto in un ristorante famoso, mi ha portato qui in Italia in aereo. Tutto pagato… Una volta arrivata qui, a Ferrara, mi hanno buttato per strada. “Devi andare a lavorare”, mi gridavano. E mi picchiavano perché io rifiutavo. Alla fine dopo un anno sono scappata grazie ad un’altra ragazza e sono uscita da quest’incubo grazie alle suore, le Serve della Divina Provvidenza. Poi ho denunciato chi mi ha fatto del male».

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