La tornata elettorale del 2018 in Costa Rica, Brasile, Messico, Paraguay, Colombia e Venezuela ha registrato l’irruzione di un protagonista nuovo sugli scenari politici dell’America Latina, quella del movimento evangelico di matrice pentecostale. È una tendenza che vedremo sicuramente confermata anche nel 2019, nelle elezioni presidenziali di altri sei Paesi latinoamericani che andranno al voto tra febbraio e ottobre: Argentina, Bolivia, El Salvador, Guatemala, Panamá e Uruguay. In tutti la presenza evangelica pentecostale è ascendente e numerosi leader religiosi di queste chiese hanno già messo le carte sul tavolo annunciando l’impegno politico diretto. Altri filamenti della galassia religiosa neo-protestante fiancheggiano in forma sempre più ravvicinata il perimetro del potere politico statuale, dove selezionano candidati considerati affidabili nei principi su cui convergere in massa, o lanciano nell’arena della competizione elettorale pastori delle loro molteplici denominazioni tra i più popolari nel seguito pentecostale. 

La tradizionale tendenza astensionista delle chiese protestanti in America Latina degli anni ’70 e ’80 è oramai alle spalle, sostituita ovunque da un protagonismo che assomiglia a quello cattolico di mezzo secolo fa, anche se di segno differente per ciò che riguarda gli approdi politici favoriti, che per lo più vanno a partiti e politici di destra come insegna il caso del Brasile del presidente Bolsonaro. Al punto che il mondialmente conosciuto teologo Jean-Pierre Bastian, docente della Facoltà di teologia protestante dell’università Marc Bloch di Strasburgo, può sostenere la provocatoria tesi che in realtà «i movimenti protestanti popolari – soprattutto quelli pentecostali – rappresentano oggi più la continuità di una forte tradizione popolare cattolica che un fenomeno propriamente protestante» e che «i movimenti protestanti si sono latinoamericanizzati al punto da assimilare la cultura religiosa del cattolicesimo». Si è insomma passati da una posizione di evasione dal mondo, ad una di segno opposto, volta a trarre profitto politico dal capitale religioso, senza passare per una riflessione teologica che accompagni e orienti un cambiamento di questa portata.

Entrando più addentro nelle varie fasi del processo di metamorfosi consumato dal movimento protestante evangelico negli ultimi anni si osserva che l’impegno politico pentecostale tende a declinarsi secondo tre modalità principali: la conformazione di un partito evangelico in quanto tale, integrato prevalentemente da «fratelli di fede», la formazione di un fronte evangelico che accoglie anche persone e movimenti non riconducibili all’evangelismo, ed infine la cosiddetta fazione evangelica, con movimenti o leader evangelici che stabiliscono alleanze elettorali finalizzate al raggiungimento dell’elezione ad una carica pubblica. 

La prima variante, quella del partito evangelico, non ha dato ancora i risultati attesi, la seconda, quella del fronte evangelico, ha permesso la convergenza con altri settori politici non evangelici su questioni e battaglie puntuali, per promuovere (Cuba, Costa Rica, El Salvador, Brasile) o frenare (Argentina, Colombia) progetti che attentano a valori morali considerati fondamentali dagli evangelici, la terza variante, la fazione evangelica, ha portato in Parlamento, al governo e finanche alla presidenza della repubblica uomini di fede evangelica conclamata.

Il caso della Colombia ha un valore fortemente esemplificativo. È notorio che in occasione del referendum dell’ottobre 2016 sugli accordi di pace sottoscritti tra il governo dell’allora presidente Juan Manuel Santos e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) per mettere fine a mezzo secolo di conflitto armato, il voto evangelico ha sensibilmente condizionato un risultato che i sondaggi della vigilia davano a favore del fronte favorevole agli accordi. Analisi posteriori alle elezioni hanno determinato che in termini elettorali almeno due dei sei milioni di voti che ottenne il “No” agli accordi con la guerriglia provenivano da elettori di fede evangelica o da essi direttamente mobilitati e che tale forza di sbarramento ha praticamente deciso le sorti del plebiscito.

In Cile, dove la presenza evangelica ha radici remote che risalgono alla chiesa Metodista Pentecostale nel 1910, e ramificazioni nella maggioranza delle istituzioni dello stato, carceri e gendarmeria tra le altre, nel 2000 venne sottoscritto un accordo che poneva l’evangelismo nazionale allo stesso livello del cattolicesimo. Non sorprende, pertanto, che i candidati alla presidenza – e la stessa ex-presidente Michelle Bachelet – abbiano fatto appello ai voti degli evangelici e abbiano tenuto conto delle loro istanze nei programmi presentati agli elettori.

Il caso della Bolivia è analogo, con il governo di Evo Morales che sta discutendo in queste settimane una nuova legge sulla libertà religiosa che equipara le chiese protestanti a quella cattolica. In cambio la rappresentanza evangelica che negozia l’accordo ha assicurato l'indipendenza politica nelle elezioni presidenziali di ottobre. Una astensione che a ben vedere è un modo anch’essa per far pressione sul governo.

In Brasile, il Paese con la popolazione pentecostale più numerosa del mondo, i politici che possono essere considerati una espressione diretta della variegata galassia evangelico-pentecostale hanno dato vita ad un Fronte parlamentare composto da 92 deputati – erano 36 nel 2006 – appartenenti a 14 partiti differenti; il numero si amplia a 189 se si includono nel computo i parlamentari che si allineano con il blocco evangelico su temi sensibili ai primi. Basti ricordare che i voti del fronte evangelico sono stati di notevole importanza – determinanti secondo alcuni analisti politici – per l’impeachment della ex presidente Dilma Rousseff, l’approvazione di talune leggi durante il governo di Michel Temer e l’elezione di Bolsonaro alla presidenza contro ogni pronostico. Non manca chi fa notare che la presenza degli evangelici brasiliani è ancora sottorappresentata ai massimi livelli politici a partire dalla semplice considerazione statistica che essi rappresentano il 30% della popolazione del Paese a fronte di una rappresentanza parlamentare del 15%.

A poco più di cinque secoli dalla Riforma (1517) e a poco più di un secolo dal Congresso di Panama (1916) che per i protestanti segna l’inizio formale del movimento evangelico latino-americano, la politicizzazione del pentecostalismo può dirsi consumata. «La politica è una realtà da cui non si può fuggire», afferma lo studioso metodista di nazionalità paraguayana Pablo Alberto Deiros, membro della Società Biblica Internazionale, e gli evangelici hanno finito con il buttarvisi a capofitto.

Prima di chiedersi le ragioni della loro metamorfosi occorre prendere coscienza di quale sia storicamente il momento in cui la crisalide ha cominciato a trasformarsi in farfalla. Diversi studi convergono nell’indicare gli anni ‘70 come il punto di rottura della stabilità religiosa nel continente latinoamericano. Tra il 1910 al 1950, ad eccezione del Cile e di Porto Rico, il declino cattolico in America Latina era appena percettibile e l’ascesa evangelica altrettanto sotto tono. Quattro secoli e mezzo di cattolicesimo erano appena scalfiti da flessioni che le prime statistiche registravano in meno di due punti percentuali. L’assetto religioso del continente, almeno in superficie, era ancora un mare appena increspato da piccole onde. Negli anni posteriori al celebre 1968 europeo, che in America Latina impatterà qualche anno dopo, inizia una marcata dispersione cattolica che l’istituto di ricerche Latinobarometro fa oscillare tra 47 punti percentuali di perdita in Honduras a 5 punti di flessione in Paraguay.

La partecipazione degli evangelici alla politica dei partiti latino-americani si inaugura a pelle di leopardo in diversi punti del continente negli anni ‘70, si estende lungo la prima metà degli anni ’80 e si generalizza dal ’90 ai nostri giorni. Con momenti propulsivi di grande importanza, come quello della “Consulta Teología y práctica del poder” svoltasi nel 1983 nella Repubblica Dominicana, o l’incontro nazionale di leader pentecostali nel 1985 in Brasile, che si chiuse con la decisione di presentare candidati in tutti gli stati dove ciò fosse possibile all’insegna della parola d’ordine che «il fratello vota per il fratello».

Nasce in Colombia il primo partito politico evangelico nel 1989, e l’anno seguente presenta già un candidato alla presidenza; in Perù, dopo alcuni timidi tentativi nel 1980 e 1985, gli evangelici entrano con forza sullo scenario politico. In Brasile la grande irruzione evangelica inizia con le elezioni dell'Assemblea Costituente di 1986, mettendo fine a una sorta di autoesclusione dalla politica partitica. La prima incursione politica di successo in Guatemala sarà l’elezione dell’ingegnere Jorge Serrano Elías che governerà il Guatemala dal 1991 al 1993, primo evangelico a raggiungere un tale traguardo.

Per i nuovi protestanti il mondo non è più una sorta di sala d’attesa dove ci si prepara alla trasformazione finale ma il luogo della battaglia per la conquista delle nazioni al nome di Dio. Sempre più numerosi, pensatori e leader evangelici pentecostali e neo-pentecostali spodestano i vecchi pastori e li soppiantano alla guida di legioni sempre più numerose di fervorosi credenti educati al nuovo verbo di una teologia che esalta la prosperità come premio divino. 

Un autore influente nella teologia latino-americana evangelica, l’argentino di fede metodista José Miguez Bonino, osserva che «molti degli evangelici che entrano la politica non sono membri delle denominazioni tradizionali ma provengono da gruppi per i quali il mondo politico era sempre stato sospetto, sconveniente per un vero credente e finanche diabolico». Questi nuovi evangelici «mirano a creare partiti politici confessionali che siano “il braccio secolare” delle loro chiese e meri strumenti di evangelizzazione, come la Chiesa Universale del Regno di Dio, o le Assemblee di Dio in Brasile, o le mega chiese colombiane che formano i loro partiti politici familiari». Irrompono in politica con connotazioni fortemente integraliste. Cedono alla tentazione «di usare il potere politico al servizio della Chiesa per sostituire un presunto potere politico della Chiesa cattolica». 

1/ Continua

 

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