Di fronte all’epilogo della vicenda di Theodore McCarrick chi conosce la storia della Chiesa ricorda il precedente di Louis Billot (1846-1931) e la sua rinuncia alla berretta cardinalizia nel settembre del 1927, dopo una drammatica udienza con Pio XI. Allora l’oggetto del contendere fu di altra natura: Billot aveva criticato duramente la presa di posizione del Papa contro il movimento dell’Action française: si trattava di un dissenso di carattere politico, con qualche ricaduta culturale e disciplinare. In sintesi: una questione di “potere”.

Oggi il triste caso dell’ex arcivescovo di Washington mette tragicamente a fuoco gravissimi disordini sessuali: sesso e potere, dunque. Senza scomodare M. Foucault, è facile cogliere i singolari intrecci tra queste due realtà. Il potere di qualunque natura si è sempre preoccupato di disciplinare il sesso, anche quando – paradossalmente come al presente - codifica che «tutto è permesso». Gli atti della sessualità spesso esprimono un “potere” verso se stessi o gli altri: non a caso il fantasma che terrorizza in questo ambito della vita è essere “impotenti”.

Difficile non riconoscere quanto tutto ciò abbia obiettive ricadute nella tessuto delle vita ecclesiale: per secoli il disciplinamento degli atti della sessualità ha rappresentato una delle dimensioni determinanti della cura pastorale dei fedeli, proprio quando la Chiesa sembrò perdere quote significative di “potere” in una società via via sempre più secolarizzata.

Su questo sfondo diventa forse più agevole comprendere l’insistenza con la quale Papa Francesco ribadisce la necessità di combattere il clericalismo. Proprio in questo fenomeno si pongono le condizioni per un’insana alleanza tra potere e sesso. Essa è favorita dalla riduzione del sacerdozio ministeriale (preti e vescovi) a un ruolo, tutto compreso in compiti, prerogative, poteri da esercitare: si pongono le premesse per una separazione tra pubblico e privato.

Quanto questa sia dannosa per la missione della Chiesa è ben documentato dalla sua storia. Quanto più essa è stata corriva alla tentazione del clericalismo, tanto più è stata incapace di abitare il “pubblico” in maniera efficace e propositiva. Ci si dovrebbe interrogare sul peso che un assetto clericale delle nostre comunità abbia impedito di misurarsi con le sfide della storia e rendere presente e operante la novità della proposta cristiana tra gli uomini del nostro tempo.

In breve: il clericalismo di quanti nella Chiesa hanno responsabilità di governo ha favorito una privatizzazione dell’esperienza cristiana. Le dolorose vicende di disordini morali tra il clero mettono però in luce anche altri nodi da sciogliere. Chi scommette su un ruolo e un potere da esercitare non ha bisogno di amici. Certamente cerca dei nemici: lottare contro di essi è condizione indispensabile per esibire il proprio potere. Può avere bisogno di complici o cortigiani, di amici no. 

A questo livello si comprende che il clericalismo comporta una “censura” sulla dimensione della vita affettiva: se il prete deve esercitare un ruolo non può avere nessuna preferenza o coinvolgimento affettivo con chicchessia: così si giunge alla figura di un prete anaffettivo, la negazione obiettiva del suo essere pastore e padre.

Purtroppo qui si gustano i frutti amari di una mentalità che, distinguendo tra “ruolo” pubblico e “vita” privata, è all’origine della leggerezza con cui non pochi sacerdoti hanno accettato di condurre una «doppia vita». Essa può essere in qualche modo «tollerata» soggettivamente proprio perché non avrebbe a che fare – nell’intenzioni di chi la pratica – col proprio compito e sugli atti con cui si esercitano compiti istituzionali.

Alla luce di queste considerazioni si può davvero riconoscere quanto battere in breccia ogni profilo di clericalismo sia oggi, per la vita della Chiesa, una sfida decisiva. Un antico proverbio sicilano insegna che l’esercizio del potere è ancora più gratificante del piacere sessuale. Così nella Chiesa è necessario prendere atto che i gravissimi disordini nella vita privata di troppi chierici affondano le radici in un terreno molto più vasto. 

Fare chiarezza e intervenire con decisione è assolutamente urgente. Altrettanto indispensabile, però, è porre mano a una profonda revisione sia della formazione del clero sia della cura di quanti già esercitano il ministero. Essi sono chiamati a esercitare una paternità (non un ruolo) nei confronti di una comunità: questa è il luogo in cui l’affettiva del pastore trova stabilità e dove è negata all’origine la malefica separazione tra pubblico e privato.

* Ordinario di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia – Roma

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